L'ora di religione (Il sorriso di mia madre)- (Regia Marco Bellocchio, Ita/Fra, 2002)

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3 ottobre, 2012 - 16:41

 

Nota di Albertina Seta

La recensione di Riccardo Dalle Luche è molto bella e coglie, a mio parere, con grande sensibilità alcuni elementi chiave dell'ultimo film di Marco Bellocchio. Ma... l'ultima parte, che accenna ai "valori del '68", ha provocato in me, spettatrice particolarmente attenta e per niente neutrale di tutta la vicenda artistica del regista, una vivace reazione per questo mi permetto una breve nota.

"La generazione di Bellocchio forse ha perso ma non è morta" dice Dalle Luche, aprendo e lasciando in sospeso una questione difficile, poichè quella generazione, si sa, non era e non è affatto omogenea e molti dei suoi esponenti dopo più di trent'anni si trovano ad aver percorso strade del tutto differenti.

Il film di Bellocchio, peraltro, mi è sembrato non corrispondere a nessuno dei grossi rivoli verso i quali la marea sessantottina si indirizzò, forse a partire dallo stesso '68, quanto piuttosto testimoniare di un percorso del tutto originale. Certo, dentro una realtà storica e sociale, come è dimostrato dalle reazioni sinceramente entusiastiche, di critica e di pubblico che ha suscitato, ma sicuramente separato e attualmente direi opposto ad altre vicende di autori di cinema inquadrabili in quella generazione.

Il senso di liberazione con cui in molti lo hanno accolto, con articoli su articoli non banali, segnalano qualcosa di inaspettato e forse di impossibile: il felice superamento da parte di Marco Bellocchio del suo stesso mito, questo sì decisamente legato al '68 e ai suoi ideali, il mito de "I pugni in tasca".

A questo proposito vorrei citare, tra tutti, un bell'aricolo di Paolo Di Stefano : "Finalmente un film che annuncia la rivincita dei padri", Corriere della Sera 18.5.02. L'articolo, che andrebbe letto per intero, sintetizza in una frase quello che da parte mia ho tentato fin qui di dire:"(...) Bellocchio, dopo un anno dalla 'Stanza del figlio' , si può leggere come l'anti-Moretti per eccellenza e in definitiva anche come l'anti-Bellocchio con i pugni in tasca.


 

L'ora di religione (Il sorriso di mia madre)- (Regia Marco Bellocchio, Ita/Fra, 2002)

Si sarebbe meglio intitolato "Ipocrisia, indifferenza, incoerenza ed altri peccati capitali" quest'ultimo film di Bellocchio, summa di tutta la sua opera e suo capolavoro, sia per le qualità formali che per la compiutezza dei contenuti. Il protagonista, Ernesto, un antieroe ritagliato sull'espressività minimalista di un Castellito in stato di grazia, è costretto malgrè soi ad una spietata autoanalisi psicologica e morale dal coinvolgimento nelle procedure di beatificazione della madre, uccisa da un figlio psicotico, promossa da un fratello vescovo missionario e sostenuta con varie motivazioni personali dagli altri fratelli e dai parenti tutti, ex moglie compresa. Il bizzarro mcguffinconsente a Bellocchio di mettere in piedi un dispositivo cinematografico di rara bellezza visiva (memorabili interni ed esterni romani, inquadrature caravaggesche, animazioni digitali), fatto di dialoghi e situazioni scritti con cura teatrale ed un fascinoso ed inusuale commento musicale, il cui impianto realistico assume continuamente valenze oniriche, facendo coincidere perfettamente il mondo interno ed esterno dei vari personaggi. Apparizioni deliranti quanto e più di quella del fratello psicotico internato sono affidate a numerosi personaggi minori (l'impresario cinico, il cospiratore monarchico, il fratello medico ex brigatista convertito, il miracolato professionista, la zia opportunista, le vecchie zie inconsapevoli). Tre rapporti sani (col figlio preda di ossessioni religiose, con la sua presunta insegnante di religione, col fratello psicotico) costringono Ernesto ad una serie di aut aut etici il cui esito è la contrapposizione alle soluzioni istituzionali (Dio, Patria, Famiglia e, aggiungerei, Maternità) a vantaggio di un esistenzialismo individualista e laico che configura comunque un personale impegno morale di valore universale. I valori del '68, qui citati ironicamente da un'intervista televisiva di Vittorio Foa che Ernesto distrattamente spenge, sono tutt'altro che rimossi, anzi hanno una palese attualità; la generazione di Bellocchio forse ha perso, ma non è morta, ed anzi sembra l'unica a detenere in forma sotterranea (come paradossalmente il conte cospiratore monarchico, con cui, in una scena onirica memorabile, si batte in un duello che finisce per unirli) gli ultimi valori umani della coerenza, dell'onore, della dignità.

Ovviamente, in questa che in fondo è una sacra rappresentazione, Bellocchio mette in scena se stesso, la propria vita, i suoi vari ego, la propria famiglia (alcuni membri della quale recitano nel film), la soluzione della creatività e della bellezza, e fornisce uno splendido esempio di come un cinema privato, intriso di sano narcisismo, possa fare da specchio a molte generazioni di spettatori, toccati nel loro intimo ed in grande misura costretti essi stessi a rivedersi, confessarsi, impegnarsi.

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