Facebook, metafora del nostro Mondo
Leggo da Wikipedia che Facebook, fondato nel 2004 da uno studente di Harvard, dal luglio 2007 figura tra i dieci siti internet più visitati al mondo; sito numero uno negli Stati Uniti per foto caricate, avrebbe registrato in Italia, nel corso del 2008, un incremento di visite del 961%.
Nel giro di pochissimi anni è dunque passato da annuario informatizzato dell’Università di Harvard ad Annuario Universale, con una parallela progressione geometrica delle possibilità applicative ed espressive fornite agli utenti; ciò che ne ha fatto un mondo. O forse più precisamente, a mio modo di vedere, una delle metafore più congruenti del mondo in cui viviamo.
Il mondo in cui, come direbbe Heidegger, siamo gettati, in cui "ci troviamo a essere", è, secondo questa visione, l’Universo Concentrazionario del contatto globale ed estensivo, dell’imperativo di una manifestazione di sé intesa prevalentemente in senso moltiplicativo e additivo. Ma l’incremento esponenziale delle possibilità espressive forniteci dalla tecnologia implica pure il rischio di una paradossale perdita o parcellizzazione identitaria nella miriade anomica di quelle stesse opportunità, in un estenuato sgocciolamento di un curioso pedigree fatto per elenchi ed enumerazioni -nel caso dei network resi disponibili da Internet: blog, commenti a tutto il commentabile, foto, citazioni di versi e autori presentati a mo’ di biglietto da visita, infiniti rosari di tutti i propri gusti e pregiudizi, esposizione di coorti di "amici", dichiarazioni di ammirazione o di odio per personaggi in vista, di affinità elettive e di idiosincrasie, etc.
Proprio laddove si intendeva essere iper-densità, c'è invece diluizione; perdita di vista dove si credeva di operare una messa a fuoco. Pulviscolo identitario.
E’ risaputo: le più grandi opportunità prevedono anche i più grandi rischi. E così per la Piazza Globale -che qui chiamo anche, in modo equivalente e un po’ provocatorio, "Universo Concentrazionario"- provvista dalla Tecnica. Nessuna sorpresa.
Prima che l’espressione "universo concentrazionario" possa essere giudicata eccessivamente paranoica e letteralmente fuor-di-luogo, preciso di avere in mente, utilizzandola, la definizione che ne dà Milan Kundera in un passo de "L’insostenibile leggerezza dell’essere" e quella percezione che delinea più tardi ne "L’identità" :
"Il campo di concentramento è un mondo nel quale le persone vivono continuamente una accanto all’altra, giorno e notte. La crudeltà e la violenza sono soltanto un aspetto secondario (e per nulla necessario). Il campo di concentramento è l’eliminazione totale della vita privata. (…).
Da allora sapeva che un campo di concentramento non è qualcosa di straordinario, qualcosa di sensazionale, ma, al contrario, qualcosa di dato, di fondamentale, nel quale si nasce e da dove si può evadere solo a prezzo di un’enorme fatica".
"…in un mondo come questo, in cui ogni nostro passo viene controllato e registrato, in cui siamo tenuti d’occhio dalle telecamere piazzate nei grandi magazzini, in cui ciascuno vive sempre a stretto contatto con gli altri (…), com’è possibile che qualcuno riesca a sfuggire alla sorveglianza e a sparire senza lasciare tracce?"
"Campo di concentramento" come qualcosa di niente affatto straordinario o eccezionale. Lo stupore, la quasi incredulità che ci afferrano di fronte ai casi di sparizione senza soluzione, lungi dal contraddire l’assunto, confermano il carattere sistematico e per lo più indefettibile di un siffatto universo. Peraltro, quando lo scrittore di origine ceca scriveva quelle parole, pur non molti anni fa, le articolazioni tecnologiche erano ben più misere che oggi, risultando quasi ingenuo il riferimento alle povere telecamere di sorveglianza.
Rifacendosi al senso di Kundera, si possono individuare dunque due caratteri cruciali della Piazza Globale:
- l’abolizione della privacy (o comunque il suo vertiginoso restringimento);
- l’impossibilità pratica di "scamparne".
Mi sembra che Facebook possa efficacemente porsi come una delle metafore, oltre che una delle articolazioni fattuali, più sorprendenti di questo universo nato dalla espansione inflazionaria delle possibilità di contatto e di esposizione forniteci dalla Tecnica, la quale, nell’accezione di Heidegger, che si presta particolarmente a queste riflessioni, è Ge-stell, ovvero "scaffale", ma anche "impianto","im-posizione"; ovvero la Tecnica, attraverso la totalità del porre tecnico, s’impone e diventa l’orizzonte intrascendibile dell’esistenza umana, a propria volta divenuta strumento della sua perpetuazione afinalistica.
Se il Mondo è, seguendo il filo heideggeriano, quel tessuto irriducibile di rimandi di senso e di significato, per cui ogni cosa rinvia a un’altra, ogni oggetto al suo creatore, al suo utilizzatore, al suo proprietario, alla sua funzione, etc., il Mondo, nella sua accezione globale tecnologicamente realizzata, èimpossibilità di non esserci.
Della Terra, termine nel quale il filosofo di Friburgo ha riunito tutto ciò che sempre si sottrae e custodisce il suo enigmatico senso ritirandosi in se stesso, tutto ciò che non si fa Mondo nell'illuminazione esplicitante, non ne è più nulla.
Facebook, tuttavia, non è che uno dei tanti angoli di quella Piazza Globale apparecchiataci dalla Tecnica.
Esso è il democraticissimo Museo delle cere, la Grande Esposizione Universale in cui ognuno di noi può avere uno spazio per una propria esposizione potenzialmente globale e quindi realizzare la famosa profezia warholiana della piccola celebrità senza attendere la ventura del suo misero e fatidico quarto d’ora.
Esso è anche il più recente agone in cui il discorso, la visione e la comprensione, da Heidegger indicati come le modalità precipue dell’essere proprio dell’uomo, si declinano nella loro accezione media e quotidiana, ovvero, rispettivamente, nella chiacchiera, nella curiosità e nell’equivoco -e chi abbia avuto modo di incontrarsi con l’analitica esistenziale del filosofo tedesco sa come nessuna di queste categorie sia connotata in senso dispregiativo, individuando esse l’inevitabile ed essenziale modo quotidiano e pubblico in cui tutti noi siamo immersi per la gran parte del nostro tempo.
Non è necessario registrarsi in Facebook per essere in o per essere alla maniera di Facebook. Ci si trova a esserci comunque: per esempio in album fotografici altrui, non solo come "figura", ma altresì attraverso la più o meno casuale rappresentazione di oggetti che, in vario modo, ci richiamano -e nel bazar universale, come potrebbe essere altrimenti?-. Vi si può essere senza un consenso esplicito, nella scontata e tacita persuasione che la nostra "esposizione" non ci spiaccia mai davvero -e non dico che non si abbia per lo più ragione; sottolineo solo la circostanza e l’inerzialità della deduzione, indice di un'atmosfera culturale.
Per sgombrare il campo da eventuali fraintendimenti, dirò pure che, personalmente, non mi pongo il problema, ormai quasi prometeico, di scampare a Facebook o a qualche altra stanza dell’universo concentrazionario, che sarebbe, coerentemente con l’assunto, impossibile.
Questo vuol essere solo un tentativo descrittivo, o una proposta descrittiva. Certo è poi che "descrivere" fenomeni così attuali e inglobanti implica, per forza di cose, il sottolinearne e selezionarne i tratti ritenuti "salienti" -perché descrivere il "tutto" di un tale fenomeno è fenomenicamente impossibile- e quindi, in qualche modo, fare il salto su un piano interpretativo.
Credo che sia ragionevole affermare che Facebook abbia una struttura bicefala, con l’Auto-Esposizione e la Comunicazione come poli di un continuum.
Mi manifesto, dunque sono e dunque sono con gli altri. E’ il cogito di Facebook, la sua filosofia non sua, nel senso non originata da esso, ma che piuttosto arriva da assai lontano. E’ in fondo la storia della metafisica occidentale di cui la Tecnica, che rende possibile Facebook, è, per Heidegger, l’estremo compimento.
Facebook, esemplare di quella globalizzazione del contatto e dell’esposizione, sembra confermare che, nel nostro mondo, l’unica sottrazione, l’unica decurtazione ammessa dall’imperativo additivo-moltiplicativo sia quella ai danni di spazi privati un tempo incondivisibili anche solo per evidenti limitazioni tecniche.
La privatezza, o, se si vuole, lo spazio intimo, la non-visibilità, il tacere, possibile solo quando si abbia davvero qualcosa da dire, sembrano di converso far nascere il terrore dell’annichilimento, dell’inanità, della leggerezza insostenibile, del mutismo, dell'inabissamento in una interiorità buia come un teatro a riflettori spenti e senza spettatori.
Ecco allora che l’Io sono si declina in Facebook per manifestazioni successive e concomitanti, per solenni e affettati annuntio vobis, per sperticate dichiarazioni di gusto, di appartenenza, di amore, di odio, di fazione, di gioco, di intento (sto per fare, intendo fare…), di stato (sto facendo, sono connesso/non connesso…) che mettono in scena una sorta di ossessione della assoluta rin-tracciabilità -tutto deve essere rintracciabile e tracciabile, come nelle filiere produttive- e dell’assoluto essere-visto. Con il rischio, per la nostra individuabilità, dei risultati paradossali sopra accennati.
Essere, in Facebook, diventa tutt’uno con essere-qualcosa. Questo qualcosa non è pressoché mai originale, ma per lo più attinge all’offerta universale di oggetti di identificazione prêt-à-porter: essere fan di tizio, essere nel gruppo vattelapesca, amare la nutella o le fettuccine, i Simpson o Friends etc; il tutto condensato in profili per lo più pieni zeppi, come il salotto della nonna Speranza di Gozzano, di "buone cose di pessimo gusto" -detto con lo stesso affetto non sprezzante, ché nulla sarebbe più kitsch che tentare di espellere del tutto il kitsch dall’esistenza riducendola a un’anestetica estetica immunitaria; il kitsch, a cui nessuno mai sfugge del tutto, ha una funzione riequilibratrice.
Ma non basta questo ansioso e ansiogeno essere-qualcosa. Per realizzare l’essere alla maniera di Facebook -non inventata da Facebook, ribadisco-, occorre che l’essere-qualcosa sia "visto", "riconosciuto" e, infine, "partecipato".
Aggiornando: Io sono le mie manifestazioni, le mie articolazioni fenomeniche, vertiginosamente ed esponenzialmente moltiplicate dalla tecnologia,esposte e partecipate. Partecipare significa letteralmente "rendere qualcuno o se stessi parte di qualcosa", ovvero dare a qualcuno qualcosa di un intero (una parte). L’intero che si "particola", che diventa perciò particolato, polvere sottile, è l’intero ormai mitico di una identità personale che sembra non riuscire a rintracciarsi se non rendendosi rintracciabile, se non sgranandosi in lunghi rosari di cose amate/odiate/dichiarate/fatte.
Cose che una volta erano chiamate "accidenti", ovvero attribuzioni non inerenti all’essenza di un essere. Della desueta e correlativa categoria della "sostanza", come ciò-che-sta-sotto l’apparenza mutevole dei fenomeni e che rimane uguale a se stesso nella propria necessità, non ne è più nulla.
Certo non da oggi e neppure da ieri, certo non a partire da Facebook, la sostanza, che qui è l’identità, non è più che, empiricamente, una collezione di qualità sensibili. Una collezione di cose prese dal bazar.
Pure del mistico "sentimento dell’assenza", che non era "assenza di sentimento", non ne è più nulla.
Nessuno scandalo, nessuna malinconica laudatio temporis acti, tanto più che Facebook non è assolutamente in contrasto con la nostra tradizione filosofica. Poiché Heidegger ci ha insegnato che la scienza sperimentale, nata dall’empirismo, e la Tecnica, nata dalla scienza sperimentale, non sono il capovolgimento di quella metafisica tradizionale, ma il suo estremo compimento. Perché essa è, fondamentalmente, metafisica della presenza.
Facebook continua infatti ad affermare, insieme a tutto il nostro Mondo, quella riduzione essenziale operata dalla filosofia occidentale, partita da Platone e così lucidamente chiarita da Heidegger, che ha fatto equivalere l’essere all’essere-presente: è ciò che è-presente, ovvero ciò che si manifesta nel modo della presenza. Ma siamo ancora più precisi se diciamo che essere, in Facebook, è tutt’uno con l’essere-qualcosa che sia qui presente. E così della differenza ontologica fra l’Essere (trascendente assoluto) e l’ente ("ciò-che-è", proposizione relativa dell’Essere) non ne è ugualmente più nulla.
Intendendo a questo modo l’Essere, appare peraltro più facile figurarsi il Non-essere, ovvero il Nulla, da sempre terribile questione aporetica della filosofia. Infatti non-essere diventa parallelamente, semplicemente, non-essere-presente, non-essere-qui, dove tutto ormai accade.
Il modus essendi di cui Facebook rappresenta una delle concrezioni più attuali e meraviglianti, degna di massima considerazione, è quello che dunque chiamerei dell’"iper-poli-auto-fanìa", vale a dire dell’imperativo categorico di una manifestazione di sé ad alta intensità e ad alta frequenza, in perfetta coerenza con la suddetta concezione dell’essere.
E’ ancora possibile allora essere senza esser-ci (e qui non s’intende ovviamente il complesso Dasein della fenomenologia, ma un più prosaico essere-qui-ora-essendo-percepito)? A mio modo di vedere, no. Se non si è in Facebook si è comunque in una qualche altro angolo dell’Universo Concentrazionario, per cui, consce di ciò, queste considerazioni non intendono porsi come quelle di chi rimane "fuori" e da lì opina, ricadendo già per ciò stesso in una logica di esposizione, nel woody-alleniano dubbio per cui "mi si nota di più se ci sono o se non ci sono, oppure se ci sono e me ne sto in disparte".
Immaginiamo infatti un qualche individuo che riuscisse a sottrarsi del tutto al mondo globale concentrazionario. Chi ne percepirebbe l’esistenza? Avrebbe senso dire infine che "esiste"? I neoempiristi logici dicevano che l’esistenza non è un predicato; l’esistenza si esperisce, non si predica. Non è una presunzione. Chi scompare, semplicemente non-è più. Almeno finché l’essere si intende come essere-presente, ovvero come essere-percepito nel bruciante qui e ora del tutto-presente, non si può essere se non partecipando, o meglio se non partecipando-si nello spazio monocamerale che è divenuto quel mondo il cui orizzonte ultimo è la Tecnica che ricrea se stessa.
Nessuno scandalo, ancora. Che lo spazio comune sia l’agorà, o la piazza intorno alla chiesa delle città medievali, o la nostra stessa piazza di solo pochi decenni fa, o la piazza "virtuale" -che poi virtuale non ha senso che sia detta, essendo più che effettiva- di Facebook, di MySpace, del Messenger, ma anche quella dei telefoni cellulari, della moda e dell’estetica prevalente ecumenizzata grazie ai vari e potenti media che la Tecnica ci ha messo a disposizione -o sarebbe meglio dire, di cui ci ha messi a disposizione?-, il motivo fondamentale del manifestarsi e del convergere in un’area comune al manifestarsi degli altri rimane inalterato e profondamente umano.
Eppure vi è una differenza indubitabile. Quando infatti la Piazza, mercé le enormi possibilità provvedute dalla Tecnica, si dilata a comprendere il Mondo e il Mondo diventa Uno nell’articolazione universale del Web e degli altri media, allora la possibilità della sottrazione non è più possibile. La sottrazione diventa semplicemente impossibile.
Il nostro è un universo da cui è bandita l’Assenza -quella vera, non quella strategica alla Woody Allen.
Il mondo globalizzato della Tecnica è il mondo dell’assenza dell’Assente.
L’Assente è colui-che-non-è-qui, ma che potrebbe essere-là, in un terzo spazio -terzo rispetto al "mio" e al "tuo", che stanno di fronte l’uno all’altro-. Se nel mondo globalizzato e monocamerizzato -pensiamo a Google Maps, a Google Earth con Street View, all’infinità di webcam piazzate ovunque e in ogni momento contattabili- tutto è qui presente, allora non ne è più nulla del "là", e dunque dell’Assente, che è proprio colui che là si situa.
Dal nostro mondo tramonta l’Assenza intesa come possibilità di essere altrove, allocato in un là indeterminato perché ostinatamente sfuggente allapartecipazione e al rintracciamento.
Ma allora dove lo mettiamo, si potrebbe obiettare, il missing, lo scomparso senza più traccia, quello cui fa riferimento Kundera. Ma per l’appunto loscomparso non è letteralmente l’assente. Lo scomparso senza traccia non è semplicemente altrove. Piuttosto non è più, a meno che non si dia la pena di ricomparire nel qui globale, rivelando di essere semplicemente stato in una zona d’ombra.
Tornando nei più ristretti limiti della nostra metafora, è chiaro che ci si può sempre non iscrivere a Facebook, o si può cambiare canale, come dicevano una volta gli assertori del presunto trionfo della libertà di fronte al televisore; ma precisamente di questo si tratta: solo di cambiare un qualche canale, ché spegnere il televisore o disconnettersi rappresenterebbero un radicale, e forse velleitario, mettersi-fuori-gioco.
Certo l’universalizzazione del contatto e dell’esposizione implica pure e prima di tutto un universo di magnifiche possibilità, ma queste sono quelle che immediatamente ci stanno sotto gli occhi nella nostra stupita esperienza del vorticoso progredire tecnologico. E’ alle dimensioni controluce che hanno tentato di rivolgersi queste proposte di riflessione, senza catastrofismi o annunci pseudo-oracolari di fine di un qualche mondo. Almeno non volontari.