CONOSCERE L’ANALISI TRANSAZIONALE: TEORIA E METODI PER COSTRUIRE RELAZIONI POSITIVE ED EFFICACI
Presentazione del seminario e note storiche sull’analisi transazionale:
Dott.ssa Marina Baldacci e dott.ssa Carla Giovannoli
Questo seminario, organizzato dall’Istituto Torinese di Analisi Transazionale e Gestalt, si pone l’obbiettivo di rendere noti i concetti base di questa corrente psicoterapeutica, che vede il suo fondatore nel medico psichiatra Eric Berne.
La dott.ssa Carla Giovannoli, direttrice dell’istituto, mette a fuoco la cornice storica in cui si è sviluppato il pensiero di Berne. Medico psichiatra legato al positivismo e al pragmatismo americano, ha una personale formazione di tipo psicoanalitico. Negli anni ’50, dopo anni di esperienza lavorativa manicomiale ("psichiatra dei manicomi dalla storia forte"), sente l’esigenza di coniugare i benefici della classica psicoanalisi freudiana con una gestione più umana degli ospedali psichiatrici e non limitata solo alla somministrazione di farmaci. Berne desidera rendere l’analisi accessibile anche a chi ha meno cultura e meno denaro, ossia renderla contemporaneamente più semplice e meno costosa; aumentare la partecipazione alla psicoanalisi, spiegarla con parole semplici, farla diventare un processo formativo per tutti. Il primo passo compiuto in tal senso risulta essere quello della terapia di gruppo, di gestione più pratica ed economicamente più accessibile.
La transazione, intesa come scambio relazionale fra individui è il concetto base da cui si sviluppa il pensiero di Berne; il contesto relazionale risulta infatti essenziale per l’inquadramento del soggetto, inteso come uomo globale, non solo intrapsichico; i messaggi non verbali che derivano dal contesto comunicano anche più delle parole e per questo motivo Berne elimina il lettino dal setting psicoterapeutico mettendosi di fronte al paziente. La modalità di relazione è il sistema che ciascuno mette in atto per dare e ricevere riconoscimenti, unità fondamentali del rapporto sociale.
La dott.ssa Giovannoli fa notare come l’interpretazione data da Berne, pur apportando sostanziali modifiche al pensiero di Freud, permanga psicodinamica; inoltre sottolinea l’importanza che queste acquisizioni hanno non solo in psicoterapia, ma anche in settori diverso da quello clinico.
Il modello Berniano, gli stati dell’Io, la comunicazione.
Alleanza e contratto.
Dott. Giuliano Lorenzetto
Il dott. Lorenzetto, prima di introdurci nel vivo della concezione berniana, premette che l’AT, pur essendo stata tacciata di eccessiva semplicità, in realtà è semplice solo nella presentazione al paziente (proprio secondo i principi di Berne) ma che i contenuti sono in realtà complessi e spesso non del tutto compresi da chi affronta l’AT scetticamente, come è avvenuto molte volte negli anni ’70, quando venne diffusa e pubblicizzata in modo inadeguato.
Viene quindi presentato il modello berniano degli stati dell’Io, presupposto di tutto il pensiero transazionale. L’analisi della struttura della personalità e dell’attività sociale spontanea rivela l’esistenza di coerenti sistemi di pensiero e di sensazioni che si manifestano attraverso corrispondenti modelli di comportamento. Gli stati dell’Io sono tre per ciascun individuo e rispecchiano fenomeni ed esperienze realmente accadute. L’Io rappresenta un’entità fenomenologica derivante dall’integrazione fra i tre stati dell’Io.
Lo stato dell’Io Genitore è un sistema congruente costituito da pensieri, emozioni e comportamenti introiettati dalle figure genitoriali.
Lo stato dell’Io Bambino rappresenta una reliquia arcaica legata a vissuti che vengono riproposti dalla prima infanzia; il dott.Lorenzetto fa notare come in questo stato dell’Io non ci sia interferenza altrui. Lo stato dell’Io bambino è la nostra energia che ci motiva indipendentemente dall’età anagrafica che invece influenza lo stato dell’Io Adulto.
Quest’ultimo tiene conto di G e di B e, integrando e rendendo attuali entrambe le loro dimensioni, è volto alla valutazione oggettiva e autonoma della situazione qui ed ora; costituisce una risposta diretta alla realtà.
Il modello funzionale positivo è quello in cui i tre stati dell’Io, che per Berne sono fenomeni reali e non solo teorici, dialogano fra loro a livello inconsapevole; essi hanno carattere costantemente evolutivo. La norma è data dall’integrazione che tende all’equilibrio: tutti siamo stati bambini ma abbiamo anche la capacità di stare al mondo come adulti.
Da questa convinzione si sviluppa il principio dell’okness: tu sei ok io sono ok, della consapevolezza del valore e della dignità dell’altro sempre.
Si parla di contratto perché il terapeuta lavora con il paziente, con competenze diverse ma entrambi con il medesimo obbiettivo, non di risolvere i problemi ma di trovare gli strumenti per cercare di risolverli. Infine il concetto di transazione ulteriore è legato al messaggio psicologico connesso all’azione, in quanto la metodologia d’intervento è basata sull’alleanza e sull’empatia.
Il riconoscimento come fonte di benessere psico-fisico:
Dott.ssa Daniela Filograsso
Le osservazioni della dott.ssa Filograsso sul riconoscimento prendono l’avvio dagli studi di Spitz sulla deprivazione sensoriale nei neonati. Egli ebbe modo di constatare come negli orfanotrofi, sebbene non mancassero le attenzioni ai bisogni primari dei piccoli come nutrimento e pulizia venisse meno quel riconoscimento corporeo necessario ad ogni neonato. Questa deprivazione sensoriale ed insieme emotiva rendeva più frequenti disturbi intercorrenti, fino alla depressione, all’apatia e al marasma.
Da queste osservazione Berne postulò quindi l’esistenza della fame di stimoli, bisogno fondamentale innato, che nel neonato si manifesta come bisogno di contatto fisico, di percezione corporea (necessaria al neonato anche per sviluppare la percezione di sé) mentre nell’adulto si osserva la necessità di un contatto anche solo emotivo, per esempio verbale, ma pur sempre con la stessa funzione di riconoscimento.
L’unità di misura del riconoscimento viene chiamata da Berne con il termine neutro stroke, tradotto in italiano con il termine carezzache quindi, anche in italiano, in analisi transazionale viene inteso senza connotazione positiva; la carezza ossia il riconoscimento può essere negativo o positivo, condizionato ossia rivolto all’ azione del soggetto, oppure incondizionato rivolto all’essere.
La carezza costituisce l’unità fondamentale della transazione; lo scambio di carezze è alla base del rapporto sociale.
In conclusione la dott.ssa Filograsso ricorda come secondo Berne ciascuno sia personalmente responsabile tanto dei riconoscimenti dati quanto di quelli ricevuti.
La comunicazione distorta: i giochi psicologici
Dott. Enrico Lisei
Il dott. Lisei introduce ora un altro argomento essenziale dell’analisi transazionale: i giochi.
Il testo cui fa riferimento è "A che gioco giochiamo?" di Eric Berne, classico della psicologia contemporanea e caposaldo dell’analisi transazionale.
Il gioco è inteso come una serie progressiva di transazioni ulteriori complementari rivolte ad un risultato ben definito e prevedibile. Si tratta cioè di un insieme di transazioni che vengono ripetute in modo pressoché invariato da chi le mette in atto, perché portano a un duplice risultato: chi mette in atto un gioco ottiene un tornaconto sia a livello sociale, esplicito, sia a livello psicologico, implicito. Si gioca in pratica sia per confermare la propria opinione di se stessi, degli altri e del mondo sia per soddisfare l’innato bisogno di ottenere carezze.
Per transazione ulteriore s’intende un’azione che sembra avere un significato, ma che in realtà ne implica uno diverso, ossia è presente una motivazione nascosta.
Perché il gioco possa essere messo in atto è necessario però che vi siano almeno due soggetti, e che il gioco dell’uno vada ad agganciare le debolezze dell’altro, proprio come un gancio si aggancia ad un anello. Una volta avvenuto l’aggancio il primo giocatore cambia la sua mossa (scambio) per raggiungere il suo tornaconto, ma alla fine il raggiungimento del tornaconto sarà reciproco, presupposto essenziale perché il gioco possa continuare a ripetersi. Non è detto che la percezione finale sia la stessa da parte dei giocatori: l’importante è che gli stati d’animo repentinamente insorti conducano ad una ricompensa psicologica per i giocatori coinvolti.
Il gioco è ripetitivo e ogni partecipante ricopre un ruolo fisso che può essere inteso come ruolo di Vittima, Salvatore o Persecutore; queste le loro motivazioni:
- La vittima non si sente ok.
- Il salvatore si mette in moto per l’altro, ma lo svaluta.
- Il persecutore denigra l’altro.
I giochi portano al cosiddetto pagamento, inteso come tornaconto negativo finale. Negativo perché il gioco è fondamentalmente sleale e la conclusione prevede un elemento drammatico; superficialmente il gioco è plausibile, ma quello che conta è la motivazione nascosta, la qualità ulteriore che svela come le azioni di gioco siano in realtà delle vere e proprie manovre.
Da ciascun gioco deriva un incrocio transazionale ulteriore da cui scaturisce il vantaggio psicologico che è sia interno, nel senso della soddisfazione che si trae dallo svolgersi del gioco sia esterno dovuto all’evitamento di una situazione temuta che il gioco consente di allontanare.
Il dott. Lisei conclude invitando tutti i partecipanti a pensare ad una situazione vissuta e a porsi la seguente serie di domande: se le risposte affermative sono almeno quattro allora si tratta di un gioco, giocato con maggiore o minore consapevolezza da parte dei giocatori:
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Storie di vita e di copioni
Dott.ssa Marina Baldacci
Introdotto il concetto di gioco, la dott.ssa Baldacci ci parla ora del copione, che è definito quel piano di vita che, se insoddisfacente, è basato su quelle decisioni che un individuo può prendere ad ogni tappa del proprio processo evolutivo e che limitano la sua consapevolezza, inibiscono la sua spontaneità e impediscono la sua intimità rendendolo poco flessibile e poco autonomo e che sono a loro volta basate su convinzioni rigide e distorte assunte come chiusura cognitiva di una gestalt il cui bisogno non è soddisfatto.
Il termine copione si riferisce proprio al copione teatrale ed è inteso come mappa mentale, strutturazione dell’identità. Questo concetto viene estremizzato al punto che, stabilito il protocollo del proprio copione verso i tre anni e perfezionato verso i cinque, secondo Berne ognuno sa già cosa ci sarà scritto sulla propria lapide.
Il copione definisce un’identità di tipo patologico, tragica o di che tipo? Ci viene in aiuto in questo caso il mito, come soggettivazione della realtà esterna e oggettivazione del mondo interiore; risponde al bisogno di struttura come identità riconosciuta. Se un soggetto mette in scena un copione allora gli eventi della vita sembreranno ripetersi spesso in modo apparentemente ineluttabile: il copione diventa uno schema di vita, conscio o più spesso preconscio.
Il copione di coloro i quali non riescono mai a raggiungere i loro obbiettivi e a soddisfare le loro ambizioni presenta chiari punti di contatto con il mito di Tantalo.
Coloro che si costringono a ripetere sempre le stesse azioni nello stesso modo, senza mai introdurre variazioni ricalcano il mito di Aracne.
Il mito di Ercole presenta analogie con il copione messo in atto da coloro che compiono grandi sforzi per non ottenere nulla.
Se in seguito ad un evento positivo, il soggetto si aspetta sempre un rebound negativo allora il suo copione riprende il mito di Damocle.
Il copione del quasi cosi chiamato poiché i soggetti accumulano una serie di "quasi successi" ricalca il mito di Sisifo.
Il mito di Bauci e Filemone traduce le vicende di coloro che dopo aver programmato la loro esistenza o dopo aver raggiunto un traguardo non ne godono o non sanno riorganizzarsi.
La dott.ssa Baldacci spiega come il copione non sia esclusivamente patologico ma come tuttavia sia sempre connotato da aspetti negativi che sottraggono positività ad alcuni aspetti dell’esistenza; durante tutta l’esistenza si prendono decisioni, se si è instaurato un copione saranno compresse le possibilità di creatività e di adattamento.
Gli aspetti interculturali nella diversa realtà professionale
Dott.ssa Laura Moretto
La dott.ssa Moretto è psicologa transazionale e si occupa di psicologia transculturale presso il l’ufficio migranti di Torino. L’argomento da lei proposto è di grande rilevanza e, sempre più spesso, coglie l’operatore sanitario impreparato. La nostra metodologia di approccio talvolta non è adeguata ad altre culture; inoltre la realtà dell’immigrazione presenta una serie di problematiche peculiari, non solo nostre ma neanche solo dell’immigrato e che vengono denominate terzo pianeta.
La costruzione dell’identità costituisce un processo dinamico, in continuo cambiamento; quando un soggetto si trova a contatto con una cultura diversa, in un mondo diverso, inevitabilmente si pone domande sulla propria identità e sull’identità della nuova realtà con cui si rapporta. Alla crisi da cambiamento, se lo stress da transculturazione non è correttamente gestito, fa seguito un vero e proprio trauma; trauma cui va incontro anche lo stesso curante se non riesce a trovare una formula terapeutica adatta al problema posto.
La sequenza prevede prima un arrocamento sulle proprie posizioni, poi un processo di iperadattamento che poiché non prevede il confronto fra le posizioni non porta ad alcuna risoluzione; infine si auspica la soluzione ottenuta tramite la riformulazione e la moltiplicazione della propria identità.
Il migrante deve trovare la propria doppia appartenenza senza negare alcuna parte di sé; l’operatore d’altro canto deve fare uso di una gamma più ampia di informazioni per favorire la crescita dell’identità.
Un problema particolare è posto dall’adolescente immigrato: in questo caso infatti la pregnanza è aumentata dal fatto che l’adolescente, già alla ricerca della propria identità, deve sapersi identificare anche nella nuova realtà migratoria. I percorsi possibili sono tre e possono anche costituire fasi diverse nella vita di una stessa persona:
- RESISTENZA CULTURALE: il soggetto mantiene fortemente la propria identità, cerca amicizie del suo stesso paese d’origine e si isola dal resto della comunità che considera inferiore o comunque carente per alcuni aspetti (per esempio, a Torino, gruppetti chiusi di adolescenti rumeni che si sviluppano prima e considerano tutti gli altri bambini ).
- IPERADATTAMENTO: il migrante si distacca completamente dalle sue origini, negando la sua identità. La perdita delle origini gli procura ansia, angoscia e senso d’estraneità. Pensa di potersi così sentire parte integrante della comunità da cui è stato accolto, al punto che arriva a negare di conoscere la propria lingua madre e il proprio paese d’origine.
- MARGINALITA’: il migrante vive una fase di isolamento, in cui non fa nulla, vive ai margini.
L’obbiettivo è giungere ad una identità bilocata, di doppia appartenenza, in cui il migrante consapevole della sua origine riesce a integrarsi adeguatamente anche nella realtà migratoria. Questa concezione è da riferire alla visione berniana dell’okness.
In un primo momento di passaggio prevalgono il disorientamento e il senso di perdita, legati allo shock, al trauma, all’ansia e al dolore. L’obbiettivo è quello di sperimentare in seguito il piacere della scoperta: sorpresa, apprendimento, piacere e celebrazione. La capacità di godere di nuove esperienze deriva dallo stato dell’Io bambino.
La dott.ssa Moretto fa notare poi come la nostra mente, volendo sempre incasellare le novità, posizionandole nelle cosiddettematrici, si senta destabilizzata quando incontra qualcosa che invece non riesce a porre in nessuna delle matrici conosciute. Questo costituisce la base per la creazione di stereotipi e pregiudizi nei confronti di qualcosa di completamente sconosciuto che non può essere "incasellato".
Ritornando ora al diagramma della struttura di personalità la dott.ssa Moretto fa notare come in realtà i cerchi non siano separati fra loro, ma siano presenti delle aree di intersezione in cui i cerchi sono sovrapposti.
Si parla di contaminazione degli stati dell’Io: gli stati dell’Io s’influenzano a vicenda e le parti sovrapposte comprendono anche l’influenza di elementi quali la cultura, la società, i media, i pregiudizi, gli slogan etc..
La contaminazione fra lo stato dell’Io genitore e lo stato dell’Io adulto lascia spazio alla formazione
di stereotipi e pregiudizi, mentre la contaminazione fra lo stato dell’Io bambino e lo stato dell’Io adulto porta alla slatentizzazione di emozioni grandiose e sostitutive. Inoltre le due aree di contaminazione s’influenzano a vicenda.
Ecco una contestualizzazione relativa all’immigrazione:
- GAà PREGIUDIZIO: l’immigrato ruba il lavoro quindi..
- ABà EMOZIONE: …io resterò per sempre disoccupato
Si rende quindi necessario un processo di decontaminazione: lo stato dell’Io genitore ha bisogno di valori espliciti, confermati e condivisi; lo stato dell’Io bambino sperimenterà allora emozioni forti ma genuine, che si sviluppano in un contesto di una corretta informazione.
La situazione finale ideale secondo la dott.ssa Moretto è quella in cui lo stato dell’Io genitore riconosce il valore della diversità, della storia, della lingua e del paese dell’immigrato; viene messo in atto un confronto, ossia una transazione, uno scambio. L’esperienza migratoria viene intesa come una risorsa. Lo stato dell’Io adulto aspetta ad esprimere valutazioni e cerca di conoscere le necessità del migrante. Infine lo stato dell’Io bambino sperimenta emozioni che non nega ma utilizza per rendere più umana la relazione con il migrante.
Il presupposto fondamentale perché si sviluppi una situazione di questo tipo è la corretta informazione che dev’essere fornita soprattutto negli ambienti dove è più facile che venga recepita, per esempio a scuola o in piccoli gruppi.
Durante il dibattito conclusivo la dott.ssa Moretto ribadisce l’importanza di sapere affrontare il disagio del migrante, che spesso è aggravato dall’assenza del progetto migratorio, cosa che accade spesso ai figli dei migranti che raggiungono i genitori in un secondo momento ma senza percepire la necessità del viaggio e senza essere adeguatamente preparati.
Report a cura di Isabella D’Orta