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Osservatorio sui Disturbi Alimentari
di Giovanni Abbate Daga

IN TRASPARENZA LA VITA

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19 settembre, 2024 - 16:01
di Giovanni Abbate Daga

 
di Nadia Delsedime
 
“La malattia mi ha fatto diventare bugiarda…
Dove loro vedono le ossa, io vedo la carne, una carne viva e pesante. …vedo un coagulo di sensi di colpa. Vedo tutto, non vedo la malattia. Non oso neanche nominarla. Non si nomina ciò che è sacro” (Beatrice Sciarrillo)
 
Quando qualcuno trova la propria voce, lo si sente. Quando qualcuno trova la propria voce, sa nominare le cose. Può nominare le cose. Perché le riconosce, ne ha coscienza e ne ha il coraggio. E quando le cose vengono nominate, prendono vita. Diventano concrete.
Quando si trova la propria voce, si può rendere testimonianza. Diventare testimonianza. E magari essere d’ispirazione e dare conforto.
Nessuno è solo nelle esperienze che fa, perché – benché ciascuno sia unico in se stesso- le esperienze di malattia sono molto simili fra loro; e la fregatura è che nella malattia, proprio in quella malattia che dovrebbe esplicitare la propria “unicità”, si diventa tutti uguali.
Rendere testimonianza significa condividere una esperienza, significa affermare che nessuno è solo in ciò che vive, prova, subisce.
Questo libro- romanzo, piccolo saggio romanzato di diagnosi e cura dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) - è importante in quanto testimonianza viva e scomoda di un’esperienza di vita sofferente, di un’esperienza di una fragilità anche importante e della possibilità di superarla.
Nominare, farsi voce, condividere, queste le parole chiave del percorso di cura e di crescita/ miglioramento, poiché guarigione è parola troppo impegnativa e definitiva che spaventa.
In fondo se – come mi piace pensare – la malattia è un viaggio omerico all’interno dei propri abissi e si conclude scoprendo di sé qualcosa di nuovo e di più vero, non è proprio corretto parlare di “guarigione”, perché non si guarisce mai da se stessi. Ci si trasforma, si evolve, si scoprono nuove parti di sé e si approda a nuovi porti.
Quindi migliorare non significa solo avere meno sintomi, un peso più vicino alla norma, meno sbalzi d’umore o meno attacchi di panico, ma soprattutto sentirsi più autentici, meno incollati all’immagine affibbiata da altri e più adesi ad un sentimento profondo di sé che fa sentire più a proprio agio con se stessi. Meno stranieri a se stessi.
Partorire un’identità, ecco a mio avviso il profondo significato di una esperienza di malattia e di cura. Un’identità non più fittizia ma reale. Un’identità non troppo camaleontica, una identità dissonante dalla norma (non normalità, parola orrenda e violenta) magari, ma propria.
Anita è tante cose; studentessa modello, avida lettrice, figlia incompresa, sorella amata, malata di anoressia, compagna di malattia, paziente ricoverata in un reparto.
Anita è tante emozioni, sente molto; colpa, rabbia, vergogna, paura, incredulità, sfiducia, indegnità. Anita è un pieno di emozioni che non riconosce o che seppellisce sotto miliardi di parole lette e studiate, milioni di passi camminati, infinite calorie non consumate o bruciate.
Anita è un pieno che vuole diventare vuoto, che vuole farsi assenza, che vuole sparire, per non sentire più, per non deludere più, per non combattere più con la vita. Combattere con la vita nel senso di accettare il distacco diventando adulti, accettare di non piacere, combattere i pregiudizi, scontrarsi, alzare la voce, cambiare, andarsene.
Anita si fa ghiaccio per non essere fuoco. Si fa ossa per non essere carne. Rincorre la morte per non vivere. Soffre, si mortifica, si dilania, perché pensa di non essere degna di qualcosa di bello e buono, del piacere, di desiderare. Anita è una Santa Anoressica moderna, persa nel suo intelletto, tutta spirito e quasi più nessun corpo.
Il corpo, questo grande rimosso, questo protagonista in filigrana di tutto il libro, un corpo nascosto, affamato, scavato, martoriato, un corpo che nelle sue funzioni vitali spaventa… il sangue, il sudore, gli odori, che fanno scappare dall’adolescenza per rifugiarsi in un mondo di ghiaccio che congela il tempo e la vita; si vuole tornare indietro, bambina, corpo da non desiderare, da non vivere.
“Ma il corpo c’è e c’è e c’è”, citando Wislawa Szymborska. E’ il convitato di pietra. C’è e prova a sopravvivere. Ma vivrà solo quando troverà modi di farsi parola, di dare voce a ciò che racchiude e nasconde, a quel grumo di emozioni che si erano bloccate nello stomaco. Quel corpo che si era fatto trasparente, per mostrare il malessere, lascia vedere poco a poco i contorni dell’anima che racchiude, e così facendo può tornare lentamente ad essere più consistente, più caldo, più vivo.
Può permettersi di sentire la carezza di cose piacevoli, le morbidezze di un materasso. Di tornare a desiderare.
Anita in questo viaggio non è sola; ha intorno una famiglia d’origine, fonte di amore e di rabbia, di disagio e di inadeguatezza, ma anche di protezione. Una famiglia dove restare bambina. Una famiglia con delle mancanze e dei conflitti, come tutte. Anche se ogni famiglia è infelice a modo suo. Una famiglia da cui separarsi per poter trovare la propria voce, da lasciare indietro. Poi – come in ogni romanzo di formazione - Anita incontra e si scontra con una famiglia adottiva, la famiglia del reparto ospedaliero dove trascorre un tempo sospeso necessario a riconnetterla con la realtà. Una famiglia fatta di medici, infermieri, assistenti e pazienti; altre ragazze, sorelle adottive, amate e odiate, con cui condivide un pezzo di vita, con cui si crea una rete di connessioni, sane e malate insieme, come un po' tutte le relazioni. Invidie, competizione, pietas, tradimenti e abbracci, empatia data dal linguaggio comune della malattia, comunità chiusa e orgogliosa, quella dei DCA. Una comunità a cui però Anita non desidera aderire. Lei vuol essere speciale. E in qualche modo lo sarà.
Speciale è anche il personaggio di Flavia, che simbolicamente racchiude in sé le figure tragiche della Malattia, della Morte, della Speranza. Lei, quella più malata, quella che fa paura, è l’unica a toccare Anita nel profondo, fino a diventarne un alter ego, l’Ombra, o la Luce forse. Quel resto di forza vitale che serve per opporsi alla distruzione della malattia. Flavia è insieme yin e yang. Complessità. Come complessi sono i DCA per definizione. Patologie complesse.
Nello stesso ambiente convivono gruppi diversi, come in una savana; gazzelle e leoni. Equipe di cura e pazienti, impegnati a convivere in un delicato equilibrio, dove le forze della Cura e della Malattia si sfidano continuamente e strenuamente, fra sgambetti e bugie, fra sorrisi e rimproveri, fra verità urlate e rifiuti gridati, fra cadute e mani tese per rialzare, mani che medicano e che accarezzano, parole che feriscono e che scavano, che devono aprire un varco e lasciare un segno. Ci si rincorre, tentando di fermare un movimento incessante concretizzazione di una angoscia ossessiva che si autoalimenta. Non è facile; come in ogni famiglia si vivono momenti di forte rabbia e frustrazione da entrambe le parti. Non sempre le cose vanno bene. Ma si prova, si fa del proprio meglio. Chi nel cercare di “guarire”, chi nel cercare di curare.
Il reparto è un contenitore, che contiene e limita, contiene le angosce e prova a mettere un limite al sintomo; limite che magari nella vita fuori è difficile dare perché fa paura dire di no, dire basta, si teme l’odio dei figli, la ribellione violenta o la sola minaccia. Ma i limiti sono necessari per crescere. In reparto tutto è nutrizione, alimentazione; non si nutre solo con le calorie del cibo o dell’integratore, ma soprattutto attraverso il calore della relazione, che è incontro e scontro. Che è fiducia reciproca e abbraccio in cui ci si deve lasciare andare. Mollare il controllo. La cosa più difficile del mondo per chi pensa che sia l’unico controllo possibile, l’unica forza possibile. L’unica vita possibile. Ma l’unica cura possibile passa per la nutrizione, con la N maiuscola, per fortificare il corpo e far emergere la parola. La parola di vita. La parola di libertà, laddove la malattia è prigione.
Alla fine del viaggio, nelle ultime pagine del libro, emerge il corpo concreto, prende forma. Prende calore. Prende spazio. Si riaffaccia timidamente alla dimensione del piacere. Lo si può toccare. Un corpo, una pancia “che rivendica il suo diritto a essere riempita”. “Come se parlare mi facesse ritornare la fame”. La parola svuota di ricordi, traumi, emozioni e lascia spazio alla vita, alla possibilità di vita, alla possibilità di nutrirsi. Svuotandosi della malattia, ci si può riempire di altro.
Nei DCA e nell’Anoressia Nervosa in particolare, la malattia si fa religione con i suoi riti e adepti, una religione che rende speciali, che nutre e dà senso. Che dà forza e identità. Che consola e che fa da madre. Questo è ciò che dovremmo tenere tutti presente quando ci approcciamo come curanti a questa patologia; o che devono tenere presenti i familiari, quando vorrebbero solo veder estirpato questo seme maligno dal/dalla proprio/a figlio/a. Guarire e in fretta è la richiesta. Riparare un danno. Combattere. Tornare come prima. Ma a quale prima? Non si può parlare in termini militari di una malattia e di una cura. La cura è approdare laddove non si è mai stati prima. Ci vuole coraggio ad affrontare una terapia, a mettersi in gioco, a cambiare e questo tutti lo devono avere ben presente. Ci vuole coraggio anche ad ammalarsi, perché significa iniziare già a cambiare qualcosa dello status quo. Significa già esprimersi. Questo coraggio va sempre rispettato.
Beatrice Sciarrillo, che ha trovato la propria voce per il tramite di Anita, ce lo ricorda bene.
“Questa forza interiore, che gli altri vogliono chiamare malattia, è l’unica cosa veramente mia, l’unica che mi fa sentire speciale e io non permetterò a nessuno di rubarmela.
… Ora è la forza che ho dentro a farmi da madre, e se anche questa mi abbandona resterò orfana per una seconda volta. … E l’abbandono non è forse la cosa più spaventosa al mondo?”
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