James Ballard, Crash: Eros incidente
Vaughan il voyeur, “scienziato-teppista”, spia dalla sua vecchia Lincoln Continental (la stessa berlina aperta dove era morto il presidente Kennedy) un oggetto erotico singolare: l'istante estremo dello scontro d'auto e la congiunzione dei corpi lacerati con le superfici di plastica, di lamiera metallica e cristalli infranti. Vaughan anticipa ossessivamente l'istante della propria morte, filmando con la cinepresa collisioni sperimentali, dove si immagina al comando delle auto lanciate allo schianto. Intesse elaborate fantasie intorno alle morti leggendarie di James Dean, Albert Camus, John Kennedy, o inventa scontri immaginari per dive viventi come Elizabeth Taylor.
Vaughan spia e gode dell'istante di Thanatos, che è l'istante del suo Eros. Il desiderio perverso si sostiene sempre sull'ideale di un oggetto inanimato, ma, nel momento in cui si realizza, è necessario che l'oggetto sparisca, o venga annientato. Il fantasma di Vaughan è di “supporre” così il proprio annientamento.
Egli continuamente “si spia morire”. Esplora le proprie possibilità di scontro, le mille varianti di “giunzione” di corpo e macchina. Spia dai tipici luoghi ballardiani divenuti ormai topoi fondamentali dell'immaginario metropolitano contemporaneo: dal parapetto del cavalcavia dell'aeroporto, dalle rampe d'uscita della Western Avenue, dalle sopraelevate ad anello delle immense autostrade di una Londra reale e immaginaria, e mentalmente già futura.
Semiologo perverso, spia le tracce e i segni dell'alterazione irreversibile prodotta sui corpi delle vittime dalla violenza degli scontri frontali, anatomizza con lo sguardo quella combinatoria “impossibile” di materiali eterogenei e la registra col flash della Polaroid.
La sua abiezione è di voler catturare dal di fuori l'intimità letale dell'altro, la sua grandezza è di sopportare l'intollerabile.
James Ballard, in Crash, individua l'incidente come “metafora estrema per una situazione estrema”, dove l'uomo in automobile, oltre che potente simbolo sessuale, è metafora delle condizioni della società tecnologizzata; simbiosi di organico e di inorganico, naturale e artificiale, fisiologico e macchinale, pulsionale e inanimato. Ballard vede nella quantità smisurata di incidenti d'auto la forma del “cataclisma pandemico istituzionalizzato in tutte le società industriali”. Per questo,Crash è una sorta di atlante immaginario di Eros e Tanathos in automobile, e ne contiene tutte le ebbrezze.
Automobile: i milioni di auto su questo pianeta sono statici e il loro moto apparente costituisce il più grande sogno collettivo dell'umanità. Fantascienza: il sogno del corpo di diventare macchina.
Sono due voci ballardiane incluse in Progetto per un glossario del XX secolo (su “Zone”, 1992).
La retorica ballardiana si sostiene continuamente su una topica dell'impossibile: il retore medioevale Curtius, seguace di Aristotele, nella sua furia tassonomica di recensire i loci communes, pone tra i topoi fondamentali i cosiddetti impossibilia (Adunata in greco). Questo topos impone una brusca e sorprendente compatibilità di segni o fenomeni opposti così che la conversione paradossale della realtà funziona come il segno inquietante di un mondo ribaltato (Barthes).
La letteratura fantascientifica conosce perfettamente questa topica narrativa, ma Ballard ne fa molto più che un puro stereotipo discorsivo: la congiunzione degli impossibili è l'autentico argumentum in Crash, e funziona come rottura di una logica lineare e prevedibile, per porsi come interscambio tra immaginario e reale, dove l'evento-incidente fa simultaneamente da punto di cerniera e da coupure.
Ballard scrive nell'introduzione a Crash: “Il fatto principale del XX secolo è il concetto di possibilità illimitata. Questo predicato della scienza e della tecnologia si fonda sul concetto di moratoria del passato (o di irrilevanza, anzi di morte del passato) e sull'illimitatezza di alternative offerta dal presente. Ciò che collega il primo volo dei fratelli Wright all'invenzione della Pillola è la filosofia sociale e sessuale del sedile eiettabile”.
Credo che la forma-incidente interessi a Ballard anche per altre ragioni: l'incidente infatti è una delle più caratteristiche forme del caso. La modellizzazione logica che l'incidente fornisce del caso è interessante perché è duplice: interessa simultaneamente la struttura dello spazio e quella del tempo. In quanto categoria spazio-temporale è oggetto di studio della fisica moderna, come lo era stato della metafisica antica.
Il caso è destabilizzazione, discontinuità, irregolarità, catastrofe. Uno degli aspetti più significativi della fisica quantistica è la negazione del determinismo, attraverso l'assunzione del cosiddetto principio di indeterminazione formulato da Heisenberg.
La scienza contemporanea definisce il caso come prodotto dell'intersezione fortuita di diverse catene causali indipendenti. L'approccio statistico perviene al massimo a leggere una certa regolarità (ove esista) del disordine. Le leggi esprimenti le serie regolari sono soltanto forme del caso o casi del caso. Le leggi causali classiche si trasformano in leggi probabilistiche. “L'episteme non riesce a dominare, perché la novità imprevedibile di ciò che comincia ad essere rompe le reti immutabili che la previsione dell'episteme getta sul mondo”. La teoria della probabilità riconosce che le distinzioni tra successioni ordinate e successioni disordinate sono assolutamente convenzionali e provvisorie, proprio per l'assoluta imprevedibilità del divenire dal niente.
Il famoso principio di indeterminazione enuncia che nessuna particella può avere simultaneamente valori ben definiti di velocità e di posizione. In altre parole una particella non può stare ferma in una posizione definita, ma oscilla, perché, se è ferma, ha velocità nulla (dunque ben definita). Severino nota che gli stessi teorici della meccanica quantistica, Heisenberg e Bohr, inclinano verso un'interpretazione non soggettivistica del principio di indeterminazione, per la quale il rapporto simultaneo tra posizione e velocità delle particelle è qualcosa che in linea di principio non può essere osservato, ma non è una realtà in sé inconoscibile.
Se si assume come punto di vista scientifico il modo in cui i microfenomeni si presentano nell'esperienza della loro successione - ad esempio nella lettura degli apparecchi di registrazione, nell'osservazione di film o di lastre fotografiche (luoghi peraltro squisitamente ballardiani) -, li si coglie nell'atto del divenire, cioè come un cominciare ad esistere diventando qualcosa da niente: allora il rapporto determinato tra velocità e posizione non può essere una legge epistemica ignota, ma un'espressione priva di senso, cioè un niente.
Reichenbach ha tentato di interpretare l'indeterminatezza della posizione della particella e della quantità di moto quando la posizione è determinata, proponendo l'introduzione di una logica a tre valori che rifiuti il principio del terzo escluso, affermando - oltre a uno stato esistente e a uno inesistente - anche uno stato né esistente, né inesistente, da definirsi “indeterminato”. Severino aggiunge che di fatto Heisenberg e Bohr non parlano di un concetto contraddittorio, ma di affermazione sprovvista di senso: tuttavia, nel suo significato essenziale, il concetto neopositivistico di insignificanza è appunto il concetto del niente. Egli conclude per una permanenza concettuale del senso del niente, anche là dove sembrano superate le categorie decisive dell'ontologia greca.
Con la teorizzazione del principio di indeterminazione, la fisica moderna chiude con l'immutabile fiducia nelle leggi causali deterministiche ereditate dall'epistemeclassica.
La leggibilità previsionale dell'incidente è identica a quella del gioco d'azzardo: non si lascia raggiungere dall'episteme, ma può essere il prodotto di un'ars congetturale: Bernoulli parla di un'Ars conjectandi che si propone esplicitamente come previsione (conjectura da cum-jacio, getto innanzi essendo provvisto di un'attrezzatura che consente di raggiungere ciò che mi sta innanzi).
Al di là di questa possibilità “artistica” - che è quella di cui fruisce appunto il Vaughan di Crash, non per nulla scienziato-teppista, che sa estrarla dai suoi saperi criminali e dal suo desiderio perverso - l'incidente ricade nel campo dell'indeterminabile e dell'indecidibile.
Il suo fascino sta tutto nel fondamentale carattere di arbitrarietà, un principio di padronanza impersonale. Morte e godimento si rivelano come indecidibili incidenti. Vaughan, il voyeur, gode appunto dell'indecidibile.
Jeu de massacre, allora. Nel '75, chiudendo una tavola rotonda tra sociologi francesi, intitolata “La morte automobilistica”, Baudrillard richiama la teoria dei giochi: “È qui in questione il problema della regola del gioco. Ogni regola del gioco è affascinante. Un gioco, non è che questo, e il delirio, il piacere intenso del gioco proviene dalla chiusura nella regola”.
Sulla relazione tra caso e divenire, leggiamo Wittgenstein: “Nell'evenire del mondo non si dà valore. Se valore vi fosse, allora dovrebbe trovarsi al di fuori di ogni evenire o essere-così, poiché ogni evenire o essere-così è caso” (Tractatus, 6.41).
Il caso sembra qui evento, accadimento (letteralmente: caduta) come possibilità di irruzione dell'imprevisto. Possibilità assoluta. Di questo venire ad esistere, che si presenta all'improvviso, si può godere. Penso al famoso “Wie wahr, wie seind!” (Com'è vero, com'è esistente!) di Goethe, quando, durante il suo viaggio in Italia, vide un granchio muoversi in un torrente.
Ortega y Gasset è l'unico pensatore che situa Goethe come soggetto continuamente implicato nella casualità: “Ebbe per tutta la vita una sensibilità iperestesica nei confronti del caso. Goethe non si faceva illusioni, ho già avuto occasione di dirlo. Il suo occhio d'aquila, brillante e freddo, guardava la realtà senza batter ciglio e percepì, forse come nessun altro aveva fatto fin dai tempi più antichi, che nella nostra vita tutto dipende in ultima analisi dal caso. Tutte le leggi fisiche e biologiche non son sufficienti a darci la sia pur minima sicurezza su quello che accadrà tra qualche istante. Questo ci mostra chiaramente quanto vi è di più strano nella condizione dell'uomo. In questo istante, in questo presente, né voi né io stiamo vivendo questo istante, questo presente. In questo istante io sto cercando la parola che sto per pronunciare immediatamente, cioè nell'immediato futuro. Voi non vi trovate nell'istante in cui ho appena pronunciato una parola, ma state aspettando quella che seguirà. In questo banale e minuscolo esempio si avverte chiaramente che la nostra vita, vale a dire ciò in cui l'uomo sta propriamente e primariamente, è sempre in primo luogo un vivere l'avvenire”.
Vediamo Ballard: “Sono sempre stato convinto che il futuro sia una chiave migliore del passato per comprendere il presente...”. Il futuro però viene supposto come già eroso dalla storia e risucchiato nel presente: “Le nostre concezioni del passato, del presente e del futuro vanno sempre più, forzatamente, modificandosi. Come il passato, sotto il profilo sociopolitico, è divenuto vittima di Hiroshima e dell'era nucleare, così il futuro sta a propria volta cessando di esistere, divorato dall'onnivoro presente”.
Ortega ci dice che Goethe riprende da Macrobio l'antichissima dottrina degli egizi, per cui quattro divinità assistono alla nascita dell'uomo: Daimon, il demone interiore, potere elementare del nostro carattere; Ananke, la necessità inesorabile della condizione umana, Eros, la capacità di provare entusiasmo; infine Tuche, il caso. Egli ritrova anche in Dilthey una combinatoria concettuale quasi identica: la vita è Shicksal, Charakter und Zufall, destino, carattere e caso.
Ortega sottolinea come Goethe traducesse tuche coscienza del caso. Egli pensa che dopo una giovinezza gioviale e dolcemente vegetativa, un'esistenza “quasi botanica”, Goethe avesse in vecchiaia colto il carattere drammatico della vita grazie all'idea di caso. Il secondo Faust sarebbe centrato sul futuro: “Il tempo - dice Ortega - è soprattutto futuro, avvenire. Questo è ciò che più di tutto ci interessa, ci importa. Perché? Perché l'avvenire è per sua essenza ciò che non sappiamo come sarà... Vivere inteso come presenza dell'avvenire, significa trovarsi in quanto vi è di più problematico... L'avvenire è per definizione insicuro e, poiché per l'uomo vivere è in primo luogo essere nell'avvenire, la radice dell'esistenza umana è la coscienza dell'insicurezza. Per questo mi sembra così bello il motto di quel cavaliere borgognone del XV secolo che dice: `Rien ne m'est sur que la chose incertaine”' (Meditazioni sulla felicità. Goethe senza Weimar).
Tempo soggettivo, che è tempo psichico, tempo “logico”, pensa Lacan; spazio interiore, l'Inner space caro a Ballard, dov'egli gioca le sue storie fantascientifiche, anziché nello spazio astrale. Del tutto analoga è la posizione concettuale riguardo il futuro di Vaughan in Crash, e il suo piacere, non innocente come lo è invece quello goethiano, di fronte al presentificarsi fortuito, improvviso, “mobile”, non del guizzo del granchio, ma dell'urto tra due veicoli: la passione dello schianto, la visione di un'inedita mutazione del corpo, le inimmaginabili commistioni di un quasi travestitismo con l'inorganico, ambivalenze non trans-sessuali, ma trans-materiche. Come l'ambivalenza sessuale, le nuove giunzioni corpo-macchina rappresentano un'obiezione alla legge della logica binaria che condiziona il modo di pensare occidentale.
Qui si rivela in parte il senso della sovversione ballardiana: un gioco di prestigio dove il punto di rottura, di Crash, fa sin-tomo (nel senso greco originario di in-cidente), o fa da scotoma nel dispositivo della legge.
L'accesso al godimento avviene tramite la ripetizione, come la coazione a ripetere (Wiederholungszwang) sostiene per Freud la macchina pulsionale nella pulsione di morte.
Lo sapevano i Greci, che chiamano il caso Automaton, oltre che Tuche.
L'attrazione oscura che lega il desiderio sessuale all'ecatombe quotidiana degli scontri d'auto, la libido rivolta alle trasformazioni che la tecnologia compie sul corpo umano (ricordiamo anche recenti forme perverse apparse nel mondo dell'arte figurativa o performativa relative all'alterazione, manipolazione, tecnologizzazione del corpo) segnalano una nuova forma del caso: l'ibrido di macchina e carne. Il corpo come automaton non fu forse un vecchio sogno dell'intelligenza umana, dagli automi settecenteschi ai replicanti di Blade Runner?
Nella Metafisica Aristotele si serve quasi sempre della parola tuche, altra passione lacaniana (v. Sem. XI, 1,5 - Tuche et automaton): deriva dal verbo tunchano, che vale colpire, riuscire per caso, imbattersi, incontrare, accadere, capitare.
Per Aristotele il caso è una delle quattro forme dell'essere: essere come accidente. Le altre sono: come verità, come oggetto delle categorie, come potenza e atto.
La concezione dell'essere come molteplicità è il grande passo teorico che lo distacca dall'ontologia della scuola eleatica. La definizione che ne dà nel sommario alla Metafisica è magistrale: “Accidente è ciò che si può riferire a una cosa, ma non necessariamente né per lo più... L'accidente non ha altra causa che il caso, che è indeterminato”. Formula modernissima, che rompe col principio di necessità e regolarità per far posto alla funzione di indeterminazione. Il concetto di caso aristotelico implica una sorta di “messa in moto” senza causa e si collega a un divenire: divenire per caso o dal caso (Ghighnesthai apò tuche). Il caso partecipa della natura del divenire. Divenire per caso è l'irrompere dell'assolutamente inatteso.
“Delle cose che divengono, alcune divengono per natura (fusei), altre per arte (techne), altre per caso, o spontaneamente (tuche)” (Met. VII, 7). “E non c'è neppure una causa determinata per cui l'accidente accade, ma esso avviene per caso; e il caso è indefinito. È come se a qualcuno accadesse di andare a Egina, ma senza essere partito per andare a Egina, sospintovi dalla tempesta o catturato dai pirati. Sicuramente l'accidente è avvenuto o c'è, ma non perché esso è quello che è, bensì perché è qualche altra cosa: la tempesta è la causa dell'essere andati in un luogo diverso da quello verso il quale si naviga, ed Egina è questo luogo diverso” (Met. V, 30). Una causalità accidentale.
Bella metafora. Un'allusione all'avventura che sarebbe piaciuta a Simmel. E anche il protagonista di Crash in fondo si trova sempre là dove non pensava di andare, e “trova” ciò che solo inconsciamente desidera incontrare.
Questo tipo di sensibilità eraclitea, che riconosce all'esistenza continui e disordinati modi di trasformazione, leggibili come effetti incalcolabili del caso, ci appartiene ancora. Leggiamo in Valèry: “Carattere dell'uomo è la coscienza, e quello della coscienza un perpetuo esaurimento, un distacco senza tregua e senza eccezione da tutto quello che vi appare, comunque appaia... Colore e dolore, ricordi, attesa e sorprese, quell'albero e l'ondeggiamento del suo fogliame, e l'annua variazione e l'ombra al pari della sua sostanza, i suoi accidenti d'aspetto e di posizione, i pensieri assai remoti che richiama alla mia attenzione - tutto questo è indifferente... tutte le cose si sostituiscono - non sarebbe la definizione delle cose?... La nostra stessa personalità... non è che una cosa, e mutevole e accidentale... tutto le fa ammettere di essere un semplice evento, che bisogna figurare, con tutti gli accidenti del mondo, nelle statistiche e nelle tabelle, che è incominciata con un azzardo seminale e in un incidente microscopico, che ha corso miliardi di rischi e che, insomma, per quanto ammirevole, volontaria, rilevata e scintillante possa essere, è l'effetto di un incalcolabile disordine. Ogni persona essendo `un gioco della natura', gioco dell'amore e del caso, la più bella intenzione e anche il più savio pensiero di questa creatura sempre improvvisata risentono inevitabilmente della sua origine. Il suo atto è sempre relativo, i suoi capolavori sono casuali. Pensa perituro, pensa per colpi riusciti, e raccoglie il meglio delle sue idee in occasioni fortuite e segrete che ben si guarda dal rivelare” (Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci). Mi autorizzo alla lunga citazione, perché mi è sembrata una straordinaria glossa alle tesi di Aristotele.
Ballard scrisse Crash nel 1973. Quasi un quarto di secolo più tardi (1996) David Cronenberg ne fa un film che non possiede la forza visionaria del romanzo e mette in scena un erotismo gelido, concettuale, altamente automatizzato sia nell'ossessione ripetitiva che nei codici stilistici e formali. Ha comunque fatto scandalo. In questo film non si mangia mai e non si ride mai: si fa sesso e ci si schianta in auto.
“Nello scontro automobilistico il corpo viene trasformato in energia nuova per il fatto di essere stato colpito. Una botta di adrenalina ci attraversa, ma regala anche un momento di chiarezza, paura, eccitazione. Una parte del corpo viene improvvisamente schiacciata e trasformata, e quando si viene `trasformati' per sempre si capisce tutto a un tratto che non si è più la stessa persona. Che si può fare?... Nego di aver trattato il sesso come ossessione” (Intervista a Cronenberg de “L'Espresso”).
Cronenberg accentua l'interesse di Ballard per traumi, cicatrici, suture, deformazioni, menomazioni, fantasie teratologiche. Il suo film può esser percepito come pornografico esclusivamente per la ripetitività delle situazioni. Il testo di Ballard è invece visionario, estremo, e forse irrappresentabile, è il capolavoro eversivo di un batailliano contemporaneo; ha diviso la critica letteraria. L'autore ha dichiarato di avere scritto, con Crash}, non un'affermazione di psicopatia, ma unacautionary tale, una favola didattica contro la degenerazione delle ossessioni erotiche: “sono stato coinvolto in un incidente d'auto, non ho provato alcuna libidine” (Dibattito con Cronenberg al National Film Theatre di Londra).
Un segno forte tipico del testo di Ballard è riconoscibile in quell'estetica dello Shock che Walter Benjamin individua come carattere della forma cinematografica (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica) o l'effetto d'urto (Stoss) di cui parla Heidegger in Der Ursprung des Kunstwerkes (L'origine dell'opera d'arte, inclusa ora in Sentieri interrotti). I due temi estetici sono intelligentemente accostati da Gianni Vattimo nel suo saggio La società trasparente (“L'arte dell'oscillazione”).
Per Benjamin, visto l'incessante “consumarsi” dei simboli nella società tardo-industriale, perché l'opera d'arte conservi un valore “auratico” è necessario ch'essa sia in grado di produrre uno shock estetico. “Il cinema - scrive - è la forma d'arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita...”.
Per Heidegger - e lo vediamo qui davvero vicinissimo a Ballard - l'esperienza fondamentale dell'arte ha a che fare con la morte. Lo Stoss} heideggeriano è l'urto della “messa in opera della verità”, come nuova apertura ontologico-epocale che immette il soggetto in uno stato di “spaesamento” radicale, dove la morte è immaginata come possibilità costitutiva dell'esistenza. Evento (Ereignis) costitutivo dell'essere, l'esperienza di spaesamento, vicinissima a ciò che chiamiamo angoscia, contrappone lo straniamento artistico alla famigliarità dei comuni oggetti d'uso, il cui enigma “si dilegua nell'usabilità”: Heidegger individua una portata di “sfondamento”, che funziona come evento che apre alla verità (Aletheia come svelamento).
Vattimo ravvisa nelle due concezioni il superamento di un'estetica di Geborgenheit (tranquillità, sicurezza) grazie a un elemento che egli definisce di “oscillazione”.
Crash si avvale certamente del registro estetico detto “sublime”. L'autore del trattato antico Del Sublime, oggi detto lo Pseudo-Longino, intende parlare di una grandezza come eccedenza, al di sopra o al di sotto dell'umano.
La parola greca che designa il sublime, Upatos, può infatti esser resa sia come l'alto del cielo che come il profondo del mare. Anche Longino si fonda su una concezione dell'essere come accadimento. Molto ballardiana è per esempio la posizione dell'aemulatio come sfida a un modello non solo autorevole ma quasi irraggiungibile; pensiamo alla riproduzione spettacolare dei grandi incidenti automobilistici. Qui l'emulazione si intreccia con l'acrobazia. L'estetica romantica adorò Longino; Thomas Weiskel, nel suo saggio Il Sublime Romantico, definisce in modo audace l'“immaginazione” di Wordsworth: “Che cos'è allora questo `spaventoso potere' che Wordsworth definisce `Immaginazione'?”. Nell'ultima versione del “Preludio” egli ci dirà che quel potere è “così chiamato per misera incompetenza della parola umana”; il termine invece è perfetto, poiché la vista percepisce con maggiore intensità in virtù del ricordo, che emerge scontrandosi con la resistenza del visibile. L'immaginazione può esser definita strutturalmente come forza di resistenza al Verbo, e in questo senso coincide esattamente con il bisogno psicologico di originalità. Ma la definizione strutturale individua solo un'esperienza: come esperienza o momento, l'Immaginazione è l'estrema coscienza dell'io che reagisce dialetticamente alla propria estinzione imposta dall'imminente identificazione con l'ordine simbolico. Pertanto l'immaginazione si erge come “spirito senza padre” (Unfathered). Risponde al bisogno e al tentativo dell'io di fare a meno del padre e di dare origine a se stesso, rifiutando di riconoscere un potere superiore. Vaughan, l'amante del caso, è un unfathered, ciò che Lacan individua come statuto simbolico della perversione. Sapevamo che il suo sogno è l'oltraggio alla legge.
*Pubblicato in La Ginestra. Rivista di Cultura Psicanalitica. Di fronte al caso. 1997 Franco Angeli Editore
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