Forme del Male: esperienze umane e psicopatologia

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Teatro Chiabrera
Savona
Italia
Da 3 novembre, 2005 - 01:00 a 5 novembre, 2005 - 01:00

A cura di Antonio Maria Ferro con la collaborazione di
Cinzia Parodi, Paolo Peloso, Simonetta Porazzo

 

Nei giorni 3-4-5 novembre del 2005 si è tenuto a Savona presso il teatro Chiabrera il Convegno "Forme del male: esperienze umane e psicopatologia".
Il Convegno è stato pensato ed organizzato dal Dipartimento di Salute Mentale, dall’Azienda sanitaria Savonese, dal teatro e dal Comune di Savona; la sua realizzazione è stata possibile per il sostegno ideale ed economico della fondazione A. De Mari della Cassa di Risparmio di Savona, sempre molto attenta alle nostre proposte scientifiche e culturali. L’incontro ha acquistato un particolare valore per la cittadinanza perché è stato inserito nell’evento savonese della riapertura del nostro Teatro "Chiabrera", dove in prima nazionale, proprio il 3-4-5 novembre, è stato presentato "Delitto e Castigo" di Fedor Dostoewskij, da parte della Compagnia Glauco Mauri, Roberto Sturno.
A partire da "Delitto e castigo" abbiamo proposto un percorso attraverso diverse fenomenologie del Male: dal delitto di Raskòl’nikov, dove l’individuo sopravvive e quindi può vivere anche la colpa e talvolta anche la resurrezione, siamo giunti al "fare crimini", molto più frequente nel ‘900 ed oggi dove l’individuo non c’è più e quindi anche la colpa non trova più possibilità di esistenza ed ancor meno qualche forma di resurrezione.
Due anni fa avevamo organizzato un Convegno sulla "Relazione d’aiuto": erano stati allora analizzati prevalentemente gli aspetti positivi che l’uomo può esprimere nella relazione con "l’altro da lui". Già allora avevamo affrontato anche gli aspetti chiaroscurali, talvolta ambigui, che non di rado sono presenti in questa particolare relazione.
Su questo percorso quindi siamo arrivati al Convegno sul Male, dove abbiamo cercato di dire e soprattutto di pensare insieme qualcosa su alcuni aspetti "malefici" delle relazioni umane, sulla "perturbante" potenzialità malefica presente in ognuno di noi. Si è discusso anche su possibili antidoti a questa inquietante attitudine, antidoti sociali, culturali, umanistici ma anche di buona amministrazione delle Forze dell’Ordine e della Giustizia.
Nel Convegno è stato spesso richiamato quel prezioso antidoto, dato dalla possibilità umana di vivere empaticamente la relazione con gli altri nel mondo.
A questo proposito Edith Stein in Problema dell’empatia (1917) scrive: "Colgo l’altro non solo come corpo ma come corpo vivente, come essere vivente".
A noi sembra chiaro come la percezione empatica, offrendo una comprensione della realtà rispettosa dell’irripetibile singolarità ed unicità della persona, permette di cogliere le diverse prospettive con cui "l’altro" vede, sente lo stesso mondo: essa accresce la possibilità di orientarci sia verso noi stessi, sia verso la realtà esterna allontanandoci dalla possibilità, che è in tutti noi…proprio in tutti noi, dell’agire criminale.
Dostoewskij conosceva l’animo umano, la sua variabilità irriducibile a qualsiasi classificazione e la sua profondità: per questo il nostro Convegno ha avuto la fortuna di potere prendere origine dalla rappresentazione teatrale di quella stupenda, eterna opera che è "Delitto e castigo". Questo ha permesso alla città, che in gran numero è affluita al convegno, di interrogarsi con la radicalità e la profondità cui il riferimento all’autore russo non consente di sottrarsi: le forme del Malesono un problema centrale nella vita emotiva di ciascuno e nella riflessione di ogni società intorno a sé stessa.

Il Convegno è iniziato con Malcovati, docente di letteratura russa a Milano, che ha ricordato come in Dostoevskij il delitto, l’attitudine "criminale" dell’uomo siano al centro dei suoi romanzi.
L’uomo del sottosuolo è il territorio degli istinti più bassi e violenti.
Il "sottosuolo"può essere peraltro collegato alla ribellione luciferina, come rifiuto delle norme, delle regole precostituite, dello "status quo": in questi casi può venirne una vitalità dinamica e talvolta trasformativa.

I temi dell’attitudine innata dell’uomo al male o piuttosto di come i fattori relazionali, sociali, culturali condizionino l’uomo verso questa attitudine hanno accompagnato le giornate congressuali di Novembre.
Personalmente l’innatismo dell’istintualità maligna dell’uomo mi lascia perplesso.
Negli ultimi anni gli studi sullo sviluppo del bimbo, dai 4 ai 12-18 mesi, sembrano evidenziare piuttosto una innata spinta all’empatia, accanto alle spinte aggressive (attacco/fuga) presenti nel cucciolo d’uomo come in tutti i cuccioli animali.
L’attitudine empatica viene troppo spesso precocemente modificata, traumatizzata dal vivere famigliare/o sociale.
E’ quindi un discorso aperto.

Per Malcovati in Dostoevskij vi sono 2 tipi di delitto:

quello ideologico che si collega ad una ribellione consapevole ed il delitto perverso, dove c’è l’insania delle viscere del sottosuolo.
In entrambi sembra non esserci la colpa: R dice "vado a denunciarmi ma il perché non lo so".
Il primo trova giustificazione in una idea forte, ritenuta addirittura necessaria, nobile; 
il secondo è spinto da una insana, persistente nel tempo, ricerca del piacere, dell’affermazione di sé nel fare il male.
Non c’è dimensione relazionale ma una dimensione del tutto solipsichica e narcisistica in cui l’altro è oggetto, feticcio, per perseguire il male/piacere (le psicopatie, ma tanta cattiveria meschina del vivere quotidiano).
I delitti di Raskòl’nikov si collocano sul crinale tra le due tipologie ed entrambe le comprendono, anche se il primo di essi è più legato al delitto ideologico.
Per Dostoevskij il delitto è comunque inutile ed il suicidio viltà, rinuncia, non atto coraggioso.
Le letture psicoanalitiche (Freud- Melania Klein) hanno suggerito anche altre letture del suicidio come "omicidio mancato", espressione di forte aggressività e violenza contro "oggetti interni", ovvero esperienze relazionali, originarie soprattutto, introiettate con grande frustrazione e rabbia e rimosse dalla coscienza.

Penso che il comune denominatore che lega ogni tipo di crimine sia la caduta provvisoria o continuativa, individuale e/o collettiva dell’Empatia: a questo proposito Edith Stein in Problema dell’empatia (1917) scrive: "Colgo l’altro non solo come corpo ma come corpo vivente, come essere vivente".
La percezione empatica, offrendo una comprensione della realtà rispettosa dell’irripetibile singolarità ed unicità della persona, permette di cogliere le diverse prospettive con cui "l’altro" vede, sente, lo stesso mondo: essa accresce la possibilità di orientarci sia verso noi stessi, sia verso la realtà esterna allontanandoci dalla possibilità, che è in tutti noi…proprio in tutti noi, dell’agire criminale.

La perdita dell’empatia infatti rende possibile che "l’altro da noi" perda l’alterità e l’appartenenza al tempo stesso al nostro mondo, pur nelle irriducibili differenze e così il "crimine" può avvenire.
Infatti R. dice "Ho ucciso un principio" non una vecchia e la giovane sorella.
Comunque nel I° tipo la colpa è poi accolta, anche se difficilmente elaborata se non alla fine del romanzo.
Nel II° caso, espresso dal suicidio di Svidrigajlov, la rimozione della colpa si trasforma nella terribile punizione del suicidio!!

Speziale-Bagliacca, psicoanalista docente a Genova, ricorda innanzi tutto che funzione di psichiatri e psicoanalisti è comprendere, curare, ma non giudicare e/o assolvere.
Con Monsieur Bovary introduce il male subdolo, che non appare, ben lontano dalla visibilità del male tragico.
Esso ha a che fare con l’invidia, il risentimento: è una delle forme del vivere quotidiano, della psicopatologia del nostro vivere quotidiano.

Gargani, docente di Filosofia contemporanea a Pisa, ha ricordato la intuizione di S.Agostino per il quale il male non esiste se non come deficit, mancanza di essere, di bene, negando così il dualismo originario di bene e male.

Trovo sorprendente questo pensiero di S.Agostino, perché esso, come ricordavo all’inizio, è confermato dalle ricerche neuropsichiatriche attuali (attitudine innata dell’empatia, teorie del trauma).
Quest’assenza, mortificazione dell’umano essere, sono più forti in chi sa sentire solo se stesso, non sa fare esistere l’altro nella sua com-prensione del mondo, se non in termini ostili o addirittura persecutori.
Gargani — se ho ben capito — ha ribadito la dimensione umana, non ontologica, sia del fare bene, che del fare male. 
Il nostro convengo ha peraltro avuto come obiettivo "Forme del male: esperienze umane e psicopatologia" e non il Male, che è stato lasciato tra parentesi volutamente, ed in modo del tutto discutibile.

Gargani ha ribadito più volte come l’attitudine relazionale che facilita il male è la perdita dell’empatia, la dimensione solipsichica, collegata ad un narcisismo assoluto, per cui gli altri esistono come diversità assolute, che non ospitano nulla della nostra umana natura: così acquisiscono una sinistra percezione gli altri per razza, colore, sofferenza mentale, gli immigrati e più in generale tutti quelli che non sono proprio come noi!

Del Corno, docente benemerito di letteratura greca a Milano, ha ricordato che, per arrivare alla elaborazione ed alla stabilizzazione di un mito sono occorsi tempi lunghi secoli.
Il mito greco è figura dell’assoluto che separa il tempo del mito da quello della storia.
Il tempo del mito è "chiuso" , gli dei sono in contatto diretto con gli uomini: essi non portano colpa — comuni mortali, eroi, semidei che siano — perché sono strumenti, messaggeri. 
Essi subiscono ciò che dovrà essere: ananke, destino, volontà e capricci degli dei. Siamo ancora ad una colpa oggettiva, non soggettiva: non esiste nel tempo del mito la colpa soggettiva.
Lunghissimo è stato il cammino dell’uomo verso la percezione, la consapevolezza del male, come possibilità e volontà del soggetto.
Lo storico si chiede quando l’uomo greco cominci ad ospitare la co(no)scienza del male. Edipo vive ancora al confine del tempo chiuso del mito mentre nella rappresentazione tragica quel passato viene riattualizzato come conflitto tra necessità ed autodeterminazione.
Nel V° secolo a.c. in Grecia nasce la ribellione contro la tirannia, la schiavitù….(Dal Corno come esempio ha ricordato l’Antigone).
L’uomo cerca la sua libertà anche dagli dei, cerca gli altri uomini che ritiene a lui simili, i cittadini e scopre così il successo dei valori della collettività contro il male.
Il male è comunque ancora presentificato negli altri, i tiranni, quelli che non fanno parte del progetto della collettività democratica (non più e non solo del progetto divino), i barbari, i persiani.
Il male esce dal mito e la colpa via via diviene soggettiva e si lega alla scoperta della responsabilità del proprio agire.
Siamo responsabili dei nostri piaceri, dell’amare, dell’oziare, dello stare insieme ma anche del combattere, dell’odiare, del "portare" il male agli altri!
Dalla dimensione tragica il male entra nella banalità dell’esistenza quotidiana…..può nascere anche da futili cose e trovarvi linfa nell’ignavia, nell’invidia, proprio nella mancanza del tragico.
L’uomo sa ora che è responsabile: "avremmo potuto essere diversi se avessimo avuto la forza di sottrarci ad una quotidianità piccola, paurosa, senza valere e meriti".
Con la soggettività — conclude Del Corno — con la responsabilità, l’uomo esce dall’ananke, dal volere degli dei e si apre alla libertà, all’auto(co)scienza ma anche alla angoscia della mediocrità delle nostre passioni nel vivere quotidiano.

Pier Paolo Portinaio, docente di filosofia politica a Torino, ha parlato soprattutto del male politico del 900, la sindrome del totalitarismo, ma anche di come Dostoevskij ne intuisca e preveda più aspetti.
Per Dostoevskij la civiltà alberga nelle sue viscere — il sottosuolo — la barbarie! Egli è legato ad una tradizione mistica del male come colpa ed i suoi personaggi hanno perso la leggerezza dei barbari, degli uomini del tempo del mito, nel fare il male.
Essi ora sono travagliati, hanno la pesante consapevolezza della responsabilità, che è sempre e comunque individuale.
Dostoevskij non vede funzioni positive, salvifiche nelle Istituzioni laiche, fondate sulla razionalità perché fragili, troppo spesso corrotte perché umane.
Ha più fiducia nelle matrici mistico-religiose e diffida della modernità.
Il male non è mai giustificato, il delitto sempre inutile; l’uomo del sottosuolo malato, sofferente, fragile, è facilmente cattivo perché "animale eminentemente immorale".
"Essi sono deboli ed incapaci di tollerare le proprie svolte negative."

Personalmente resto poco convinto di questa visione che nega l’importanza della storia, dei traumi, delle miserie naturali, psicologiche, sociali, che modificano la fragile empatia umana!

Emergono dal sottosuolo uomini non comuni, che si legheranno alle ideologie della disuguaglianza che favoriranno le ideologie totalitarie del 900.
Esse mortificheranno l’autocoscienza, la responsabilità individuale, la capacità di pensare e di cambiare dei singoli individui.
Quando l’individualità si ammala, si indebolisce, come avviene con le ideologie ed i regimi totalitari, anche i neo-totalitari, il delitto, il fare crimini si potranno fondare sui principi ideologici.
La responsabilità individuale di fronte al male, al fare crimini, viene banalizzata: non ha più valore positivo il contenimento delle pulsioni più avide e distruttive. 
La banalizzazione della responsabilità individuale apre alla "banalità del male" che irride il coraggio della ribellione, della determinazione individuale a dire di "NO", e che assopisce la dolorosa autocoscienza evitando il percorso labirintico tra colpa oggettiva e colpa soggettiva.
Hanna Arendt, molto dopo, metterà in evidenza i legami tra totalitarismo, nazionalsocialismo e la banalizzazione del male: è una ideologia — scrive — dove tutti gli individui possono divenire superflui.
In Dostoevskij l’uomo del sottosuolo è la materia prima, la creta,per le ideologie totalitarie: fragile, senza sostegni etici, religiosi, facile preda di opposti dogmatismi, è facilmente inglobabile in queste ideologie.

Il Prof. Eugenio Borgna, psichiatra a Novara, ha ricordato come i manicomi fossero luoghi del silenzio…del bene e del male.
Il male in realtà è molteplice, frammentario, difficile da definire.
Simone Weil scrive anch’essa che il male esiste quando "l’altro" non è vissuto come persona ma reso eguale ad una cosa…, ad essere non umano.
In psichiatria il silenzio del bene e del male, l’incapacità a riconoscerli, avvengono quando noi accettiamo "tu cur" un mandato di mero controllo dei comportamenti piuttosto che cercare sempre di comprendere la loro natura umana, anche quando per la loro drammaticità espressiva sembrano negare la presenza umana stessa.
Ridurre l’uomo sofferente,il malato mentale ad un mero insieme di sintomi vuole dire fare morire la possibilità di un recupero verso la coscienza di sé.
Come aveva ricordato Speziale Bagliacca a noi compete ascoltare, comprendere, cercare di curare, non giudicare, condannare o assolvere. Non riconoscere la sofferenza umana rischia di farci anche noi psichiatri, portatori di male.
Borgna, riprendendo Dostoevskij, ha collegato il male all’isolamento, alla solitudine interiore da un lato, dall’altro ai processi di "cosificazione" dell’uomo che rende possibile poi le cose peggiori.
Male patito, male agito, male che modifica il tempo vissuto fino all’esperienza di un presente senza fine, disperante e disperato che caratterizza il male di vivere.

Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista a Milano, ha detto che le visioni della aggressività maligna innata (tanatos) e di quella "ambientale", a partire da una natura benigna, da sempre si confrontano.
Freud parlava di Eros e Tanatos, Melania Klein di pulsioni sadico-aggressive innate.
A partire da J.J. Rousseau, molti hanno messo in relazione aggressività patologica, sadismo, malignità con eventi traumatici precoci nella relazione del bimbo con l’ambiente.
Ora si sa che il bimbo geneticamente tollera alte frustrazioni nella relazione primaria con la figura materna, purchè essa sia sufficientemente buona, affettuosa e capace di contenere e tollerare le ansie, le forti proiezioni del bimbo che va a scoprire il mondo, proprio a partire dalla relazione con lei.

Mentre parlava ho pensato che in Veneto mi raccontavano che le madri — prima degli omogeneizzati — tenevano in bocca e masticavano il cibo da dare poi al bimbo.

I modelli famigliari, sociali ed economici influenzano la personalità che il bimbo avrà: quando egli subisce precocemente forti traumi e/o abusi psicologici e/o fisici, avrà difficoltà a sviluppare quei meccanismi di difesa che servono a tutelare il funzionamento mentale.
Egli introietterà invece "oggetti-traumi", risultato di "imprinting" relazionali (intra e interpsichici) fortemente negativi.
L’ambiente, spaziale, morale, sociale ma anche estetico, influenza il bimbo.
Quando la sua mente ha introiettato troppi "oggetti-traumi", presenta aree mentali deserte di affetti ed egli vivrà con grandi difficoltà le fasi di separazione-identificazione che più volte si attraversano nella vita.
Quando queste abilita nell’elaborare la separazione, il lutto, le perdite, non si sviluppano del tutto o a sufficienza, egli potrà difendersi dall’angoscia che il contatto con il mondo gli procura desertificandolo o addirittura rendendolo spazio nemico o comunque sempre minaccioso.
Mancia ha parlato di produzione di "oggetti autarchici", protesi deliranti con le quali leggere il mondo.
E’ una posizione relazionale questa, fortemente difensiva e persecutoria perché nelle sue forme estreme nega la possibilità dell’esistenza della colpa e del sentimento della colpa.
Così si possono comprendere atti criminali, spesso seriali, eseguiti come atti liberatori per il piacere della scarica di pulsioni insopportabili, non temperate appunto dal sentimento e dal riconoscimento delle pulsioni stesse e soprattutto della colpa.
Rosenfeld, psichiatra e psicoanalista inglese degli anni 60/70, scriveva a proposito di Narcisismo maligno.
Similmente avviene in macrosistemi come associazioni a delinquere e regimi totalitari: infatti essi cercano il male per dominarlo e per tenere il bene sotto controllo con modalità rabbiose e sadiche.
Possono così emergere odi liberi spaventosi, libertà malefiche barbare, attraverso scissioni mentali che permettono di liberarsi delle parti umane peggiori, degradate, mettendole fuori di sé…… negli altri …….i nemici…..i diversi…..i degenerati…..i cattivi…..
Il piacere di tali operazioni mentali è attraente, perché permette leggerezza, una selvaggia assenza di colpa, spesso convinzione di muoversi non solo bene ma per il bene. 
Le convinzioni che sosterranno e non di rado potranno giustificare il fare criminale sono per Mancia "oggetti autarchici" dove dominano vissuti persecutori: essi sono essenza per il male perché bloccano il pensiero creativo, la conoscenza e l’autocoscienza!
L’uomo creativo, che è in grado di non rinunciare alla propria individualità anche nella vita quotidiana, deve continuamente riconoscere e trasformare le proprie esperienze (simboliche) e dare senso ad esse: per lui il tempo, lo spazio sono inevitabilmente dinamici, complessi, relazionali.
Infine Mancia ha ribadito la funzione non solo terapeutica ma etica del nostro operare, proprio nel disvelare questi meccanismi e nell’aiutare a trovare rimedi "precoci".

Giovanni Gozzetti, psichiatra e fenomenologo padovano, ha ricordato come la storia dell’Europa sia fortemente connotata da intolleranze religiose, grandi crimini, ricerca esasperata del profitto ed utilizzo della stessa schiavitù. Nonostante l’illuminismo e la rivoluzione francese, nel secolo XX l’Europa ha attraversato i più grandi crimini della storia come le esperienze dei lager nazisti e dei gulag stalinisti.
Ha parlato di corpo somatico e di corpo vissuto perché soltanto il corpo vissuto permette di sentire e conoscere l’altro, esso ha una storia e si lega ad altre storie.
In molte forme di psicosi "l’altro da noi" in un qualche modo viene negato, viene negata la dimensione della conoscenza e dell’esperienza dei corpi vissuti, a partire dal proprio, perché le angosce più profonde vengono proiettate e personificate sugli e negli altri. In realtà noi, e non soltanto i pazienti psicotici, dobbiamo assumerci il nostro sentire, il nostro pensare ed anche il male dentro di noi, tollerando di non proiettarlo sul mondo esterno che in questo caso diviene inevitabilmente nemico e minaccioso.

Il Stefano Ferracuti, criminologo a Roma, ha ricordato i criteri dell’imputabilità in relazione alla capacità di intendere e di volere ed ha evidenziato la difficoltà di poter "misurare" la volontà.Compito dello psichiatra, in questi casi, è stabilire se vi sono nessi tra ciò che è stato commesso e la psicopatologia presente nell’attore del crimine. Deve poi valutare la volontà nell’agire e l’integrità del funzionamento mentale in questo agire, deve valutar la compromissione dell’esame di realtà.
Le cose non sono tuttavia così semplici perché esiste l’inconscio, esistono pulsioni che molto spesso possono essere più forti della volontà e muovere al crimine riducendo notevolmente la volontà e l’esame di realtà stesso. 

La relazione di Ferro, Ferrannini, Peloso, ha posto l’attenzione sull’atto, la persona, il racconto come vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’incontro con l’autore di reato.
Partendo dall’assassinio della vecchia usuraia e della sorella in Delitto e castigo di F. Dostoëvskij gli autori propongono di identificare nel sentimento del valore dell’altro, un concetto assai prossimo a quello di empatia, un elemento che deve essere assente, o almeno temporaneamente sospeso, perché l’omicidio possa essere compiuto. Passano quindi alla descrizione di condizioni, come quella di Raskolnikov, in cui il sentimento del valore dell’altro, abitualmente presente, viene temporaneamente sospeso dallo stabilirsi di questo stato di epoché del campo di coscienza, definito depersonalizzazione, che afferisce alla fenomenologia di tipo isterico. In altri casi si assiste invece a una sorta di agenesia del sentimento del valore altrui. Tra le due situazioni ve ne sono altre che rappresentano condizioni o strategie inconsapevoli per far sì che il sentimento di colpa sia attenuato:

 

  1. delitto per errore proprio o altrui (tipico l’incidente d’auto) o per legittima difesa
  2. delitto commesso per necessità

  1. assassinio banale
  2. assassinio seriale
  3. delitto per vendetta

  1. assassinio professionale

  1. assassinio impiegatizio,
  2. assassinio ideologico,

  1. assassinio e violenza a scopo sessuale,

In tutte queste situazioni, ad eccezione in parte dell’ultima, il soggetto si assume per lo più la responsabilità dei propri atti. 
In altre situazioni può essere del tutto compromessa la responsabilità rispetto ai propri atti: 
delitto commesso nel quadro di una malattia mentale

delitto commesso nel quadro di una passione intensa

raptus, corrispondente a una sorta di blackout della coscienza durante il quale può aver luogo il compimento di atti delittuosi.
Vi sono situazioni ancora in cui è negata ostinatamente la propria responsabilità o perché davvero si è innocenti o perché meccanismi di carattere isterico tengono separati dalla memoria i propri atti. Essi ricordano infine che anche il soggetto innocente, per motivi inerenti l’economia del proprio mondo interno, può ritenersi colpevole e voler espiare, come Mitja Karamazov.
La psichiatria ha un ruolo importante quando il reato avviene in rapporto con la malattia mentale; negli altri casi, rappresenta solo uno dei soggetti che devono fare il possibile per accompagnare l’elaborazione emotiva dell’evento da parte del reo, della vittima, dei testimoni, e sostenere l’imputato e il condannato nel loro impatto con le asperità del circuito penale, e in particolare del carcere, e con i sentimenti profondi di irreversibilità dell’esperienza compiuta e di disperazione, con la prospettiva del suicidio come via possibile di uscita.

L.Nahon, psichiatria milanese ha raccontato come egli e i suoi collaboratori abbiano accompagnato, durante il ricovero nel reparto di cui è primario , un padre psicotico e delirante - che aveva ucciso il figlio che molto invece lo amava - dall’insania alla ripresa del contatto con se stesso, contatto terribile perché lì avrebbe incontrato il dolore, la colpa, l’impossibilità di cancellare quanto avvenuto. "Un pò di male è necessario" ha ricordato parlando dei nostri pazienti perché non si può annullare l’aggressività e, del tutto, neppure la violenza.
In realtà è facile sia la spinta a subire che a fare del male, ad accondiscendere che il male venga a sé (ha ricordato l’olocausto, la Shoà dove perse dei parenti).
In momenti sociali e storici in cui le pressioni totalitarie, le spinte aggressive si fanno molto forti, più che la ribellione possono emergere tendenze alla passività, a diluire le nostre individualità in una mente collettiva, che richieda un tiranno, un duce, al quale delegare il nostro funzionamento mentale.
Mente individuale e mente collettiva: possiamo facilmente passare da uno stato all’altro, così come fare piuttosto che subire il male! 

Salvatore Natoli, docente di Filosofia teoretica a Milano, ha ricordato la violenza della natura: essa è caratterizzata dall’innocenza perché non vi è soggetto imputabile. La natura genera ed uccide (Zoè): l’uomo è elemento di questa vitalità e di questa violenza.
"Bios" è un momento di emersione dalla Zoè, segnato da un sorgere e da un morire. Le vite non vorrebbero morire, ma sono iscritte nella morte: ecco allora la lotta continua tra vita e morte (Eros e Tanatos), dove l’esistenza cerca continuamente di differire la morte, vissuta come uccisione e non evento naturale.
Quando prevale il rifiuto della dimensione depressiva si va verso una posizione delirante che cerca di negare la naturalità del mondo.
La negazione della morte può avvenire non tanto con modalità maniacali, che possono anche essere creative, quanto con meccanismi sadici proiettivi dove si da la morte per non morire mai. Egli ha ricordato come nel rifiuto della morte, del dolore, vi sia l’inizio della violenza ed il sorgere del male dove si può infliggere la morte arbitrariamente.
L’individuo, i gruppi, le masse, le nazioni, impazziscono quando, nell’ossessione di Sé, negano l’altro, il divenire, il morire facendo morire, non dando vita ma dolore e morte.
In realtà vi è un’altra modalità per non morire: dare la vita agli altri (Eros).
Il vero eroe è colui che regge (rex) il dolore; chi non regge il dolore può impazzire, agire contro la legge, agire male. Riprendendo Dostoewskij, egli si chiede perché l’uomo si sottrae al bene, perché può volere radicalmente il male?
Dostoewskij crede tuttavia nell’impossibilità del male assoluto, visto come fallimento della vita e del mirare al bene. Il male vuole il nulla, ma ricade sempre nell’essere e così non può produrre a pieno quello che vorrebbe.
I nichilisti russi si sentivano titolari del diritto di usare il male nelle loro azioni per distruggere il male "Uccidere per i principi".
Raskol’nikov, per liberarsi dalla colpa, assume il "Principio", ma non riuscirà in questo.
Chi uccide — ricorda Natoli — per un valore universale si fa dio e così non trova più limiti: egli attrarrà facilmente le masse proprio perché si fa dio.
In questa assenza di pietà, di empatia di riconoscimento (dei diritti) dell’altro da noi, gli altri uomini sono i diversi e sono "piccola cosa".
Anche qui riemergono i meccanismi proiettivi di negazione del limite, del dolore, del morire:
non potendo eliminare il dolore si eliminano i sofferenti, i deboli, gli altri ma — sostenuti dai "Principi — si farà ciò credendo di essere portatori di giustizia (dio), credendo di essere gli eletti che possono stare al di là del bene e del male.
Ecco il razzismo di pensieri-principi fortemente ideologizzati, che si propongono con l’infallibilità che è del dio e non dell’uomo.
In realtà l’uomo, creatura fragile, fallibile, non può creare il male assoluto e soprattutto il nulla assoluto…..se non di se stesso,.(ad es. con il suicidio). 
Quando l’uomo sa invece assumere la propria finitudine, il limite, egli si avvicina molto di più a Dio e così può redimere, non certo il mondo, ma se stesso.
Dostoewskij non si illudeva che l’uomo del sottosuolo potesse trovare redenzione; egli era poi contro la modernità, diffidava delle istituzioni laiche, troppo ideologiche e al tempo stesso fragili, corruttibili, non come gli antichi ideali e l’etica che vengono dalla religione!
Natoli indica un percorso, come prima Flores, Mancia, Portinaro, Borgna, nel sapere partire sempre dall’uomo del sottosuolo che alberga in ognuno di noi, per i quali prima di tutto è il cammino della redenzione.
Questo è possibile aiutando l’uomo, noi stessi, a divenire responsabilmente colpevoli, a non negare le colpe, a non proiettarle fuori di noi ma assumerle per poterle elaborare e superare. Così si può dare gerarchia e contenimento ai nostri desideri, alle pulsioni, passioni, paure e malignità, per potere vivere in relazione con gli altri ed avviarci verso la guarigione, verso il "cristo della redenzione".
Questa relazione è "salvifica"perchè caratterizzata dall’empatia per noi stessi e per gli altri.

Marcello Flores, professore di Storia Contemporanea a Siena, ha richiamato:
 

  1. la dimensione collettiva della violenza (l’uomo — individuo diviene massa)

  1. la banalità del male, in relazione ad ideologie totalitarie che facilitano l’insorgere del male burocratico, impiegatizio (Hanna Arendt ed il processo ad Eichman)

Anch’egli ha evidenziato come queste siano modalità per "cosificare" l’altro, la/le vittime ed espellere da sé la colpa. 
Ogni individuo, ogni nazione dovrebbero innanzitutto fare i conti con i propri crimini ed il proprio male interno, prima di giudicare ed eventualmente punire.
Questa modalità —suggerisce — riduce tutti i pericolosi aspetti proiettivi e persecutori insiti nella "Dinamica del nemico" (barbaro-maligno diverso da eliminare).
Ha ricordato molteplici azioni criminali italiane durante le guerre d’Africa e la responsabilità dell’Occidente nei grandi massacri avvenuti nella II° metà del novecento in Africa.
Come esperienza diversa ha richiamato la Commissione per la Conciliazione, costituita in Sud Africa con Tutu e Mandela.
Vittime, persecutori, furono invitati a narrare il male subito ed agito: a questa confessione di responsabilità era legata la stessa possibilità di amnistia.
Si trattava di una narrazione di possibile redenzione, per tornare padroni della proprie vite.
"Non li ritenevamo esseri umani" tornava spesso nelle narrazioni.
Il ricordare, riconoscere responsabilità individuali, di gruppi, di nazioni, non può portare a giustificare ma a comprendere soprattutto come anche noi potremmo arrivare ai "mali" peggiori, in particolari contesti culturali, sociali e storici.

Don Boff ha ricordato infine che dobbiamo promuovere l’esistenza della coscienza, esistenza critica che può e deve farsi autocoscienza critica; questo percorso individuale risente molto dei "contesti" in cui può — e talvolta non può - svilupparsi.
Egli ha evocato l’uomo—massa sperduto, smarrito nel nostro oggi, l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, l’uomo senza qualità di Musil; ha anche affrontato aspetti della relazione uomo — Dio, del libero arbitrio, del come e perché può nascere il Male. Ed ha terminato accennando alla logica del dono e del perdono, temi sui quali ci proponiamo di organizzare un successivo incontro.

In concomitanza con il Convegno, è stata realizzata presso la Pinacoteca di Savona la Mostra fotografica "Un’incerta follia, una incerta normalità" che, con le fotografie sui manicomi del maestro Vasco Ascolini e quelle dedicate da Giovanni Ferro ai luoghi della nuova psichiatria, ha voluto documentare visivamente il cambiamento della nostra assistenza psichiatrica.
L’approccio multidisciplinare di queste nostre giornate, con la partecipazione di filosofi, storici, psicoanalisti, sociologi e psichiatri è esso stesso una dimostrazione della peculiare attitudine del nostro fare in psichiatria: infatti noi vediamo la nostra bella disciplina come scienza applicata ai confini di molteplici saperi, aperta come una bottega rinascimentale sulla piazza della vita, nemica quindi irriducibile delle culture claustrofiliche neomanicomiali.
In questo modo anche durante il Convegno tutti i relatori sono stati stimolati a non restare chiusi nei propri mondi, nei propri linguaggi ma a mettersi inevitabilmente in rete, in discussione, rinunciando all’autoreferenzialità, anche per essere finalmente capiti da pubblici variegati.
Concludiamo con le parole del grande attore Glauco Mauri che ha ricordato, intervenendo al Convegno, come la cultura possa, anzi debba, non essere noiosa ma creare curiosità ed anche divertire: crediamo, forse presuntuosamente, che gli specialisti e i "laici" che hanno partecipato alle nostre giornate abbiano appreso anche divertendosi.

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