Ripensare la cura. Culture, tecniche, saperi, miti

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Da 19 novembre, 2005 - 01:00 a 19 novembre, 2005 - 01:00

Convegno della Fondazione San S.Servolo

SPUNTI PER UN’EPISTEMOLOGIA DELLA CURA

Un titolo di convegno che comprenda la parola "cura" risveglia una certa curiosità. Una ulteriore suggestione è data dalla sede, splendida in una giornata di sole: gli edifici dell’isola lagunare che ospitarono un tempo uno dei due manicomi di Venezia e che stanno diventando un museo dedicato all’intera storia asilare cittadina. Che si potesse parlare di cura in un ex manicomio bonificato, divenuto -cosa assolutamente inaudita, insieme all’intera isola- di proprietà della Provincia di Venezia al momento del suo smantellamento, avrebbe potuto rappresentare, ancora solo qualche anno fa, la realizzazione di uno degli obiettivi più utopici di una certa psichiatria antiistituzionale, ma oggi non è più tempo di simili ingenuità, e per i numerosi spettatori del convegno, molti dei quali impegnati nella gestione della salute mentale nei servizi pubblici, si tratta di misurarsi con ben altro: con i problemi seri e difficili di una psichiatria che sembra cambiare volto con una velocità proporzionale alle contraddizioni che la percorrono.

Ed è un’aria di crisi quella che si respira al convegno, fin dalle sue prime battute, e che man mano che si va avanti si definisce con proposizioni che sempre più nettamente delineano il percorso di un vero e proprio declino, fino allo smantellamento delle ultime trincee su cui ci si era attestati negli ultimi tempi. Si tratta in gran parte di cose note, ma sentirle dire tutte insieme e soprattutto asssistere a come le varie relazioni, una dietro l’altra, vadano a comporsi in un filo che porta dritto dritto a fare i conti con gli stessi fondamenti epistemologici del fare in psichiatria è cosa degna di nota.

Il primo a essere ridimensionato è il concetto di empatia, da tempo sottoposto a critiche: esso viene proposto, nella prima relazione della mattinata (Mario Galzigna, epistemologo clinico e storico della psichiatria, oltre che animatore e organizzatore del convegno), in una veste che ne cambia totalmente i connotati originari, ossia come un equilibrio tra prossimità e distanza che rappresenterebbe il perno sia dell’attività diagnostica che di quella terapeutica. Non si parla più, e di questo non possiamo che essere contenti, di un generico "sentire insieme" al paziente, quanto piuttosto dell’assetto giusto da assumere, mediante continui cambiamenti della distanza, nella relazione terapeutica. Questi movimenti andrebbero a creare un’area comune di immagini, di fantasie, attorno alla quale ruota il processo terapeutico che, a questo punto, risulta tanto più efficace quanto più il lavoro si fonda su attività di gruppo, sia direttamente sul gruppo terapeutico, sia indirettamente attraverso la verifica e la riflessione svolta insieme ad altri (gruppo degli operatori). E’ evidente che questa impostazione non ha niente a che vedere con il concetto di empatia così come è stato largamente proposto negli ultimi decenni, e che l’attenzione, cosa che apparirà in modo ancora più netto nel corso di successivi interventi, si va spostando su un terreno più propriamente ermeneutico. Ma le sorprese sono appena iniziate. La relazione successiva (Mario Rossi Monti, psichiatra a orientamento fenomenologico e psicoanalista) ci mette di fronte al problema della depressione e al quadro drammatico che si è venuto a creare ultimamente. L’illusione ormai caduta - viene detto a chiare lettere - di poter risolvere con il trattamento psicofarmacologico la sintomatologia depressiva è stata nefasta. Essa ha provocato innanzitutto un abbandono della diagnosi di schizofrenia, perfino nel caso di efferati delitti, e ha portato d’altra parte a un appiattimento completo di diagnosi e trattamento della depressione. La depressione ha perso oggi ogni sua caratteristica psicopatologica, le differenze qualitative esistenti tra diversi tipi di depressione, o meglio tra le diverse esperienze soggettive della malattia, sono state completamente trascurate per dare spazio a differenze quantitative nel tentativo di rincorrere la possibilità di una loro misurazione. Risultato: la malattia è in aumento, le forme dette resistenti al trattamento farmacologico pure, la cronicità e le cosiddette recidive sempre più frequenti hanno sfatato il mito di una rapida soluzione della patologia attraverso l’uso di farmaci. Oggi la psichiatria biologica e farmacologica ricorre a una fantomatica bipolarità non riconosciuta in tempo come causa dei suoi fallimenti e quella che a questo punto (del tutto impropriamente ndr) continua a essere definita "depressione" manifesta le caratteristiche cliniche un tempo pertinenti alla demenza precoce, ossia scarsa risposta ai farmaci, incurabilità nella pratica, e perfino deterioramento progressivo dei pazienti. Che fare? Occorre —viene detto- sfatare i miti, falsi, della psichiatria biologica e ritornare a fare ricerca psicopatologica.

Su tutto un altro piano, ma complementare, l’intervento successivo (Piero Coppo, forse la voce più autorevole dell’etnopsichiatria italiana) svolge in chiave antropologica lo stesso tema della crisi della psichiatria. Per un antropologo, si sa, l’indebolimento dell’impianto epistemologico medico non è una jattura, egli è molto più interessato a ciò che in inglese si chiama illness, ossia alla costruzione sociale della malattia, piuttosto che a ciò che nella stessa lingua viene indicato come disease, ossia al modello biomedico, naturalistico, della malattia stessa e dunque per lui è importante sottolineare come a partire dagli anni ’50 nelle nostre società occidentali è cambiato "chi" designa e nomina le malattie. Due le segnalazioni interessanti: la prima di un articolo del 2002 del BMJ di autori australiani che rivelano, tra le altre cose, che la patologia denominata "fobia sociale" è stata in realtà creata da una casa farmaceutica, la Roche, sulla base esclusiva della risposta a una loro nuova molecola (Mocrobemide); la seconda di un editoriale del Bollettino dei Farmaci del nostro Ministero della Salute di quest’anno che parla di "costruzione industriale della malattia". In altre parole, il modello naturalistico per cui le malattie esistono in natura e il primo successo del medico è quello di nominarle per poi procedere all’applicazione del rimedio adatto è diventato completamente illusorio nelle nostre attuali società occidentali dove il processo diagnostico è funzionale alle dinamiche di produzione dei farmaci. Altra cosa è quanto avviene in altre popolazioni, ovvero in altri contesti in cui il nominare la malattia ha senso nell’ambito di un percorso terapeutico, anzi è talora esso stesso atto terapeutico, ossia un atto "intenzionato e potente che non sempre apre la strada della cura ma spesso la indirizza, l’accompagna e la conclude". Il riferimento alla nozione di "crisi della presenza " di Ernesto De Martino chiude il cerchio, riproposta come possibilità di un approccio alla malattia che non ne trascuri l’aspetto culturale, e che sia disposto alla considerazione di altre realtà, di altri contesti, di altre popolazioni in cui non esiste una dicotomia tra salute e malattia paragonabile a quella del paradigma naturalistico e razionale proprio dell’occidente.

A questo punto sarebbe già abbastanza, ma l’intervento che conclude la mattinata (Giovanni Stanghellini, psichiatra a orientamento fenomenologico, molto attento all’interazione tra psichiatria clinica e filosofia) completa il quadro, con una rassegna dei modi di approccio alla questione della cura dal punto di vista della fenomenologia, anzi di una "rifondazione" della fenomenologia — l’oratore dirà, con una battuta, che questo termine, presente nel titolo della sua relazione, forse è un po’ infelice e da evitare per i possibili equivoci con altre "rifondazioni" ("comunista", ndr). E’ noto che il fascino, irresistibile, della fenomenologia è legato al rigore che la percorre, all’esigenza quasi esasperata di una coerenza delle proposizioni ripetto ai princìpi del metodo; è noto altresì che questa è anche la sua dannazione, che ne fa un territorio ostico e per definizione incurante delle ragioni di ogni pratica che potrebbe contaminarne la purezza ideale. Ma non c’è niente di più efficace che vedere l’esercizio critico fenomenologico all’opera, applicato alla demolizione di un avversario dialettico: lì non si può che rimanere ammirati. Questa volta tocca, in prima battuta, a tutte le metacognizioni: da quella biologista alla metapsicologia psicoanalitica, a quelle a sfondo sociale, che vengono liquidate immediatamente come "un approccio in terza persona", che introduce nel campo della cura un soggetto esterno e dunque assente e che, per questo, "non ci interessa neanche".

Ma al centro del bersaglio c’è proprio l’empatia, a cui viene dedicata una puntuale quanto destruente analisi; essa, definita come approccio "in prima persona", vacilla sotto i colpi di una critica garbata ma feroce che ne svela il carattere solipsistico e in definitiva masturbatorio. L’ottica da assumere nella cura — viene detto a questo punto - è quella "in seconda persona" vale a dire quella del rapporto interpersonale in cui si costruiscono e ricostruiscono narrative condivise, ovvero l’ermeneutica che, tanto per non uscire dal seminato, può trovare in campo fenomenologico forti ancoraggi teorici. Si capisce comunque che si sta parlando di "rifondazione" e dunque non si può restare legati a mostri ancorchè sacri del passato come, per dirne uno, P. Ricoeur, per cui al di là della citazione d’obbligo, e non senza una ulteriore timida incursione in casa d’altri con una citazione dell’"etnocentrismo critico" di E. De Martino, lo scenario prospettato dall’oratore è in realtà molto più moderno. La validazione del metodo ermeneutico — egli prosegue - è affidata alla coerenza: coerenza interna delle narrazioni, ma anche e soprattutto coerenza esterna, la costruzione/ricostruzione di narrazioni deve essere dunque in qualche modo un processo pubblico.

Esco dalla mattinata di lavori incuriosita e anche un po’ meravigliata da questa svolta generale che sembra accomunare tutto l’ambiente, per cui oratori di formazione diversa, provenienti da innamoramenti e avventure intellettuali più o meno recenti e del tutto differenti, si trovano a orientarsi verso un’epistemologia della cura che a questo punto sembra prendere in seria considerazione l’ermeneutica e la pratica di gruppo, (e di conseguenza, sembrerebbe logico, la psicoterapia delle immagini, delle rappresentazioni, nel lavoro di cura). Appare dunque tramontata l’epoca del cognitivismo; anche lo smalto del costruttivismo si presenta un po’ appannato e di neuroscienze non si parla neanche. Altra nota a margine è l’assenza, per lo meno ufficiale, anche se nel pubblico dovrebbero essercene numerosi, di psicoanalisti e psicoterapeuti: dunque un discorso sulla cura, che oggi sembra confidare in immagini, narrazioni e gruppo, non proposto da psicoterapeuti d.o.c.; il che fa riflettere.

Infine, il ricorrere dei riferimenti a Ernesto De Martino — che fa senz’altro piacere, visto l’immenso patrimonio di riflessioni lasciato da questo studioso, troppo poco conosciuto — risulta del tutto insolito: erano anni che non se ne sentiva parlare così insistentemente in un convegno.

Il pomeriggio, di taglio filosofico/antropologico, mi vede più in difficoltà nello stilare un resoconto. Non è il mio campo professionale ed è peraltro un ambito del sapere caratterizzato da peculiarità di linguaggio e metodologia in cui non è opportuno avventurarsi senza una specifica attrezzatura. Ma posso forse permettermi alcune considerazioni del tutto naives, da cronista.

Si inizia con il contributo di una filosofa della differenza (Adriana Cavarero) che indirizza il discorso della cura sul piano quasi obbligato del riferimento alla nozione heideggeriana di "cura", conosciuta, anche da noi psichiatri, come un sostanziale "prendersi cura". Vista in questa chiave la cura viene detta senz’altro competenza storica femminile secondo il modello millenario del rapporto madre-bambino. Viene detto anche che in una riflessione su questi temi bisogna partire da una rivoluzione nel pensiero che ha capovolto i parametri usuali della filosofia -contraddistinti dalla centralità del riferimento alla morte- e ha proposto invece la centralità della nascita e che tale rivoluzione è rappresentata dal pensiero di Anna Arendt. Sorvolo su questo aspetto di una rivoluzione da parte di questa sia pur umanissima, profonda e sensibile pensatrice, che peraltro conosco solo per alcune letture frammentarie di testi in cui non viene toccato l’aspetto della nascita, non almeno in termini così pregnanti da proporsi come svolta nel pensiero dell’occidente -ma questa è senz’altro una mia carenza- per seguire il filo, proposto dalla relatrice, di un pensiero femminile più naturalmente rivolto alla vita che alla morte, che potrebbe essere molto interessante. Il discorso continua: oggetto della cura è il neonato che si presenta come il vulnerabile per eccellenza, "aperto sia alla cura che alla ferita": Benissimo, si potrebbe concordare anche con questo assunto ovvero con il fatto che la cura come prendersi cura è in sostanza accudimento di un individuo sostanzialmente sano, semplicemente vulnerabile. Da psichiatra che deve avere in mente anche la fisiologia dello sviluppo mentale, l’idea di una condizione neonatale di vulnerabilità, e non di malattia, mi trova ancora disposta ad assentire. Ma a un certo punto viene proposto un salto nel filo di pensieri che sto seguendo: le immagini possibili della donna nel rapporto con un neonato sono solo due: la Madonna, madre amorosa, e Medea, l’assassina dei propri figli.

Comincio a sentirmi un po’a disagio, non tanto ad accettare come termine negativo Medea, portata alla ribalta anche recentemente da tanti fatti di cronaca, quanto a considerare la Madonna come termine positivo e soprattutto a pensare che non ci siano altre immagini possibili del rapporto tra donna e bambino. L’avventura filosofica iniziata con tanta buona volontà minaccia di trascinarmi in uno stato di confusione, forse anche a causa della deformazione professionale di chi è costanemente impegnato a individuare le malattie e il modo di curarle. E soprattutto l’identità di chi deve curare. Si era accennato alla donna o a una qualche immagine femminile in quanto più legata alla vita che alla morte, e mi sarei aspettata un passaggio che collegasse l’attitudine della donna al rapporto con il bambino a un’idea della cura -a questo punto quella di una condizione di malattia- come una sorta di ribellione vitale. Che so io, un accenno alle streghe e al loro rapporto con la cura delle malattie (anche Medea all’inizio è una strega benefica che aiuta Giasone e i suoi compagni). Ma qui faccio fatica a trovare l’immagine di una donna amante della vita e neanche tanto dedita all’accudimento, in entrambe le figure proposte: Medea uccide i propri figli e la Madonna non so perché mentre ascolto non evoca in me l’immagine gioiosa di una maternità di Raffello, quanto piuttosto quella della Pietà, ossia di una donna che raccoglie in grembo il proprio figlio morente: Per di più non mi sembra trovare alcuno spazio in questo discorso l’idea della cura a cui tengo, visto che il neonato non è malato ma solo vulnerabile. Mi chiedo se non ho perso qualche passaggio e vorrei porre alcune domande alla peraltro suggestiva relatrice, così tanto per tornare a orientarmi: allora il bambino è sano ancorchè vulnerabile, mentre la madre è malata, ossia assassina, o comunque indifferente, rassegnata a crescere un figlio che le verrà tolto precocemente? E ancora: il neonato e Medea (lasciando per un momento da parte la Madonna) necessitano o no di due diversi tipi di "cura", essendo il primo una creatura semplicemente fragile e la seconda, come sembrava suggerirci Rossi Monti nella sua relazione della mattina, una persona da inscrivere nel registro psicopatologico delle psicosi schizofreniche? O, più decisamente: ma non le pare che dopo aver rivendicato alla donna il merito storico di spingere il pensiero umano a orientare la propria riflessione sulla vita piuttosto che sulla morte, lei in realtà ci propone ancora una volta una confusione tra vita e morte e un destino per la donna di assassinio o di assistenza? Ma ho la sensazione che sbaglierei ad alzare la mano, quindi taccio, ma altri, tra gli stessi relatori del pomeriggio, più coraggiosi e soprattutto più solidi, danno luogo a un dibattito infuocato. Le voci dissenzienti rimproverano alla relazione di presentare uno scenario in cui niente è cambiato dai tempi dei tempi se non si riesce a definire una immagine di donna diversa dai due stereotipi proposti e se non si riesce d’altra parte a pensare a nuove realtà che sono venute delineandosi nel tempo, come a esempio il nuovo modo dei maschi di rapportarsi ai bambini, anche piccolissimi. La relatrice è agguerritissima nelle risposte.

Segue l’intervento di un decano dell’antropologia (Tullio Seppilli, fondatore dell’antropologia medica italiana), che scioglie completamente l’uditorio.

Egli, con grande verve e con la saggezza di una navigata esperienza di metodologia in antropologia, ci regala più di mezz’ora di autentica vivacità. Nelle sue parole rivivono la passione e il rigore della ricerca che ha segnato una lunga stagione dell’antropologia italiana, che egli ha la capacità di restituirci pienamente, grazie anche a una brillante aneddotica che culmina in un affettuoso ricordo del suo maestro e "compagno" E. De Martino.

Infine l’intelligenza di un filosofo della scienza di raffinati gusti letterari (Giulio Giorello), travolge e supera, forse suo malgrado, la sua stessa impostazione iniziale che sembrava volere inscrivere ancora una volta la questione della cura nella già menzionata concezione heideggeriana. Non si può che essere d’accordo che la cura -quella delle malattie, a questo punto sembra chiaro- sia in definitiva ribellione alla malattia stessa e alla morte e che il mito di Prometeo le si adatti perfettamente. Come non si può che assistere ammirati al felice scorazzare dell’oratore attraverso una serie di citazioni pertinenti e di immagini forti: dal Prometeo di Eschilo, a Bacone, ai coniugi Shelley. Il ritmo è incalzante e irresistibile, non resta che seguirlo con entusiasmo in un crescendo che culmina in una sorta di urlo finale in cui rifiuta le immagini femminili proposte dalla collega Cavarero, aggiungendo che della verginità della Madonna e del Cristianesimo "non se ne può più" e proponendo, come immagine femminile, da recuperare da una tradizione millenaria, la Inanna dell’epopea di Gilgamesh, ossia un mito pre-cristiano.

Continua ricordando l’ateismo di Ezra Pound, ma chiarisce di aver molto da ridire anche sull’Illuminismo. infatti inneggia alla rivolta delle banlieues parigine identificandone i protagonisti - con un parallelo con il Frankestein di Mary Shelley - con le innocenti sebbene mostruose creature che rivendicano solo un po’ d’amore dal loro indifferente creatore: lo Stato francese, in questo caso, diretto discendente dell’Egalitè, Liberté, Fraternité della rivoluzione del1789. Ma alla fine, pur nella simpatia e nell’ammirazione, si fa strada una domanda un po’ petulante, che ci si porta dietro mentre si lascia in vaporetto il molo di S.Servolo dopo questa lunga, memorabile giornata: ma Heidegger che c’entra con Prometeo? non era, e neanche tanto in fondo, un uomo d’ordine?

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