Le emozioni nell’emergenza e l’emergenza nelle emozioni. Catastrofi ed emergenze epidemiche

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Genova
Italia
Da 22 settembre, 2005 - 23:00 a 22 settembre, 2005 - 23:00

I Sessione

 

Moderatori

Dott.ssa S.Sensi, Dott.ssa I.Oberti

 

Presentazione

Dott.ssa S.Sensi

Apre i lavori la Dott.ssa S.Sensi con una rapida descrizione del Piano regionale per le emergenze epidemiche introdotto in Liguria nel 2003, anno in cui è scoppiato il caso SARS. Questo Piano nasce dall’esperienza del Gruppo di lavoro Psicologi per le catastrofi, presente nella nostra Regione dal 2002.

Esso prevede tre livelli d’azione: strategico, tattico e operativo.

Il livello strategico è di competenza del Ministero della Salute e dell’Assessorato alla Sanità.

Il livello tattico è gestito dal Focal point regionale per le emergenze epidemiche, un organismo costituito da infettivologi, igienisti e tecnici delle organizzazioni territoriali (protezione civile, forze dell’ordine). Già a questo livello s’inserisce la collaborazione con gli psicologi territoriali.

Infine il livello operativo, cioè la Task force di rete composta da tutti i direttori sanitari della Regione.

 

Emergenze epidemiche e da bioterrorismo: passato, presente, futuro

Prof. R.Gasparini

Nonostante i progressi della genetica microbiologica le infezioni rimergenti cosituiscono ancora un importante emergenza sanitaria in tutto il mondo. Dopo un rapido sguardo ai fattori biologici (virulenza, serbatoio, vettori) e fisici (aria, acqua, territorio) della diffusione dei microorganismi, il prof.Gasparini analizza i fattori sociali responsabili delle nuove infezioni e della riemergenza di quelle già conosciute.

Innanzitutto si affronta il tema dell’urbanizzazione, responsabile della moltiplicazione dei topi neri e quindi della peste del 1347-1351, come delle successive, che causò la morte del 30% della popolazione europea. A questo proposito si riporta un dato dell’ONU secondo cui entro il 2025 il 65% popolazione mondiale vivrà nelle città. Tuttavia, anche grazie alla migrazione dei topi grigi che hanno soppiantato l’altra specie murina, non è la peste a costituire il principale problema epidemico legato all’aumento della densità demografica nei centri urbani. Tra le principali patologie influenzate dai fattori sociali possiamo ricordare l’AIDS, il colera, la malaria, la difterite e l’antibiotico resistenza particolarmente importante per la tubercolosi.

Anche il bioterrorismo non è un evento nuovo, il primo esempio eclatante e documentato può essere considerato il tentativo da parte dei coloni americani di sterminare gli indigeni regalando loro delle coperte contaminate dal virus del vaiolo. La storia del bioterrorismo arriva come sappiamo fino ai giorni nostri, attraverso un progressivo perfezionamento della produzione delle armi biologiche.

Le emergenze epidemiche saltate agli onori della cronaca ultimamente sono invece l’influenza aviaria e la SARS.

A proposito della prima, il prof.Gasparini ricorda che a partire dal 1976 sono stati contati circa dieci episodi di influenza proveniente da un serbatoio non umano, mentre nel secolo scorso si sono verificati tre pandemie che hanno prodotto migliaia di morti, nel 1918, nel 1957 e nel 1968.

La temuta SARS, comparsa nel 2003, ha invece inciso ben poco sulla popolazione umana, forse perché i virus trasmessi da un serbatoio animale, in questo caso probabilmente dallo zibetto cinese, hanno difficoltà ad attecchire dopo aver fatto il salto di specie. Solo Hong Kong, Hanoi, Singapore e il Canada sono stati colpiti significativamente dalla SARS che comunque è stata prevalentemente un’infezione nosocomiale.

 

Ne quid nimis: principi coordinatori della risposta emotiva al trauma

Prof. R.Rossi

Per parlare di tolleranza emotiva e risposta psicologica il Prof. Rossi prende spunto da una serie di immagini, come la statua di Atlante che suggerisce il ne quid nimis del titolo: non esagerare per evitare il crollo. C’è un limite di rottura oltre il quale l’uomo cade e un elevato grado di narcisismo predispone ad una maggiore vulnerabilità dell’individuo ai traumi, alle perdite. La perdita del controllo su di sé avviene più facilmente se si è vittima di una perdita arcaica, la reazione al trauma contingente rievoca la risposta data nel mondo antico.

I versi di Dante dedicati a Pier delle Vigne ci riportano alla famosa frase coniata da Freud a proposito dei melanconici: Ihre klagen sind anklagen (i loro lamenti sono accuse). Per il melanconico l’insulto prodotto contro se stesso nasconde l’insulto verso qualcun altro, nel caso del giurista capuano per l’Imperatore che l’ha rovinato.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,

credendo col morir fuggir disdegno,

ingiusto fece me contra me giusto.

Ancora dei versi poetici, questa volta di Auden, per raccontare come un uomo può reagire di fronte ad un trauma, per esempio riproducendo lo stesso tipo di violenza subita a danni di qualcun altro.

I and the public know what all schoolchildren learn, those to whom evil is done do evil in return

(Io e il pubblico sappiamo ciò che ogni bambino impara a scuola, quelli cui male è fatto faranno male in cambio).

Infine la dissociazione, ultima difesa dell’io di fronte ad un evento tragico, come quello raccontato da Euripide nelle Baccanti. La storia di Agave che, resa folle insieme alle altre donne di Tebe per volere di Dioniso, sbrana il figlio Penteo e ne porta la testa in trionfo come se fosse la testa di un leone ucciso durante la caccia.

La disgregazione dell’io può essere un fenomeno protettivo in caso di emergenza, disgregazione che diventa patologica quando si prolunga oltre il periodo peritraumatico e si associa ad altri sintomi ben descritti nel DSM IV. Il PTSD infatti non compare nelle edizioni precedenti del manuale ed è stato introdotto, con tutte le sue specificazioni, per far fronte al fenomeno crescente dei veterani dei combattimenti del secondo dopoguerra.

Prima di arrivare alla nozione attuale di PTSD la reazione post traumatica è passata attraverso la visione catartica dell’età antica fino all’interpretazione darwiniana dell’adattamento. A Darwin si riallaccia Selye con la teoria sulla stress reaction: la reazione come risposta neuroendocrina controllata dall’ipotalamo.

Dopo i primi studi di Freud su aktual neurose, traumatische neurose, abwehr neuropsicose, è Jaspers a definire dei criteri molto vicini a quelli utilizzati oggi per fare diagnosi di PTSD. Si tratta della relazione temporale tra trauma e reazione, della durata di tale reazione e della sua adeguatezza affettiva relativa al trauma.

All’inizio del secolo scorso si parlava di schriek reaction, ma dopo la seconda guerra mondiale il disturbo postraumatico ha assunto un significato socio-sanitario ben più rilevante è si è cominciato a discutere di reazione da grande trauma o psicosi psicogena per gli autori scandinavi.

Un elemento diagnostico importante dell’attuale definizione di PTSD è la presenza di uno stato crepuscolare, twilight per gli anglosassoni, o stato di perplessità sospesa, ratlosigkeit. Ad esso si associano angoscia intermittente e rielaborazioni ossessive.

Per spiegare la diversità delle reazioni ad uno stesso tipo di trauma si può risalire alla teoria freudiana del trauma e dei meccanismi di difesa come la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolamento, la conversione, sempre tenendo conto dei guadagni primari e secondari del singolo individuo.

La risposta ad una grave perdita può essere classificata così in tre gruppi patologici. Il gruppo ossessivo è caratterizzato da una mancata elaborazione della perdita, ne sono esempio in letteratura Otello o il personaggio di Svidrigajlov di Delitto e Castigo. Nel gruppo isterico invece la richiesta d’amore tenta di arginare la perdita, questa volta il riferimento letterario rievoca i fratelli Karamazov. Infine il gruppo psicotico reagisce con una frammentazione dell’Io di fronte ad un’insostenibile frattura narcisistica, come accade nella storia di Aiace.

Il prof.Rossi conclude il suo intervento riportando alcuni casi clinici di PTSD ricorrente.

 

Implicazioni psicologiche e sociali sul paziente, sul personale e sulle famiglie nei casi di SARS

Prof. G.M. Vigevani

Il caso SARS è scoppiato nel 2003, si sono contati circa 8000 casi con una mortalità del 10% variabile in funzione dell’età del soggetto. Il prof. Vigevani dell’Ospedale Sacco di Milano ha seguito due dei quattro casi italiani e racconta l’ esperienza emotiva e professionale di quei giorni. Innanzitutto si sofferma sulla capacità del personale di sapersi adattare ad una situazione completamente nuova con competenza ma anche entusiasmo. I criteri per mettere in quarantena i pazienti sospetti erano molto grossolani data la straordinarietà dell’evento epidemiologico: febbre sopra 38°C, qualunque sintomo respiratorio e un soggiorno in un paese colpito da meno di 10 giorni. Nonostante ciò l’organizzazione logistica dell’emergenza ha tenuto e il numero telefonico istituito per rispondere alle domande dei cittadini ha funzionato meglio delle aspettative, anche perché le domande rivolte erano molto spesso pertinenti e razionali.

I problemi maggiori hanno riguardato prevedibilmente i pazienti e i loro familiari.

L’isolamento richiedeva norme igienico-sanitarie che allontanavano ancora di più il malato dai dottori aumentando così i suoi timori. Esacerbava anche la conflittualità più o meno latente tra il malato e la famiglia, in alcuni casi accusata di averlo fatto ricoverare.

 

Managing combat stress in military personnel

Dott. J.P.Allen

Il Dott. Allen è uno psichiatra di Washington che ha lavorato per diversi mesi in Iraq nel 2003 e nel 2004 ed ha condotto uno studio sul combat stress, cioè sullo stress da combattimento.

La prima parte della sua relazione si riferisce ai fattori stressanti che caratterizzano questo tipo di teatro di guerra: il fuoco nemico improvviso, le mine, l’esperienza di aver ucciso o di aver visto uccidere un commilitone, il recupero dei morti.

A questi eventi intuitivamente stressanti si sommano i cosiddetti life-events: la separazione dalla famiglia, l’incertezza sul proprio futuro e sulla data del ritorno, la mancanza di spazi personali, l’insufficienza dell’equipaggiamento, la difficile comunicazione con i propri cari. Proprio a questo proposito il Dott. Allen specifica che la comunicazione via e-mail con la famiglia lontana si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da una parte permette uno scambio veloce e immediato, dall’altra informa il soldato degli eventi avversi che investono la sua famiglia senza che egli possa far nulla per contrastarli data la sua distanza, cosa che aumenta la sua frustrazione. Altra considerazione importante è l’elevato tasso di divorzio, raggiunge il 50%, tra i soldati che partecipano a missioni prolungate. Bisogna tuttavia notare che i soldati tendono a sposarsi in età più giovane rispetto alla media.

Tra gli screenati il 13% nel 2003 e il 18% nel 2004 presenta ansia, depressione, combat stress.

Di questi, il 40% nel 2003 e il 30% nel 2004 ha ricevuto cure che hanno soddisfatto i soldati nel 70% dei casi. La cura del combat stress ha ridotto il tasso di suicidio, ma resta ancora molto da lavorare sulla diffidenza dei soldati verso le cure psichiatriche e sulla paura dello stigma di malato mentale: il 53% dei soldati ammette di non chiedere le cure psichiatriche perché teme il giudizio dei commilitoni.

I fattori di rischio per l’insorgenza del combat stress sono di tipo ambientale, situazionale, operativo, organizzativo, individuale ed organico.

Nelle cosiddette missioni umanitarie il soldato non sa precisamente contro chi combatte, deve affrontare l’ostilità dei civili e una situazione socio-economica assai precaria del paese in cui combatte.

La diagnosi di reazione da stress per combattimento deve innanzitutto escludere l’ ansia da combattimento che è fisiologica. A differenza di quest’ultima il combat stress è caratterizzato da una maggiore compromissione del funzionamento globale dell’individuo: interferisce con il combattimento, persiste dopo il ritorno a casa, la sua intensità eccede quella sperimentata dai commilitoni.

La prevenzione del combat stress va fatta prima e dopo la partenza per il campo di battaglia.

Non dovrebbero essere reclutati soldati che hanno disturbi psichici in anamnesi, il soldato dovrebbe essere allenato in modo quanto più realistico prima di partire, con particolare riguardo al training fisico. Dopo la partenza bisogna assicurare ad ogni soldato una quantità sufficiente di cibo, sonno (almeno 4 ore a notte, più mezzora durante il giorno), tempo libero. Inoltre si è rivelato utile formare dei piccoli gruppi che turnano tutti insieme anziché far turnare i singoli componenti, gruppi guidati da un leader capace di rilevare i fattori stressanti e gli individui più vulnerabili.

La terapia si basa sulla brevità, al massimo 3gg, sull’immediatezza, sulla semplicità: meglio evitare la psicoterapia e gli psicofarmaci ed assicurarsi che il soldato abbia sufficiente apporto alimentare, sonno, possibilità di lavarsi e di avere uniformi pulite, che possa tornare presto alla routine, all’esercizio, si opta quindi per una sorta di terapia occupazionale. E’ importante anche collocare la sede delle cure psichiatriche vicino al centro militare e lontano dall’ospedale da campo per evitare anche visivamente l’accoppiamento tra combat stress e malattia mentale.

La terapia del combat stress ha dato una buona risposta nel 79% dei casi con un mantenimento dello stato di salute al follow up del 67%: mediamente i benefici maggiori del trattamento si mantengono per sei mesi.

Il ruolo dell’ unità di controllo del combat stress presieduta dal Dott.Allen ha altre funzioni oltre a quella assistenziale: funge da collegamento con i comandanti e fornisce informazioni sul combat stress sia a livello militare che mediatico.

Il Dott. Allen conclude il suo intervento facendo il punto su pro e contro della sua esperienza in Iraq. Tra le difficoltà principali: il training militare prima della partenza, la separazione dai cari e dal proprio lavoro, la mancanza dei comuni comfort occidentali, l’inclemenza climatica, la necessità di vivere a stretto contatto con persone sconosciute, la diffidenza da parte dei soldati.

Tra gli aspetti positivi: i buoni rapporti con gli altri operatori, un sentimento di realizzazione professionale data l’efficacia della terapia, la scoperta di un’inaspettata eterogeneità del personale militare e un conseguente arrichimento umano e professionale.

 

Il processo traumatico e le sue conseguenze: il truama da tortura

Dott.ssa F.Moiraghi

La Dott.ssa F.Moiraghi lavora come psicoterapeuta presso il Naga-Har di Genova, una struttura di accoglienza per richiedenti asilo politico, spesso vittime di tortura. Quello che contraddistingue spesso le persone che hanno subito torture è una prolungata esposizione al trauma. Non avendo possibilità di allontanarsi dalla fonte stressante la mente modifica se stessa, più spesso sviluppando un PTSD, più raramente si verifica una sindrome di Stoccolma, cioè l’identificazione con il proprio carneficie.

Si ha quindi la dissociazione dell’io e un’amnesia del trauma che può essere più o meno completa, ma quasi sempre si caratterizza per l’apparente mancanza di emozioni espresse durante il racconto delle atrocità subite. Al posto delle emozioni può residuare una somatizzazione, come nel caso di un torturato con scariche elettriche che non ricorda la violenza subita, ma accusa dolori intercostali nei punti dove venivano applicati gli elettrodi.

La Dott.ssa F.Moiraghi espone infine alcuni casi di donne vittime di torture o traumi infantili.

 

II Sessione

 

Moderatori

Dott.ssa S.Sensi, Dott.ssa I.Oberti

 

Adattamento e disadattamento nelle situazioni di grande emergenza

Prof. E.Casari

Vengono puntualizzati alcuni concetti fondamentali per capire i meccanismi psicobiologici dello stress. Numerosi studi sull’andamento della scarica catecolaminergica dimostrano come lo stress non avvenga solo in circostanze di sovraccarico di lavoro, ma anche in totale assenza di esso, con una normalizzazione dei livelli durante una situazione di lavoro moderato.

Allo stress si contrappone il coping, cioè è la capacità di far fronte agli eventi positivi o negativi. Può essere centrato sul problema, appreso in età prescolare, oppure centrato sull’emozione, appreso nelle età successive.

La resilienza invece è definibile come la capacità di assorbire l’urto. I resilienti sono capaci di crescere sani in un ambiente svantaggioso, le loro caratteristiche principali sono: un elevato grado di autostima e autonomia, un temperamento facile, il problem solving legato alla cosiddetta intelligenza emotiva, una famiglia coesa. Le categorie meno resilienti sono i bambini, gli anziani e le donne.

Un altro fattore che influenza la risposta ai traumi, in particolare il grado di amnesia postraumatica, è la grandezza dell’ippocampo: più è piccolo e più probabilità ci sono che avvenga un’amnesia.

 

Riflessioni specifiche ed aspecifiche sul trauma

Dott.ssa I.Oberti

Si parte dal rapporto uomo-natura per parlare del trauma come condizione esistenziale dell’uomo. L’ uomo monade si sente padrone della natura perché possiede l’intelletto e la tecnologia per poterla controllare e non ammettendo il proprio limite non rinuncia all’illusione di poter un giorno, con i mezzi necessari, impedire l’evento-catastrofe.

Da qui nasce la cultura dell’emergenza, dall’illusione che il trauma alberghi sempre altrove nel tempo o nello spazio e che sia evitabile. L’illusione dell’altrove si rivela come tale solo dopo l’elaborazione del lutto, esperienza comune di ogni essere umano.

E’ necessario passare dal primo al secondo edipo, l’edipo a colono che, consapevole del proprio limite, si pone nei confronti di se stesso in modo interrogativo.

Interrogandosi sull’evento traumatico si scopre che si tratta sempre di una frattura nel narcisismo primario, fisiologico, di una perdita di dignità e di una desoggettivizzazione che sono tanto più marcati quanto più è marcata l’identità etnico-culturale del popolo che ha subito la violenza. Il popolo che si sente forte del proprio valore culturale si sente più impotente davanti alla catastrofe, così come i genitori del gruppo provano una straziante frustrazione dal momento che non sono più in grado di proteggere i loro piccoli, situazione descritta con profondità e realismo da Camus nella "Peste".

Anche il persecutore può portare a lungo i segni del trauma, spesso è posto davanti alla scelta tra la sua morte e l’esecuzione di crimini efferati. Viene istruito affinchè elimini ogni emozione e si trasformi in una macchina dallo sguardo glaciale, distante, disumano. Molte vittime di genocidi ricordano con angoscia questo sguardo: negli occhi del persecutore abita lo sguardo della persecuzione.

Il volto del persecutore incide nella mente della vittima attraverso una comunicazione pre-verbale, il volto è un pre-soggetto essenziale anche nel successivo incontro tra vittima e terapeuta.

Lévinas scrive che comprendere la miseria del volto che grida giustizia non consiste nel rappresentarsi un’immagine, ma nel farsi responsabile, ad un tempo maggiore e minore, dell’essere che si presenta nel volto: minore perché il volto ci richiama ai nostri obblighi e ci giudica, maggiore perché la nostra posizione di ‘io’ consiste nel poter rispondere a questa miseria essenziale d’altri, nel trovare delle risorse all’interno di noi stessi.

Per comprendere queste persone è necessario passare dal ‘logos’ al ‘legei’ cioè ascoltare colui che parla prima di decodificare il messaggio verbale.

L’empatia obbliga l’operatore ad una parziale destrutturazione dell’io per immergersi nella condizione del limite in cui vive il traumatizzato.

Tuttavia la vittima è anche testimone della storia che ha vissuto e rende testimone anche il suo terapeuta. Questa testimonianza è fondamentale nel processo di risoggettivizzazione della vittima.

Il progresso si allea con la barbarie, diceva Freud, allora che fare? Forse la risposta è avere la capacità di vedere il limite dentro noi stessi, per poter vedere noi stessi nell’altro.

Silvia Guida

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