ANALISI STRUTTURALE E VISSUTI DEL MONDO MELANCOLICO

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13 settembre, 2017 - 20:23

L’analisi del mondo del depresso melanconico porta alla registrazione di tre fondamentali tematiche (di colpa, di rovina, ipocondriaca) alle quali, d’altra parte, ogni vera esperienza depressiva in ultima analisi si richiama. Sappiamo che per Schneider (1954) esse corrispondono alle angosce primordiali di ogni uomo, ossia alla paura per la salvezza dell’anima, per la salute fisica e per la sussistenza materiale nel mondo, le quali verrebbero svelate dalla depressione, non prodotte ex novo , tanto da portare tale Autore a sottolineare gli aspetti non creativi della depressione endogena , nel senso che tali temi non sarebbero da considerarsi "sintomi" diretti della psicosi.

Callieri (1965,1982) sottolinea come, semmai, nel melanconico ciclotimico le esperienze della colpa, della rovina e della trasformazione somatica peggiorativa emergono primariamente, dandosi al soggetto immediatamente come esperienze vissute e non come temi di riflessione. L’affermazione di Schneider, sempre per Callieri, può chiarire i contenuti del quadro clinico, ma non spiega né "l’esserci" del delirio ( il "Dasein", la presenza) né il suo "esser così" (il "Sosein"). I temi non sono patologici di per sé: l’abnormità va ricercata nel loro comparire senza giustificazione comprensibile, in una loro anormale strutturazione, nel loro essere vissuti in modi particolari.

A partire da queste brevi ma indispensabili note introduttive svilupperemo l’argomento suddividendolo in tre capitoli principali:

1) verranno innanzitutto affrontate, da un punto di vista descrittivo e necessariamente in modo sintetico, le tematiche di colpa , rovina e ipocondria;

2) ci soffermeremo in un secondo momento su alcuni aspetti dell’analisi psicopatologica di tipo strutturale del delirio melanconico;

3) verranno analizzati quindi i "vissuti" della melanconia, i fenomeni (non sintomi!) dell’alterazione della corporeità, del tempo e dello spazio vissuto, della dimensione intersoggettiva sottolineando, seguendo la lezione di Tatossian (2003), l’unità fenomenologia di tipo essenziale e non causale della melanconia stessa.

 

I temi della melanconia

 

Il delirio di colpa

 

La colpa costituisce il timbro inequivocabile del mondo melanconico, sia che si tratti di colpa verso se stessi, colpa verso gli altri, colpa verso la vita, colpa verso i propri stessi desideri, colpa verso il proprio corpo, colpa di esistere (Di Petta, 2003).

Tipica dei deliri melanconici è la colpa per fatti che il paziente sostiene di aver commesso in passato o per azioni non effettuate (omissioni); frequentissime sono le autoaccuse, l’attribuzione a sé di responsabilità enormi, che occupano completamente il campo esperenziale.

Franco, un paziente poco più sessantenne da poco uscito da un episodio melanconico, ci descrive con queste parole la sua colpa: "Vede, dottore, solo ora io riesco a dirle cosa provavo dentro di me; glielo dico non senza un certo imbarazzo, perché quasi mi vergogno di ciò che sto per dirle; ma vede, a me è capitato di perdere un figlio di pochi mesi: è successo tanti anni fa, ma mi ha segnato la vita. Non ho mai provato un dolore così straziante, anzi non avevo mai provato un dolore così straziante prima di diventare depresso. Durante i mesi della depressione mi è capitato più volte di pensare alla morte di mio figlio e a quel dolore, che aveva sconvolto me e mia moglie: ma poi, quasi con raccapriccio verso me stesso, pensavo che il dolore, la pena e la fatica che stavo provando per la mia malattia erano più grandi, più strazianti ancora di quella prima tragedia; avevo allora quasi orrore di me stesso, mi sembrava una cosa così inaudita da non poter essere detta a nessuno, neanche a mia moglie; mi pareva che fosse una dimostrazione inconfutabile della perdita di ogni dignità, mi sentivo in colpa, ma non potevo contrastare questa sensazione, e questo mi faceva disperare ancor di più".

Quali sono le modalità con cui il paziente vive la colpa? L’episodio clinico più sopra riportato è a questo proposito illuminante: il paziente soffre e la sofferenza è complicata e resa ancora più temibile dalla impossibilità di accettarla E’ una sofferenza indegna per cui deve sentirsi in colpa; il paziente è veramente catturato in una spirale infinita, con la convinzione profonda di aver toccato il fondo e di non potersi più risollevare.

La colpa può spingere i pazienti a rifuggire dal mondo, a chiudersi in casa, nella certezza peraltro di non poter sfuggire alla punizione: essi, spesso, temono di essere perseguiti, non perseguitati.

L’autorità giudiziaria, in questi casi, rappresenta l’esternazione del braccio punitivo della società tutta, che, secondo il paziente, non può ignorare le sue colpe e deve provvedere alla punizione. La sicurezza (delirante) di essere senza scampo e di dover subire le conseguenze più infamanti anche per la famiglia, può spingere questi pazienti al suicidio, che può quindi rappresentare un modo di scontare da soli un debito abissale, proteggendo nel contempo le persone amate.

È chiaro, in questo contesto, che non si deve confondere il delirio di colpa con il senso di colpa, concetto base anche del pensiero psicoanalitico freudiano e post-freudiano: il senso di colpa allude al vissuto emotivo che prova chi ritiene - a torto o a ragione — di essere in colpa; nel vissuto delirante è la certezza della colpa (non il dubbio, il rodersi, il pentirsi) a occupare il campo, non lasciando spazio ad altro: il paziente non prova solo un senso di colpa, al contrario è convinto di dover riordinare tutto il suo mondo sulla certezza della colpa; la grande intuizione di Tellenbach (la colpa è pre-tematica) riporta esattamente alla priorità della colpa rispetto ai suoi contenuti ma anche al modo in cui è vissuta.

Qual è il rapporto tra il tema della colpa e il sistema dei valori personali? Che rapporto si instaura tra la personalità premorbosa nei suoi tratti appartenenti alla sfera morale del soggetto e la comparsa di una tematica di colpa nella melanconia?

Sappiamo che per Tellenbach (1975) nella vita premorbosa del futuro melanconico il vissuto di colpevolezza ha una configurazione del tutto particolare, tanto da costituire un elemento chiave nella patogenesi della malattia. Ricordiamo che i tratti essenziali del Typus melancolicus sono: l’attaccamento all’ordine nello spazio e nel tempo, l’assoluto bisogno di raggiungere un accordo sintonico con il mondo circostante, una conseguente difficoltà al cambiamento, ma soprattutto una coscienziosità così spiccata e sensibile da costringerlo ad evitare scrupolosamente ogni sentimento di colpa che rappresenterebbe un peso troppo grande o ogni attribuzione di colpa da parte degli altri. In questo tipo di soggetti è frequentissimo il sentimento di non aver fatto abbastanza per gli altri nonché il timore di contravvenire alle regole e norme sociali passivamente impressi sulla coscienza. Non si tratta, quindi, della colpa in quanto consapevolezza della propria fallibilità, in quanto responsabilità per il proprio essere, bensì della colpa così detta "secolarizzata". Se, ricordando il pensiero di Kraus, l’identità umana si caratterizza per un equilibrio di rapporto tra l’identità di ruolo, nel senso di ruolo sociale, e l’identità egoica, nel Typus melancolicus quest’ultima si plasma sull’identità di ruolo fino a confondersi con essa: la sua passività di fronte alle regole della società e ai ruoli precostituiti lo rende ipersensibile alla colpa, alla colpa appunto secolarizzata (Stanghellini,1997 ).

Ricordiamo che Weitbrecht (1970) distingue tra sentimenti di colpa primari e secondari. I primi riguardano azioni o omissioni mai compiute o che , commesse molto tempo addietro, vengono sperimentate come tali per la prima volta: in questi casi il sentimento di colpa non è derivabile dall’azione o dall’omissione stessa. I sentimenti di colpa secondari sarebbero comprensibili quale reazione all’inerzia e mancanza di volontà, all’impossibilità di attuare un autentico progetto esistenziale, avvertiti come colpevoli dai malati. Tellenbach critica tale distinzione concludendo che "tutti i sentimenti di colpa sono primari": secondo tale Autore i cosiddetti sentimenti di colpa secondari non sono semplicemente comprensibili come risonanza affettiva ai sintomi depressivi, nel senso che è la stessa risonanza affettiva del melanconico che è variata psicoticamente.

L’analisi della struttura formale del sentimento di colpa melanconico, sulla quale ci soffermeremo più dettagliatamente in seguito, porta a differenziarlo dal sentimento di colpa del normale: in questo caso il sentimento si riferisce sempre ad una colpa oggettiva, attuale, mentre nel caso del melanconico il sentimento di colpa è solo soggettivo, nasce autonomamente, si dà come qualcosa di pre-tematico cercando solo in un secondo momento il tema.

Il tema, scrive Tellenbach, è in larga misura indipendente dal mondo dei valori del paziente; ciò che colpisce è la paucitematicità, potendosi di solito raccogliere questi sentimenti di colpa in pochi gruppi: colpa morale (conseguenti a presunte azioni o omissioni), colpa legata all’esistenza e colpa dovuta a negligenze o trascuratezze.

Riportiamo a tal proposito un paragrafo della più famosa opera di E. De Martino (1977): "Nella mia prospettiva la melanconia si determina innanzitutto come colpa mostruosa, radicale, immotivata, estendendosi lungo tutto il fronte dell’operabile, e che per questo suo estendersi converte l’operabile in inoperabile. Il problema è tuttavia questo: di che, senza saperlo, il melancolico porta colpa? L’unica risposta soddisfacente è: il melancolico porta colpa non già di questo o di quello (le motivazioni deliranti che affiorano alla coscienza sono secondarie), ma di vivere il crollo dell’ethos del trascendimento, di essere in questo crollo, di essere trascinato dal mutamento di segno del doverci essere nel mondo, del non potersi porre, in nessun momento del vivere, come centro di decisione e di scelta secondo valori intersoggettivi…..la coscienza melancolica è intrinsecamente destinata a non trovare che motivi fittizi della propria melancolia, proprio perché essa è, nel suo intrinseco, perdita della motivazione su tutto il fronte del motivabile: essa porta colpa di questa perdita, è questo perdersi in quanto pura colpa che coincide con la vita, che è il crollare dell’ethos del trascendimento che si dispera del proprio crollare e del non poter mai arrestare la catastrofe con il puntello di una sola motivazione autentica".

L’esperienza della colpa, come ben messo in evidenza da Callieri (1971, 1972) non si conclude mai, nel senso che il soggetto è continuamente teso alla ricerca attiva di colpe da un passato che esso stesso viene vissuto come colpevole. "Questo essere-nella colpa, che è poi l’esserci autentico del depresso, possiede in modo talmente intrinseco il connotato dell’ "essere" che ci consente di reperirne il più intimo significato in quell’ambito che chiamiamo colpa ontologica…che rimanda direttamente ad un peculiare modo di esperire la morte del depresso, che è morte ontologica" (Callieri 1972, 2003).

 

Il delirio di rovina

 

Il delirio di rovina si caratterizza per la convinzione espressa dal paziente di aver provocato alla propria famiglia perdite economiche tali da condannare alla povertà tutti i componenti il nucleo familiare e anche i futuri discendenti: la rovina quindi può essere , nella mente del paziente, non solo attuale, ma considerata in grado di compromettere il futuro della propria progenie.

Il delirio di rovina è frequente in pazienti gravemente depressi che esercitano una attività in proprio ("self made man") in cui l’esistenza è caratterizzata da valori normativi quali l’ "essere attivo" o il "possedere".

In questi casi la rovina non è solo rovina economica; è totale sradicamento dal mondo abituale: niente potrà essere più come prima, davanti a sé il paziente vede solo la più nuda disperazione.

E’ importante sottolineare come il paziente depresso con delirio di rovina non incolpi mai una persona; la responsabilità della sua rovina è sempre attribuita a fattori generali: l’inflazione, la svalutazione, i problemi del cambio, etc.

Non tanto la sicurezza economica, ma la sicurezza ontica viene vissuta come un pericolo: non vi è più domani, non solo non si ha più la forza di lavorare, ma non ne vale più la pena, si tornerebbe comunque indietro, in un concatenarsi di errori e/o di omissioni che non farebbero che peggiorare la situazione.

Sia che domini l’angoscia del credersi impoveriti, sia che si ritrovi invece una paura di divenire poveri, in entrambi i casi l’esperienza della rovina economica viene sentita come fondata su una certezza originaria, da cui derivano giustificazioni e prove. Anche il delirio di rovina quindi, al pari di quello di colpa, è pre-tematico.

Nel delirio di rovina ci troviamo di fronte a due dimensioni esistenziali che si impongono e strutturano il mondo interno del paziente: la dimensione del crollo e la dimensione dello sprofondamento.

Nel caso del delirante di rovina il crollo è sì economico, ma coinvolge, avvolge si potrebbe dire, tutti i familiari e le persone più care, non risparmiando nessuno; il paziente vede crollare la sua famiglia, la possibilità che i figli possano crescere e rendersi autonomi: è questa dimensione "universale" del crollo che colpisce l’interlocutore e rende stridente il racconto del paziente, che sembra avere bisogno di sottolineare ogni più piccolo fattore di realtà per confermare le proprie convinzioni deliranti. Cosicché alla fine, come accade anche nel delirio di colpa, ci si trova di fronte all’altra dimensione del mondo melanconico: lo sprofondamento nella indegnità.

A tutte le voci che tentano di rincuorarlo, il paziente oppone una verità terribile e terribilmente severa; egli non è più nulla e ora tutti possono vedere quanto profonda sia la sua indegnità e quanto giusta sia di conseguenza la punizione che gli è toccata in sorte.

 

Il delirio ipocondriaco

 

Quando si parla di delirio ipocondriaco si intende significare l’avvenuta trasformazione del rapporto del paziente con il proprio corpo: il paziente non osserva solo in modo attento il proprio corpo, ma attribuisce ad esso peculiarità e proprietà con il carattere della certezza: è un corpo trasformato, rovinato, degradato.

L’auto-osservazione ipocondriaca è sempre vissuta con un importante stato ansioso: "il delirante ipocondriaco quasi visualizza il proprio spazio interno, trasformato nelle sue strutture e nelle sue funzioni, costruendo continuamente immagini di questa realtà di cui poi cerca le cause e prevede gli sviluppi" (Callieri, 1965).

In molti altri depressi melanconici, continua l’Autore, non è tanto l’idea di una trasformazione del proprio spazio interno a dominare, quanto l’idea di avere una malattia .Se in questi ultimi casi è possibile adombrare una sorta di continuità tra l’esperienza della tristezza vitale e l’esperienza ipocondriaca, nei casi in cui domina l’idea di una trasformazione del corpo si riconoscono sentimenti somatici e vitali abnormi: siamo di fronte ad esperienze fenomenologicamente incomprensibili, non derivabili e irrapportabili da un punto di vista qualitativo all’abbassamento della tensione vitale .

Va ricordato che il termine delirio ipocondriaco non va riservato ad ogni preoccupazione o convinzione di malattia, ma solo a quei casi ove si assista ad un vissuto di trasformazione del corpo, con esperienze difficilmente paragonabili a quella del nevrotico, non rapportabili direttamente alla depressione dell’umore.

Quasi costantemente quello di cui parla il paziente è un corpo-Körper degradato, rovinato, puzzolente, marcio; ricordiamo la brillante descrizione clinica fatta da Minkowski di un paziente con delirio melanconico, che parlava della "politica dei resti": tutti i resti, tutti i rifiuti venivano messi da parte per essere poi introdotti nel suo ventre; il paziente in tal modo diventava il ricettacolo dei rifiuti scartati dall’umanità e repellenti per ogni essere umano: la trasformazione corporea è assoluta e irreparabile.

Potremmo forse dire che in questi casi si assiste alla totale separazione del Körper dal Leib (Cargnello, 1964): è il corpo che ho che viene aggredito, con un rifiuto pressoché totale ad accettare il corpo che sono, in una sorta di scissione del malato dal suo corpo, quasi che egli potesse osservare, pur preso dalla angoscia, la propria impotenza nell’impedire un destino cui non è dato sottrarsi, e che, al di là delle multiformi espressioni sintomatologiche, ha come dimostratore comune la perdita del sé, della propria capacità di con-essere: il corpo rovinato e trasformato in cloaca rappresenta allora, senza possibilità di errore, la esteriorizzazione più totale dell’attacco al sé, trasformando ogni contenuto mentale in qualcosa che dà pena, spavento, ribrezzo.

"Nella depressione ipocondriaca (delirante) l’isolamento autistico è ancor più profondo e impenetrabile che in qualsiasi altra Gestalt. La chiusura, e la retrocessione, nei confini dell’io (di un io che si fa cosa, corpo cosa, e perde ogni dimensione dialogica e ogni slancio vitale) sono assolute. Ogni comunicazione con l’altro-da-sé diviene (quasi) impossibile, e non c’è se non questa immobile (tragica) epifania del corpo dilaniato" (Borgna,1992).

 

Analisi strutturale del delirio melanconico

 

Ricordiamo innanzitutto i caratteri formali delle idee deliranti melanconiche così come li descrisse molti anni fa, nel 1895, Séglas: esse sono di tonalità affettiva penosa; sono monotone, cioè la persona ripete sempre le stesse lamentele; sono povere, cioè non articolate in diversi ricordi o immagini o ragionamenti; esprimono passività nei confronti della disgrazia; sono centrifughe, cioè si estendono all’ambiente circostante; riguardano il passato o l’avvenire, molto meno il presente.

Altre caratteristiche strutturali del delirio melanconico, in parte già delineate nello studio delle tematiche depressive, riguardano il fatto che le varie esperienze della colpa, della rovina e dell’ipocondria sono, nel caso della melanconia, irrapportabili a quelle della persona normale. In molti casi tali esperienze sono primarie, sorgendo e strutturandosi liberamente, non contestualmente all’esperienza della tristezza vitale. In molti depressi deliranti la tristezza psichica, la sofferenza, la nostalgia non si osservano, trascinate e divorate dalle modificazioni radicali delle esperienze deliranti.

Si tratta di esperienze che invadono a tutto campo il mondo del paziente, che durano nel tempo, che non si concludono se non a risoluzione della crisi melanconica.

Anche se tali esperienze si inseriscono e si pongono in modo privilegiato sul piano dei sentimenti, non è possibile ricondurre al meccanismo dell’olotimia il delirio depressivo che, come ogni delirio, non coincide con delle idee deliranti ma che rappresenta una trasformazione dell’intera personalità.

Tutti i clinici sanno che le idee di colpa, di rovina o di timore sulla propria salute fanno parte del quadro della depressione grave: quando noi allora parliamo di "deliri melanconici"?

Ballerini (1999) si è soffermato sulla distinzione tra delirio come "conferma" e delirio come "rivelazione", il primo tipico delle psicosi affettive, il secondo invece delle psicosi schizofreniche.

Il dispositivo della "rivelazione" sarebbe esclusivo appannaggio delle sindromi schizofreniche, nella cui grande prevalenza della oggettiva passività nell’esperire il mondo (parallela alla evanescenza del soggettivo senso di attività dell’Io, ma anche del soggettivo senso di passività, così invece puntualmente tormentoso negli ossessivi) si inscriverebbe la possibilità quel quid novum che si impone, promana, come una rivelazione appunto, dagli oggetti e che realizza un diktat di significato delirante.

Al contrario, il delirio nei disturbi dell’umore non ha il vissuto della rivelazione di un mondo nuovo, ma si impernia sulla conferma di uno stato d’animo fissato nella autodenigrazione, o nella rabbia o nell’euforia (Ballerini 1999, Stanghellini, 1997). Anche se va specificato che conferma-rivelazione-evocazione sono tipi ideali di esperienze pregnanti che ammettono nei percorsi clinici forme intermedie e transazioni, significativo è il rapporto con la struttura temporale costitutiva, incentrata sul passato o sulla immediatezza del presente nei disturbi dell’umore, e invece nella schizofrenia prevalentemente rivolta a un futuro, di per sé misterioso e sfuggente, verso una identità precaria da costituire, in una modalità ante festum carica di presagi (Kimura,1992).

Ma anche il dispositivo della "rivelazione" definisce forse più il delirio "primario", autentico, dal "deliroide" (ad esempio, in un disturbo affettivo), che non il delirio specificatamente schizofrenico. Naturalmente in un sistema nosografico che ammetta l’esistenza di psicosi deliranti autonome dalla schizofrenia. Tuttavia le analisi di Kraus (1982, 1983) delineano un modo di essere nel delirio, quello della modalità rivelatoria, che certo si avvicina più di altri a un mondo delirante quale è più tipicamente presente nello schizofrenico, in quanto si avvera in un clima di più pervasiva crisi della realtà ovvia e di più cogente passività rispetto ai presentimenti e presagi che promanano dagli oggetti. Kraus (1983) ha sottolineato come queste differenze nei vari modi del delirare siano particolarmente evidenti nei confronti della "certezza delirante"; nel maniaco-depressivo essa è siglata dalla "intolleranza all’ambiguità", che è strutturale, assieme alla iperidentificazione con le norme, della persona del Typus melanconico e che si traduce, nel delirare in un disturbo dell’umore, nella adozione di una unilaterale maniera di pensare; mentre la "certezza delirante" nello schizofrenico ha precisamente i caratteri della rivelazione, in quanto appaiono "nuove formazioni sostitutive della realtà".

Senza dubbio ciò che lo psichiatra coglie nel melanconico delirante è la presenza di una fissità dei vissuti, che contrasta con tutto ciò che lo circonda o ne è del tutto indifferente; il delirio melanconico appare allora non solo come una unilaterale maniera di pensare, ma come un pensiero avviluppato attorno ad un nucleo che appare essere la vera origine del delirio, che nei suoi contenuti può cambiare (anche nel corso di uno stesso episodio di malattia) ma non cambia nei suoi aspetti costitutivi e formali: possiamo dire allora che il delirio melanconico si costituisce come conferma ma anche come unica possibilità di affrontamento del tormento fondante della depressione che è il vissuto della perdita, non solo di qualcosa che si aveva, ma soprattutto di qualcosa che si era.

Il paziente allora non esterna una idea di colpa o di rovina, ma vive e rappresenta il suo mondo all’insegna della colpa o della rovina e non vi è posto per null’altro che questo: il delirio melanconico occupa il campo, non colpisce l’interlocutore per la subitanità folgorante (come spesso accade negli schizofrenici) ma per la impossibilità a distogliere il paziente dal "suo" tema: suo, sì, perché al di là della apparente somiglianza dovuta alla paucitematicità, ogni delirio melanconico raccoglie preziosi frammenti della vita interiore del paziente e del suo modo di intenzionarsi e di vivere le relazioni oggettuali: nulla di più errato è il pensare che la monotonia del tema sia anche monotonia della modalità costitutiva del delirio.

 

I vissuti della melanconia

 

La melanconia, per Tatossian, costituisce l’oggetto di una esperienza di inaridimento e deperimento del vissuto, di perdita della "freschezza", situata allo stesso livello del Praecoxgefuhl, di un’esperienza atmosferica: "ciò che scaturisce atmosfericamente dal paziente è colto mediante una percezione atmosferica, un sentire il cui paradigma è l’olfatto". Per Tellenbach ( 1975 ) si coglie questa modificazione della totalità o, come la chiama, dell’"irraggiamento atmosferico", nel senso di una specifica sensazione di "appassito" o di "perdita della freschezza", anche nelle forme più leggere della trasformazione melanconica endogena. L’incontro con il melanconico produce una dissonanza atmosferica, impressione che diventa un importante ausilio diagnostico.

Per Tatossian (2003) e’ legittimo denominare melanconica una depressione quando il vissuto depressivo (dove per vissuto si intende, in questo caso, il modo di essere globale del depresso in rapporto alle dimensioni del tempo, dello spazio, del corpo e dell’intersoggettività) comporta intensamente e completamente alcuni specifici tratti: il cedimento del corpo come termine di comunicazione vitale con il mondo e l’impotenza radicale che ne è il corollario, la scomparsa totale del fenomeno dell’avvenire e dunque della speranza normale, l’abbandono del ricorso non solo a se stessi , ma di ogni ricorso all’Altro.

Da un punto di vista fenomenologico la melanconia si struttura come una Gestalt, dotata di una sua coerenza e unità interna dotata di senso, definibile non attraverso la rilevazione e descrizione delle manifestazioni comportamentali, sintomatologiche, bensì dalle manifestazioni del vissuto, le quali, come scrive anche Gozzetti (1996), non sono disturbi di funzioni parziali, ma rimandano ad una totalità.

Nella melanconia clinica non trova spazio solo la tristezza psichica ma anche la tristezza vitale.

La prima, che si caratterizza per una insopportabile infelicità, perdita della speranza, fatica di accedere all’esperienza dell’altro parallelamente all’impossibilità di sentire vivo il proprio corpo, attiene alla sfera dei sentimenti intenzionali, stato propriamente psichico non percepito dal soggetto con e nel corpo, in grado comunque di legarsi in modo puntiforme ad un oggetto del mondo, in un va e vieni che si costituisce come intersoggettività. Latristezza vitale appartiene invece alla sfera dei sentimenti vitali, e in quanto tale non ha intenzionalità, è uno stato strappato alla volontà del soggetto impregnando, coi suoi caratteri di permanenza e invasività, tutti gli oggetti del mondo compreso il depresso stesso nella sua unità somato-psichica, il quale arriva così a confondersi con la propria depressione.

La sofferenza melanconica è una sofferenza anormale, deformata, carica, come dice Guardini (1993), di sostanza insolita, strana, terrificante, inaudita, fatta in modo che è impossibile ammettere che altri possa intenderle. La tristezza di cui alcuni melanconici parlano può diventare l’unico modo per esprimere ciò che è propriamente inesprimibile ed inspiegabile, in quanto non vivente ma congelato, pietrificato.

Il richiamo, qui, va all’esperienza psicopatologica dell’angoscia, così come vissuta dal melanconico. Sappiamo che ci sono stati autori che hanno dato di tale esperienza una significazione e interpretazione diversa. Tra questi ricordiamo K. Schneider il quale, sulla scia del pensiero heideggeriano, affianca l’angoscia depressiva all’esperienza dell’angoscia "normale", e Binswanger per il quale è inaccettabile tale accostamento, considerando l’angoscia melanconica non come un fenomeno esistenziale bensì come un fenomeno "naturale" che nasce e si sviluppa nel contesto di "quell’esperimento della natura" che è appunto la melanconia: " in questa si vive l’orrore davanti alla perdita della possibilità di potere-rimanere-ancora-in-vita, in quella non psicotica si vive l’orrore davanti alla possibilità di essere-messi-in-discussione nella propria esistenzialità" (Borgna, 1992). A noi sembra che nell’esperienza clinica con il melanconico facciamo esperienza di un tipo di angoscia sicuramente divorante e lacerante, che mette a dura prova l’incontro con il paziente, ma che non si discosta in fondo in modo così radicale da quella non psicotica, dal nostro modo di sperimentare l’angoscia.

Il vissuto nucleare della melanconia non coincide con la tristezza, sia pure vitale, ma dipende da una alterazione dell’affettività-contatto (ricordiamo che l’affettività-contatto per Minkowski è risonanza e accordo musicale, apertura al mondo degli altri). La perdita da parte del melanconico della possibilità di poter vivere, e contestualmente di poter morire, è la perdita della comunicazione con il mondo. La perdita di ogni intersoggettività ci conduce alla dilemmatica "figura" dell’autismo, inteso non come modalità difensiva ma come elemento costitutivo dell’esperienza, oltre che schizofrenica, anche depressiva. Come scrive Borgna (1992), nella depressività psicotica il paziente non solo si allontana dal mondo ma perde il mondo stesso in una implacabile cancellazione di ogni intersoggettività, in una radicale separazione dalla realtà, senza l’epifania di un immaginario, di una reverie quale si riscontrano nell’autismo schizofrenico.

L’impotenza vitale ad agire del depresso, riporta Tatossian, ha la sua origine in un disturbo del corpo vissuto, opposto a quello dell’ipocondriaco: è come se il corpo-oggetto, il corpo come strumento disponibile per il soggetto e per l’altro (se ci può essere una intersoggettività è perché l’uomo può vivere il suo corpo come corpo-oggetto, come lo percepisce il prossimo), si offuscasse ed il depresso si identificasse col solo corpo-soggetto: è la pesantezza del corpo-che-sono, non del corpo-che-ho, di cui parla anche E. Borgna (1992). Ma questo corpo-soggetto, privo dell’intermediario con il mondo esterno (del corpo) non ha più un punto di appoggio e di presa sul mondo. Il corpo depresso realizza questo paradosso di essere al tempo stesso estremamente pesante perché bloccato dove si trova, ed incapace di proiettarsi sul mondo, ma anche sospeso in qualche modo nell’aria, privato di ogni supporto, privo di ogni ancoraggio sul mondo. Il depresso non dispone più di un contatto vitale con il mondo, proprio perché privo del corpo-oggetto, della capacità di oggettivare il proprio corpo pur rimanendo se stesso.

Con le parole di Callieri (1994), possiamo dire che il grande tema della corporeità, come vissuta vitalmente dal melanconico, si inserisce nel contesto di una drammatica caduta della "donazione di senso", di una eclissi della possibilità di costituirsi come coscienza intenzionata: il depresso rimorchia, trascina il corpo, identificandosi inconsapevolmente e massicciamente in esso, in un corpo pesante e lento, incapace di trascendersi, progettarsi in un mondo.

Lo spazio del depresso (lo spazio patico, "sentito", vissuto di Minkowski) tende ad essere vissuto, di conseguenza, come disperatamente vuoto, piatto, senza rilievo e prospettiva : le cose sono sentite come isolate, senza rinvio intenzionale, sentite come lontane in senso esistenziale; ma è anche uno spazio chiuso, raggrinzito, coartato, bloccato, soffocante, opprimente.

Lo spazio umano non è una sorta di contenente preesistente all’uomo, ma piuttosto una produzione permanente di questi; si parla in questo senso di spazializzazione più che di spazio, intesa come "dimensione aperta alla progettualità dell’esistenza, come movimento che diviene comunicazione, linguaggio, ri-volgersi, interlocuzione, investimento, progetto, dialettica co-esistentiva (Callieri, 1994). Il depresso non fa che inserirsi negli interstizi di uno spazio che non è il suo perché non l’ha prodotto: si è di fronte ad una drammatica metamorfosi, mortificazione, dissolvenza della spazialità (ancora Tatossian).

A.Garofalo (2001) paragona la coartazione progressiva dell’orizzonte spazio-temporale del depresso sul proprio Sé alla formazione di un "buco nero esistenziale", punto di arrivo di uno spazio che, allontanandosi sempre più dal mondo degli altri, alla fine si riduce ad un punto: "metafora dell’estrema coartazione di uno spazio vitale del paziente, chiuso irrimediabilmente su se stesso, isolato, nullificato, in-esistente…privo di qualsiasi possibilità di condivisione, ossia di dialogo, di co-esistenza". Dentro questo spazio collassato su se stesso persiste una lacerante angoscia e sofferenza che tende a risucchiare qualsiasi forma di vita tenti un approccio, urlo soffocato che spesso non riesce ad uscire, ad essere detto e raccontato.

L’alterazione della coscienza del tempo interiore è in primo piano nel vissuto depressivo: il depresso assiste impotente ad una penosa interruzione del divenire vitale, del tempo dell’io, il quale, perdendo la sua qualità fondamentale di essere un a-venire, di aprirsi al futuro, si ferma o rallenta a tal punto da rendere impossibile qualsiasi rinnovamento temporale.

Tatossian (2003) specifica che il nucleo del vissuto del tempo consiste in un vissuto di potere: dire "io posso" presuppone, infatti, un presente che si proietta verso l’avvenire e, se questa proiezione è autentica, non può che appoggiarsi sul passato del soggetto e svilupparsi a partire da esso. Questa esperienza del potere, al centro del vissuto temporale così come del vissuto corporeo, è minacciata o fa difetto nel depresso. Minkowski, Straus e von Gebsattel concordano nel segnalare il rallentamento e la stagnazione del tempo vissuto nella forma maggiore della depressione, la melanconia. Il passato non è passato, e perciò non consente al presente di accadere e al futuro di avvenire.

Minkowski (2000) parla di crollo e disgregazione del sincronismo vissuto, inteso come l’aspetto temporale di quel carattere di compiuta pienezza della sintonia. Salta il parallelismo e sincronismo vissuto tra il tempo del mondo (tempo transitivo) e il tempo dell’io (tempo immanente), il quale sembra rallentare fino ad arrestarsi, non essendo in grado di seguire, di stare al passo del primo. Dall’analisi fenomenologia del delirio melanconico, Minkowski estrapola l’osservazione che "il melanconico delirante sceglie, con una regolarità sorprendente, tra tutte le possibili idee melanconiche, prima di tutto quelle caratterizzate da un coefficiente temporale".

La temporalità, scrive Del Pistoia (1989), una delle tante "abschattungen", delle tante prospettive della possibile epifania del "fenomeno" melanconico, è classicamente l’ottica preferenziale, quella che meglio di ogni altra sintetizza e coglie l’essenza del disturbo melanconico.

La malinconia è un essere rivolti verso un passato che non è più semplicemente "triste" perché non più in articolazione dinamica e prospettica con il presente e con il futuro, ma è un essere in un passato assoluto (Del Pistoia,1989).

"Nella melanconia, di fronte al presente "vuoto", l’aggancio al mondo non è interrotto, ma è pervaso dall’angoscia della perdita: il Worüber ("ciò, di cui") si concretizza in un passato irrimediabile, non recuperabile e le tematizzazioni riempiono la vacuità del presente con Erlebnisse di perdita e questa perdita non può che essere imputata al proprio sé, quindi con contenuti di colpa, rovina, catastrofe; anche il futuro non può che tematizzarsi allo stesso modo. Il tempo è disarticolato ma è il presente, intenzionalmente vuoto e angoscioso, che si tematizza nel passato, forse per "difendersi" dall’horror vacui, dal nulla, dalla mancanza di essere. È possibile che quando venga meno la tematizzazione del presente, l’esperienza non dicibile, non più esprimibile, del nulla non possa manifestarsi che con l’idea della morte, fino alla sua realizzazione, il suicidio; allora il tempo si realizza solo nell’istante e diventa immutabile, eterno" (Agresti, 2001).

La vera perdita che il malinconico lamenta e di cui si autoaccusa, quindi, non è tanto la perdita del denaro o del lavoro, ma la possibilità di fare esperienza, di trascendersi. (1).

Essere melanconico significa non-poter-mangiare, pensare, lavorare, amare o odiare, cioè provare dei sentimenti, ma è anche registrare con sofferenza questa incapacità e dunque anche sempre tentare di agire, lottare contro l’incompiutezza delle azioni. Zita, una robusta garfagnina, era in un periodo malinconico: "lei, la statua di pietra che non mangia, non parla, non dorme, piena di immenso chiuso dolore, attenta però ad ogni stilla di mondo, a ogni parola, a ogni gesto, pronta a succhiarli come alimento, a nutrirne il delirio: colpa, morte, rovina" (Del Pistoia, 1997).

Quando l’avvenire si chiude, la nozione dei valori di "bene" viene meno in quanto ogni volta che un progresso è impossibile, si insedia irrevocabilmente la nozione statica del "male". Questa è la ragione per cui il malinconico si sente, nei suoi deliri, il peggior peccatore del mondo: il peso del passato interviene sotto la forma privilegiata della colpa (Galimberti, 1987).

La colpa melanconica, ci dice Tatossian (2003), non è limitata alle forme deliranti di autoaccusa e d’indegnità perchè se è culpa, colpevolezza, è, più profondamente e in genere, debito, mancanza. Soltanto alcuni melanconici si definiscono colpevoli, ma tutti sono in-debito per il non-divenire, per il non-potere, per l’incapacità ad ogni azione. Ma questa derivabilità non rende meno incomprensibile la sorprendente sproporzione tra l’eccessivo vissuto di colpa ed i motivi indicati di volta in volta. La vera ragione del carattere primario della colpa melanconica, sempre per Tatossian, sta nel fatto che è nella sua stessa struttura una colpa mostruosa e anormale: emergendo dalla messa in movimento della regione "endogena" dell’essere umano che segna la metamorfosi melanconica, essa sfugge alle leggi della psicologia. L’essere-in-colpa melanconico non segue i motivi della colpa, ma precede la loro scelta, che cerca tanto più lontano nel passato quanto più la melanconia è profonda.

Ma Tatossian va oltre, osservando che non tutte le melanconie si accompagnano ad un delirio di colpa o d’indegnità. Essendo questo essere-in-colpa del melanconico in sé inespresso e inesprimibile proprio perché primario, non tematizzabile, la melanconia delirante deve essere ristretta, per questo Autore, all’eventualità in cui la colpa si esteriorizza fornendo un paradossale sollievo al melanconico, aprendogli uno spazio di possibilità d’azione libero da colpa. D’altra parte l’esteriorizzazione della colpa, se può condurre alle idee di autoaccusa e d’indegnità, contrassegna altrettanto bene i deliri ipocondriaci e di rovina che, anch’essi, procedono dalla colpa del divenire che è l’essere-in-colpa melanconico. "Il delirio depressivo è quindi contingente all’alienazione melanconica anche se possiamo leggervi l’essenza di questa alienazione".

Nella colpa non sono decisivi i contenuti, ma la forma del passato che occupa per intero la vita psichica. Se è vero che è nel passato che reperiamo i primi fondamenti dell’identità e della stabilità dell’io, comprendiamo come abbandonare il ricordo delle proprie colpe, l’angoscia dei rimorsi, i rimpianti, per il malinconico possa assumere l’aspetto minaccioso di una separazione dal proprio io, di una perdita definitiva della propria identità. Nel passato il malinconico sembra cercare un appoggio, una sorta di sicurezza nei confronti di un mondo che fugge (Galimberti, 1987).

Scrive Del Pistoia (1989): "Passatizzazione del presente e anche del futuro, cancellazione del poter accadere, un "già accaduto" a trecentosessanta gradi, in altre parole essere nel futuro solo quello che si è già stati nel passato: come nella morte. Questa è la melanconia, vita morta in un tempo figé. Questo spiega perché i ricordi divengono rimorsi, le azioni compiute colpe. Per l’arresto del tempo cadono nella impossibilità di essere ripresi in un progetto, in una speranza, in una possibilità di rifare il già fatto nel senso di fare meglio, di rimediare, di riparare".

Queste alcune delle riflessioni di F. Barison (1991) sul senso della morte nel contesto del mondo melanconico: "Per il melanconico la mortalità è il lutto, la perdita dell’oggetto d’amore, la perdita di tutto l’essere. Nella melanconia c’è un restringimento dell’esserci, dell’esistenza. Questo andare verso il niente si connota nel Cotard. Il Cotard è raro, il cotardismo invece è frequente. "Non ci sono": è il non esserci del Cotard in una eternità di sofferenza. Questa morte è la morte della vita, la morte della vita di "quel" paziente. La morte nella schizofrenia è la mortalità che penetra nella struttura stessa dell’esistenza, nell’incontro dell’ente con l’essere, sul piano trascendentale. La morte "vissuta" dal melanconico è la "sua" morte individuale; quella dello schizofrenico è in un certo senso il morire dell’universo".

La intima e reale essenza della melanconia sembra essere quindi la morte eterna: si è morti interiormente, si muore continuamente giorno dopo giorno, all’infinito, anche se contemporaneamente non si muore mai. I casi di Cotard forse esplicitano, portandolo alle estreme conseguenze, proprio questo: alcuni pazienti dicono di non poter morire perché il loro corpo si è così svuotato e si è fatto così inconsistente che la morte non può colpirli: si dicono morti viventi e dicono di soffrire della loro immortalità, della loro impossibilità di morire, e chiedono di essere liberati da questo atroce destino; in altri pazienti la morte è vissuta come una morte reale (si è morti) ma contemporaneamente come una morte che non divora l’esistenza e che si accompagna a questa misteriosa sopravvivenza che rende vana la morte (Borgna,1992).

Vi sono delle melanconie, quindi, in cui viene meno anche la speranza di poter morire. Scrive Kierkegaard: "Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione. Tuttavia in un altro senso ancor più preciso la disperazione è la malattia mortale. Infatti è quanto mai improbabile che fisicamente si muoia di questa malattia o che questa malattia finisca con la morte fisica. Al contrario, il tormento della disperazione è proprio quello di non poter morire. Perciò assomiglia più allo stato del moribondo quando sta agonizzando senza poter morire. Quindi cadere nella malattia mortale è non poter morire, ma non come se ci fosse la speranza della vita: l’assenza di ogni speranza significa qui che non c’è nemmeno l’ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce il pericolo ancor più terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è così grande che la morte è divenuta speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire" (Kierkegaard, 1965).

Ma la morte e la capacità di uccidersi possono diventare la sola possibilità esistente di fronte alla lacerante perdita di mondo della melanconia: "la morte diviene qualcosa che dilata il futuro e ne recupera il senso, e la morte volontaria è vissuta come un’ultima possibilità di salvazione" (Borgna, 1988).

L’idea del suicidio costituisce forse per il melanconico "quel lieve soccorso, quella spintarella che gli permetterà di considerar la sua vita come irrimediabile e compiuta, vale a dire come un destino eterno o, se si preferisce, come un passato concluso"…; il melanconico "vede, nell’atto di por fine ai suoi giorni, qualcosa come un estremo recupero del suo proprio essere" (Jean-Paul Sartre,1947). Spesso, per poter godere dei risultati del suicidio bisogna sopravvivervi: l’impotenza, l’inattività, la frigidità, il peccato diventano solo alcuni degli equivalenti simbolici di una morte che il melanconico non può darsi.

Tatossian chiarisce che non è la morte "immanente" al soggetto (la morte che è intimamente legata alla vita e che ci accompagna fino alla fine dei nostri giorni) che è in gioco nelle condotte suicidarie del melanconico (il quale, come abbiamo visto, coincide con il corpo-soggetto). La morte che il melanconico desidera è una morte "trascendente", che gli è esterna in quanto soggetto, che poggia sul suo corpo e più precisamente sul corpo-oggetto da lui perso : il gesto suicidarlo lo fa ricomparire nel momento stesso in cui lo distrugge o tenta di farlo. Paradossalmente è un gesto di vita, è un tentativo di ricomparire nella totalità del corpo vissuto, recuperando in extremis la capacità di agire. Minkowski (2000), commentando un brano di Von Gebsattel così si esprime a riguardo:" ….la nostra malata è arrestata nella sua vita immanente; il solo aspetto della morte di cui possa disporre è quindi la morte trascendente, e attraverso quella morte aspira a ritrovare la possibilità di vivere e morire in modo immanente".

Ancora Tatossian sottolinea come "questo tipo di suicidio, nel quale il melanconico è sia soggetto che oggetto, non è concepibile se non in una solitudine assoluta, diversamente dagli altri depressi per i quali l’Altro resta una realtà vissuta (saranno suicidi di abdicazione, con funzione di ricatto o di aiuto). I melanconici abbandonano del tutto e definitivamente, per lo meno nel periodo della loro malattia, il ricorso all’Altro, rinunciano ad ogni aiuto umano consacrandosi ad un lamento solitario e ripetitivo, trovando tutt’al più in se stessi le risorse di un ultimo atto, il suicidio".

Per Callieri (1994), così come per Borgna (1992), la questione primaria che si ripropone alla riflessione psichiatrica sulla melanconia è proprio la "mancanza del con-esserci", la chiusura alla dimensione al dialogo, la solitudine radicale.

Questo restringimento delle possibilità esistentive è così marcato e irriducibile che "si ha talora la sensazione inquietante che nella depressività psicotica il paziente non solo si allontani del mondo, ma perda il mondo in una desertificata e implacabile cancellazione di ogni intenzionalità". (Borgna, 1992)

A livello controtransferale è questo lo scoglio più difficile da affrontare, che ha spinto tanti autori a considerare l’autismo depressivo come una situazione di chiusura intersoggettiva molto più marcata di ogni forma autistica schizofrenica.

"Un’oasi di orrore in un deserto di noi". E’ Kierkegaard a tracciare il profilo del melanconico moderno: "Ecco l’eletto delle sofferenze, l’apostolo della terra, il silenzioso amico del dolore, l’infelice amante del ricordo, nel suo ricordare turbato dalla luce della speranza, nel suo operare frustrato dall’ombra del ricordo. I suoi occhi non sembrano aver versato ma bevuto molte lacrime, e tuttavia vi divampa una fiamma che potrebbe consumare il mondo intero, ma non una scheggia della pena che è nel suo petto" (G. Cacciavillani, 1999).

Per Guardini (1993) l’esistenza del malinconico è un’esistenza "tutta a quinte e maschere": dietro, una profonda nostalgia di quiete e una cupa disperazione per l’impossibilità di dare un nome a ciò che avviene dentro di lui, a cose e sostanze inauditamente lontane, diverse da ciò che è umano. Si tratta della nostalgia di evadere dalla dissipazione, dal caos di ciò che è pura causalità, per spingersi verso l’interiorità, il raccoglimento del tutto, l’oscurità, intesa come mistero di ciò che è essenziale.

E’ questa la tensione, il dissidio tra il dentro e il fuori, tra interno ed esterno, non commensurabili tra loro nel malinconico. Dentro, il silenzio e il nascondimento, fuori la maschera e le maschere.

Il malinconico, dice Starobinsky (1990), vede maschere dappertutto; il malinconico non può aderire alla realtà esterna, "vive in tempo che non è il tempo degli altri , un tempo rallentato, un tempo sul quale la sua malattia proietta un’ombra, ed è lui che crede di non vedere intorno a sé altro che maschere".

Un mondo quindi di ombre, di maschere, proiezione e riflesso della maschera che il melanconico sa di portarsi addosso: un "volto scuro da cui emana una sensazione atmosferica di distanza impenetrabile" (Gozzetti, 1996), una "maschera triste, apatica e atonica…che vede un mondo piatto e grigio, privo di colori e di calore, privo di rilievi, di densità emotiva e affettiva " (Resnik, 1986).

Scrive ancora Guardini: " Troppo dolorosa è la melanconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri". Se è vero che la melanconia è siglata da esperienze quali l’angoscia, la solitudine, la mancanza di speranza che sfuggono a qualsiasi medicalizzazione, quello che dobbiamo e possiamo fare allora è iscrivere tali esperienze all’interno di un orizzonte di senso antropologico che, ben lungi da costituire una fuga speculativa, si delinea come unica possibilità di riconoscere, affrontare e rispettare nell’incontro con l’uomo malato vissuti ed esperienze umane (esperienze-limite) che pongono in questione il senso e significato del nostro esistere e soffrire.

 

(1) Passare dalla descrizione del tempo costituito, che è il tempo vissuto, all’analisi del tempo costituente, significa affrontare il problema della soggettività e della sua genesi, passando dalla fenomenologia descrittiva alla fenomenologia genetica "per vedere le alterazioni basali che, attraverso quelle del tempo vissuto, conducono alle alterazioni clinicamente rilevanti del tempo" (Tatossian, 2003). Ciò significa parlare del concetto di "temporalità" e della "struttura temporale fondamentale", messi in risalto da Heidegger e da Husserl , ovviamente al di fuori del problema della genesi causale di ordine biologico o psicologico. Sul problema della "costituzione del tempo " nella melanconia daremo solo alcuni, doverosi, cenni.

I deliri melanconici rappresentano senza dubbio una profonda trasformazione del Dasein, ed in essi si può scorgere, sempre, quel blocco della temporalità così come originariamente inteso nel pensiero di Heidegger. Scrive Heidegger (1927): " … col termine "temporalità" non intendiamo un ente, né un accadere, né un divenire emergente primieramente da sé, bensì il temporalizzarsi della presenza come tale, la temporalizzazione". E ancora: "Il fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante lo chiamiamo temporalità"…."la temporalità è l’originario "fuori di sé", in sé e per se stesso. Perciò noi chiamiamo i fenomeni avvenire, essere — stato e presente le estasi della temporalità. La temporalità non è dapprima un ente che poi uscirebbe fuori di sé; la sua natura essenziale è la temporalizzazione nella unità delle estasi".

Queste brevi definizioni, tratte da "Essere e Tempo", hanno costituito la base di riflessione per molti psicopatologi di ispirazione fenomenologica; Binswanger, peraltro, nel suo Saggio su "Melanconia e mania" (1960) opera un riavvicinamento a Husserl. Egli scrive: " Husserl designa i momenti costitutivi e strutturali degli oggetti temporali — futuro passato, presente — come pretentio, retentio e praesentatio. Normalmente questi si integrano a vicenda e assicurano a un tempo, e ciò è di fondamentale importanza per la nostra indagine, la costruzione del Worüber ("ciò, di cui"), del tema presente. Protentio retentio, praesentatio, non sono dunque da considerarsi come pietre isolate nella costruzione dell’oggettività temporale; non sono separabili, essendo in esse sempre implicito l’a priori. Per usare un esempio caro a Szilasi: mentre parlo, dunque nella praesentatio, ho già delle protenzioni, altrimenti non potrei terminare la frase; allo stesso modo ho, "durante" la praesentatio, anche la retentio, altrimenti non saprei ciò di cui parlo. Dobbiamo dunque scoprire i "modi difettosi" delle tre dimensioni e le loro reciproche interferenze. Ciò naturalmente è ben diverso dal costatare che i malati melanconici "non si staccano dal passato", "sono legati al passato" o che "sono del tutto soggiogati da esso"; tutt’altro che costatare che "sono tagliati fuori dal futuro", che "non vedono davanti a sé alcun futuro" e che "il presente non dice loro niente" o "è completamente vuoto"; o ancora: "Retentio, praesentatio, protentio non vanno intese come fenomeni isolati della temporalizzazione indipendenti l’uno dell’altro, ma come momenti della sintesi unitaria delle operazioni intenzionali, costitutive della oggettività temporale. Nella melanconia abbiamo un ben preciso difetto di coordinamento delle operazioni intenzionali in "quella" trama unitaria, con il conseguente allentamento della stessa e la comparsa in essa di "punti difettosi". In altre parole, ciò che noi vogliamo mettere in evidenza nella analisi psicopatologica dei melanconici, anche quando studiamo le loro produzioni deliranti, è proprio la perdita di quella capacità di sintesi unitaria che, sola assicura all’essere umano una compiuta capacità di rapportarsi nel mondo proprio e con gli altri".

Il melanconico è sempre legato al passato e situa nel passato l’origine e la "spiegazione" del suo soffrire; quando il suo sguardo si volge al futuro è solamente per sancire la sua sicurezza (l’evidenza, dice Binswanger) che tutto è già compiuto e che nulla si può sperare di diverso.

"Quando i melanconici dicono: "so che domani apparirà sul giornale la mia vergogna, il mio delitto, il mio fallimento …., tutto ciò non ha per loro solo il carattere della cosa oramai decisa, ma del fatto compiuto: ed esso rimane anche se smentito dalla realtà. Il melanconico non si lascia convincere dai fatti". Mentre invece quando il loro sguardo si volge al passato, essi continuano a usare espressioni caratterizzate dal condizionale: "Se io non avessi fatto ….; o se io avessi fatto così invece che così; allora avrei evitato che …", addossando comunque a sé ogni responsabilità di ciò che è (o non è) accaduto. Possiamo affermare che "se" o "se non", "se avessi" o "se non avessi", sono vuote possibilità. Ma quando il discorso verte sulle possibilità, ci troviamo in presenza di atti protentivi: il passato non ha più possibilità. Ma qui ciò che è libera possibilità si ritira nel passato. Ciò significa che gli atti protentivi diventano necessariamente le cosiddette vuote intenzioni.

Essendo turbata la protentio, è turbato tutto il "processo", tutto il flusso o il carattere di continuità non solo della temporalizzazione, ma anche soprattutto del "pensiero" in generale. Perciò la melanconia è una malattia molto più "grave", un disturbo molto più "profondo" di quanto comunemente crediamo, soprattutto in base alla sua curabilità". (Binswanger, 1960)

Questa pagina binswangeriana coglie e descrive in modo difficilmente uguagliabile il disturbo della temporalizzazione nella melanconia: il melanconico non riesca a vivere compiutamente la sintesi delle tre estasi temporali, ma, schiacciato dal passato, ancorquando parla del futuro, ne parla come di qualcosa che è già accaduto; è una pseudo proiezione verso il mondo delle possibilità, in realtà è ancora una volta una conferma di uno stato di blocco, di incapacità, di chiusura. "Il tempo dell’angoscia (melanconica) non è il tempo del passato che lascia sopravvivere (agonizzando) solo brandelli del presente ma è il tempo in cui passato, presente e futuro si riunificato e si fondono contemporaneamente. Il futuro (l’anticipazione di un futuro terrificante e distruttivo) è ciò che si è già realizzato nel qui-e-ora in cui anche gli eventi del passato irrompono con impetuosa turbolenza" (Borgna,1992).

 

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