Gli schiavi di Bella Farnia ci sono da un pezzo nell’Agro Pontino e anche i caporali.
In chi si è appassionato e ha studiato la lunghissima storia della bonificazione della “Paludi Pontine” sa che così veniva denominata quella porzione di territorio malarico compreso tra i Monti Lepini e gli Ausoni, il Mar Tirreno e il promontorio del Circeo, lo stesso che, prosciugato e intelligentemente irrigato, è divenuto “Agro Pontino”. Tutti sanno che per tenere a bada la macchia umida e incolta e renderla produttiva bisognava lavorare sodo come sembra fecero i Volsci, gli indoeuropei della prima ondata, i cosiddetti “italici incineratori”, perché cremavano i morti. E anche quelli delle ondate successive come gli Osco-Umbri, che i morti, invece li seppellivano: “italici inumanti”. Sempre in lotta con gli aborigeni, la gente del Latium, quella che poi costruì l’Impero romano, aveva già provveduto ad inventare la storia dei gemelli allattati dalla lupa per costruire la leggenda della fondazione di Roma, nel 753 a.C. Come che sia, per andare da Roma a Capua, Appio Claudio, il "Caecus", che vedeva lontano, fece costruire la “Regina Viarum”. Era stata pensata come una specie di autostrada, assolutamente indispensabile, dopo che Appio Claudio aveva sconfitto i Sanniti, nel 312, a.C. e doveva anche controllarli. Il personaggio, che era stato anche censore, console e dittatore, voleva attraversare comodamente l’orrida Palude Pontina, specie nel tratto da Cisterna a Terracina, poco meno di cinquanta km., che era sempre stato un tormentoso supplizio, altrettanto insidioso quanto affascinante, al tempo stesso. Sapeva benissimo che più non si faceva manutenzione, più s’interrava la laguna o s’impaludava il territorio. Moltissimi anni fa, quando ancora andavo a pesca lanciando il “rezzaglio”, un attrezzo che i terracinesi della pesca di battigia chiamavano “acchio”, mi avevano svelato un segreto: «Prufessò, vai a lu Castello de Torre Astura, passi sotto lu ponte e dài due botte, una di quà e una di là, così ti fai maschio e contro-maschio, piano piano, però, senza te fa sentì, vedrai lu pesce!». In effetti da quel punto di osservazione, dopo Nettuno, l’estremità del rinomato paesaggio litoraneo dove pare vi sia stata la villa di Cicerone, ho visto coi miei occhi, a ponente Anzio e a levante, lontano, oltre la boscaglia, la montagna del Circeo.
Giulio Cesare nonostante fosse preso dalla guerra ai Galli, ci aveva pensato di sistemarla, ma non fece in tempo perché cadde alle idi di marzo del 44. Si dovette passare ai Papi, perché l’opera di sistemazione delle pendenze idriche di svuotamento del padule malarico, era imponente difficile e costosa. Il primo a dar segni d’interesse fu Sisto V, un frate minore marchigiano di Grottammare, sull’Adriatico, tra la foce del fiume Tesino e San Benedetto del Tronto, figlio di pescatore attento e capace. Con una bolla del 1588 stanziò un contributo da investire per avviare la bonifica delle paludi pontine, ma morì nel 1590. Ci vogliono ancora un paio di secoli per arrivare al vero padre della bonifica moderna, quel dotto illuminista cesenate di nome Giannangelo Braschi che salì al soglio pontificio nel 1775 come Pio VI, per constatare che tra personale locale e dirigenti romagnoli o romani non correva buon sangue, sotto i Monti Lepini. Il Braschi stesso era profondo conoscitore della zona e delle genti della palude essendo stato giovanissimo, segretario alla Diocesi di Ostia e Velletri, retta all’epoca dal Cardinale Ruffo.
Non possiamo passare sotto silenzio, però, la storia difficilissima dell’immigrazione nell’agro pontino delle popolazioni del norditalia, nel ventennio fascista. La sofferenza dei trapiantati fu celata dai Cinegiornali Luce dell’epoca che diffondevano la famosa “battaglia del grano” (1925) con Benito Mussolini a dorso nudo e fasci di spighe di “grano tenero ardito, taglia bassa” non certo il “Senatore Cappelli”. Sono ancora in tanti a credere che la bonificazione della “Palude Pontina” sia stata opera di Benito Mussolini, ma non è così. Se forse un merito gli si vuol trovare fu quello di aver sostituito con mosse rapide e determinate il vertice dell’Opera Nazionale Combattenti, che presiedeva alla complessa vicenda: l’assegnazione delle unità poderali-Onc a tutti coloro che ne avessero presentata domanda, in qualità di reduci della “grande guerra”. Erano pronti, per ciascuna famiglia un appezzamento di terreno, mediamente della grandezza di 15 ettari. Un fabbricato rurale a due piani, la “casa colonica”, di un colore rosso-mattone scuro caratteristico. La dotazione comprendeva, una cucina, una camera da pranzo, il magazzino e due stalle: una per i bovini e una per il cavallo. Al piano superiore vi erano 4/5 camere da letto. Sull’aia c’erano un rustico provvisto di forno, il pozzo, l’abbeveratoio, il pollaio, il porcile, il concimaio e il gabinetto di decenza. I bovini erano assegnati in ragione di mezzo capo per ettaro. Alla dotazione colonica, sulla quale a lungo si discusse quanto dovesse essere comoda o scomoda, vale a dire “sudata”, corrispose anche un “debito colonico”. Il fatto non è di poco conto, perché quando il colono mezzadro divenne proprietario, meglio “il padrone”, a seguito del riscatto del podere, le condizioni al bracciantato le dettò lui o chi per esso, come il “caporale”. Mio padre, Ernesto, che aveva studiato il latifondo siciliano, scrisse che da quelle parti i “caporali”, si chiamavano “mafia”.
Il caporalato nella palude e poi nelle pianura pontina, dopo che i Volsci, sconfitti dai Romani, abbandonarono il territorio, divenuto acquitrinoso, c’è sempre stato e la “guerra” al turpe fenomeno, non gli è mai stata fatta! Nelle zone più alte della selva, gli autoctoni, i primitivi inselvatichiti del padule, vivevano di stenti, larve di persone chiamati “guitti”, ma anche “capannari” o “macchiaroli”. Gente poverissima, malaticcia squassata da febbri malariche ricorrenti. Avevano provveduto a ritagliare qualche spiazzo di boscaglia asciutta e liscia per costruirci i loro ripari che chiamavano “léstre”. Lì, prima della bonifica integrale, i léstraioli avevano costruito le loro capanne, «con giunchi intrecciati, solitamente a base rettangolare o ellittica con una copertura conica molto accentrata. [...] Il pavimento era costituito da assi di legno oppure di uno strato di fasci miste a calce bianca». Sopra «La copertura conica [...] è formata da uno spesso strato di cannucce palustri oppure scaglie di corteccia o tavolette di legno». Per entrarvi, forse, nei periodi in cui erano costretti a soggiornavi, codesti “guitti” dovevano strisciare, stando alle descrizioni dei ricercatori. «La costruzione non presentava aperture se non quella di accesso, bassa e stretta. L’interno era costituito da un unico ambiente dove al centro era posto il focolare delimitato da pietre. Sopra il focolare era posto un bastone, che si estendeva lungo tutto il diametro della costruzione, al quale ne era influcrato un altro in maniera tale da sostenere un recipiente e regolarne l’altezza. I giacigli erano collocati intorno al focolare, mentre gli arredi erano costituiti da un unico cassettone circolare che ricalcava il perimetro della capanna, sollevato da terra e diviso in molti scomparti, una madia per il pane, alcuni sgabelli e recipienti di terracotta» (Cfr Antonio Rossi. La lestra - lunedì, 21 Dicembre, 2009 14:33 “pontiniaweb”). Anche allora, era qui che i “caporali” dell’epoca, venivano a prendere la manovalanza bracciantile giornaliera, per un lavoro da spezzare la schiena con nessun guadagno e sgradito. Tenevano il conto delle ore lavorate e per anticipo non davano denaro, ma pane, pasta, sale, strutto, vino petrolio per la lampada e sottraevano sempre qualcosa dal debito che s’era accumulato.
Un breve cenno sulla struttura economica-amministrativa dell’ONC. L’Opera Nazionale Combattenti era un ente assistenziale fondato nel 1917 da Francesco Saverio Nitti e Alberto Beneduce. Nel 1923, all’inizio del regime fascista subì una prima trasformazione da Opera in Ente economico, cui venne affidato come compito principale la trasformazione fondiaria e l'incremento della piccola e media proprietà, indirizzandole verso lo sviluppo dell'agricoltura. Successivamente, nel 1926, Benito Mussolini, nominò alla direzione Angelo Manaresi, un avvocato bolognese, noto squadrista della prima ora, famoso per aveva partecipato alla “strage nera di Palazzo d’Accursio” contro la popolazione riunitasi per l'insediamento della nuova giunta comunale bolognese socialista di Enio Gnudi (1920). Nel 1932, però, Mussolini nominò direttore dell’ONC, Valentino Orsolini Cencelli, un altro squadrista di Magliano Sabino, il più noto latifondista fra i camerati del Duce. Probabilmente andava svelto, era, come si dice, del mestiere, toccava le leve giuste e si gettò a capofitto nell’impresa, forse pestando qualche piede vendicativo. Appena due anni dopo, nel 1934, Mussolini lo rimosse improvvisamente dall’incarico, per rimpiazzarlo con lo squadrista pugliese Araldo di Crollalanza. Abbiamo trovato la lettera di Benito Mussolini indirizzata al direttore dell’ONC: «Caro Cencelli, ritengo che sia opportuno procedere al cambio della guardia all'O. N. Combattenti, gli anni del suo Commissariato sono stati fecondi di attività e di risultati. Non solo l'Italia, ma tutto il mondo ha constatato, con ammirazione il prodigio avvenuto in quelle che furono le paludi Pontine. Molto di ciò si deve a voi, alla vostra capacità, alla vostra tenacia e alla vostra fede. Ve ne do atto con particolare compiacimento. Il vostro nome resta legato a questa grande opera del Regime. Il Camerata di Crollalanza vi sostituirà, a lui darete, alla data che stabilirà, le consegne, 24 marzo XIII, Mussolini» (Cfr. Riccardo Mariani). L’ONC fu sciolta nel 1977. Certo che lotta intestina tra i gerarchi fascisti era continua e senza esclusione di colpi, ma anche il “figlio del fabbro”, nonché “Duce del Fascismo” non sopportava che gli si desse ombra. Tutti sanno che era geloso di Italo Balbo per via dei “Sorci verdi”, la trasvolata del 1936.
Ho conosciuto una famiglia trapiantata dalla Valsugana, con il prete omodialettale incorporato, pilotata dall’Opera Nazionale Combattenti che, a livello di assegnazioni in loco e di controllo, si articolava con tecniche e metodiche caporalesche. Andava a trovarli mia madre per recar loro conforto, essendo corregionale autorevole e mi ci portò anche me, perché avevano seri problemi neurologici psichiatrici e psicosociologici dovuti all’immigrazione. Soprattutto al fatto di essere stati costretti a partire dalla terra dove erano nati, andare a lavorare in luoghi diversi, insalubri, malarici e con un dialetto assolutamente incomprensibile, per disegni imperscrutabili. Per afferrare il bandolo della matassa, fui costretto ad utilizzare una specie di “etnopsichiatria fatta in casa”, “at home”, come avrebbe detto Tullio Seppilli. Il costo della convivenza tra allogeni e aborigeni nonché i problemi d’insediamento tra i nuovi venuti ritenuti selvaggi tedeschi tanto che li chiamavano “Tischke-Toschke”, furono enormi. I primi parlavano dialetti diversi, vivevano in territori sconosciuti, la gestione amministrativa e gerarchica dell’ONC era durissima e non senza favoritismi. Bastava ascoltare i proverbi che definivano il lavoro dei contadini e dei marinari ”Cuntadine cucuzziè marenare purpetiè”, “Cispadani e Marocchini”. Descrivendo queste polemiche, non solo linguistiche, ma profondamente socio-economiche e anche politiche, Antonio Pennacchi si guadagnò lo “Strega” del 2010 con “Canale Mussolini”, in cui scrive «Contadini emiliani, veneti e friulani lasciano le proprie terre, dove non rimaneva altro che stare a "puzzarsi di fame" e diventano i primi attori del nuovo sogno italico di grandezza. A migrare sono famiglie intere, con nonne che sanno guidare un carretto e governare le bestie, uomini forti come tori, donne spavalde che alle feste della mietitura ballano e ridono con tutti i maschi, truppe di bambini di ogni età. Sono i ‘cispadani’ scesi dal Nord, e i ‘marocchini’ del Lazio li guardano con sospetto, spiano le loro abitudini disinvolte, le loro donne in gonne corte e sgargianti, allegre». Storia tramontata, ora si sfruttano gli schiavi indiani, una nazione ormai prima nel mondo per popolazione! Secondo lo “State of World Population” 2023, riferito dall'UNFPA, l'India avrebbe una popolazione di circa 1 miliardo 429 milioni di individui, tre milioni in più delle Cina. Si invitano gli schiavisti pontini a prestare la massima attenzione, la loro “merce antropologica”, potrebbe esplodere!
Si sa per certo che c’è un “sindacato di strada”, per questi lavoratori indiani. La sigla è FLAI CGIL federazione lavoratori agro-industriali, che, nel pontino, seguono i lavoratori indiani di Latina proprio “li dove sono”, “mentre si spostano” al mattino e al ritorno. Le sequenze televisive di quei giorni terribili di crudeltà inaudita, hanno mostrato tre volti femminili di intensa emotivà, più efficaci di qualsiasi articolo di fondo. Chi ha dato la notizia in televisione, Hardeep Kaur segretaria Flai Cgil di Latina, un volto di donna, determinata, di carnagione scura, che parlava bene l’italiano, le grida disperate di Soni, la moglie di Satnam Singh, al carnefice del marito, perchè lo portasse all’ospedale, il volto tumefatto dal dolore della madre dello schiavo sikh ucciso lontano dal Punjab, che dall’India ripeteva: "Fatemi vedere il corpo di mio figlio, il posto dove è morto, l’uomo che lo ha abbandonato", mi hanno rievocato il nostro medioevo, i protagonisti della passione declamata nella Lauda di Jacopone da Todi, Il pianto della Madonna, bastano le prime quindici terzine
Nunzio
«Donna de Paradiso / lo tuo figliolo è priso / Iesu Cristo beato. / Accurre, donna e vide / che la gente l’allide / credo che lo s’occide, / tanto l’on flagellato»
Madonna
«Como essere porria, / che non fece follia, / Cristo, la speme mia, / om l’avesse pigliato?».
Bibliografia
Antonio Pennacchi, "Canale Mussolini", Mondadori, Milano 2010.
Marie-René de La Blanchère. Dalle terre pontine all’Africa romana, a cura di Stéphane Bourdin e Alessandro Pagliara. École Française De Rome. 2019.
Doparsi per lavorare come schiavi, In Migrazione, 2014 ( http://www.inmigrazione.it/ ).
Riccardo Mariani, Latina, Storia di una città, Fratelli Alinari Editore, Firenze 1982.
Iacopone da Todi. Laude, a cura di Franco Mancini, Roma-Bari, Laterza, 1974.
Oscar Gaspari, L'Emigrazione veneta nell'Agro Pontino, Morcelliana, 1985.
Riccardo Mariani, Fascismo e "città nuove", Feltrinelli, 1976.