IL TRATTAMENTO APPROPRIATO DELLA DEPRESSIONE: LA COLLABORAZIONE TRA PSICHIATRA E MEDICO DI FAMIGLIA

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Sala Verdi
La Spezia
Italia
Da 18 ottobre, 2008 - 00:00 a 18 ottobre, 2008 - 00:00

Perché collaborare?

P.Ciancaglini

 

Perché collaborare? La risposta è semplice: perché è indispensabile e perché è nei fatti.

Da che mondo e mondo i Medici di Medicina Generale vedono pazienti psichiatrici più o meno gravi nei loro studi ed i Servizi Psichiatrici di Comunità vedono pazienti psichiatrici che arrivano ai Servizi.

Questo è un dato di fatto, la collaborazione organizzata, strutturata e continuativa è il processo che va a mettere ordine in qualcosa che spesso è caotico, che organizza percorsi di cura e che individua gerarchie di trattamenti; quindi la collaborazione con la Medicina Generale non è un optional o qualcosa di difficile, ma è uno degli appoggi su cui la Psichiatria di Comunità dovrebbe poter fare affidamento.

Il DSM è un dipartimento molto eterogeneo e che quindi ha al suo interno percorsi di cura che vanno dalle cure primarie alla altissima specializzazione.

E’ evidente che non può e non deve esserci confusione tra ciò che sono le cure primarie e ciò che invece riguarda la specializzazione.

Se ci si riferisce ad un ottica di Sanità Pubblica e si considera che il Servizio Psichiatrico fa riferimento a una popolazione generale e non solo a coloro che giungono alla sua osservazione, è evidente che occorre un percorso prefigurato che consenta di mettere i Medici di Medicina Generale nelle condizioni di trattare i pazienti trattabili in quel setting e di conseguenza di mettere i Servizi Psichiatrici Specialistici in condizioni di curare prima e meglio pazienti più gravi.

Suddividendo le cose in modo un po’ grossolano per motivi di comprensione, si possono identificare due aspetti principali: c’è un ambito che riguarda un gran numero di disturbi psichici lievi e moderati, tuttavia non poco invalidanti e non poco problematici per la società, che possono essere curati nel setting della Medicina Generale creando i giusti strumenti attraverso collaborazione e formazione; vi è poi una seconda modalità di trattamento di quei pazienti con patologia grave, in cui comunque il Medico di Medicina Generale ha un’importante ruolo, considerando anche il fatto che i soggetti che ricevono una diagnosi psichiatrica hanno un tasso di morbilità e di mortalità più alti della popolazione generale.

Quindi, ad esempio, ricevere una diagnosi di psicosi può significare avere dei rischi per la salute fisica, ad esempio in relazione all’assunzione continuativa di farmaci antipsicotici, e questo dovrebbe essere un ulteriore aspetto su cui basare la collaborazione tra Specialisti Psichiatri e Medici di Medicina Generale.

Il messaggio fondamentale è quello che la collaborazione tra il Sistema delle Cure Primarie e gli Specialisti Psichiatri è uno degli appoggi indispensabili perché si possa creare un Sistema di Psichiatria di Comunità efficiente ed efficace.

 

P. C. Brasesco

I Medici di Medicina Generale e i DSM sono entrambi agenzie del territorio e come tali è doveroso che interagiscano perchè hanno a che fare con gli stessi utenti.

Ci sono casi, ormai non più isolati, di reale collaborazione tra medici di famiglia all'interno delle cooperative.

I pazienti con problemi psichici che accedono all'ambulatorio del medico di base sono numerosi, questo fa sì che il medico si trovi frequentemente a dover trattare questo tipo di problemi pur non avendo un'adeguata formazione in materia. La sola esperienza possibile è direttamente sul campo, affrontando quotidianamente le problematiche poste dai pazienti.

Sono numerose le motivazioni che portano il paziente nell'ambulatorio del medico di famiglia; innanzitutto il medico di base conosce il paziente da molto tempo, non solo le sue patologie ma anche il contesto famigliare da cui proviene, parte della storia della sua vita, per questo il rapporto medico-paziente è maggiormente fondato sulla fiducia.

I DSM sono spesso sovraffollati; questo è un motivo logistico che fa sì che il paziente giunga più frequentemente dal medico di base.

Purtroppo vi sono alcune aree in cui la comunicazione tra dsm e medici di famiglia è difficile e questo va solo a svantaggio del paziente.

La formazione dei medici di famiglia non è così completa dal punto di vista psichiatrico, non è sufficiente l'esperienza fatta sul campo, sarebbero necessari continui aggiornamenti, oltre al tentativo di acquisire un linguaggio comune per capirsi meglio.

In tutto il territorio c'è un problema di appropriatezza dignostica e terapeutica.

 

Motivi e difficoltà della collaborazione fra Medicina Generale e Psichiatria.

F. Asioli

La nostra regione obbliga i DSM a collaborare con i Medici di Medicina Generale, la collaborazione tra sistemi primari di cure non è un optional ma un obbligo non teorico e ideale con obiettivi reali e concreti.

I direttori dei DSM hanno obiettivi precisi legati a questi programmi di collaborazione.

Avere presenti gli ostacoli strutturali alla collaborazione ci permette di capire tante cose e di poter formulare progetti.

La distribuzione dei pazienti avviene in modo simile in tutte le situazioni in cui esiste un sistema di medicina di base.

La maggior parte dei pazienti con disturbi mentali non accede a nessun sevizio di tipo terapeutico, l'unica possibilità che i pazienti di questi tipo accedano a qualche cura è il medico di medicina generale. Il medico di medicina generale rappresenta il punto considerato più accessibile da parte dei pazienti che riescono ad avere un rapporto basato sulla fiducia con il proprio medico che li conosce da anni, mentre questi elementi importanti del processo terapeutico vengono a mancare con uno psichiatra sconosciuto.

Si è visto che gli esiti della stessa patologia sono migliori nei pazienti seguiti dai medici di medicina generale, nonostante siano meno esperti in materia, che nei pazienti seguiti da specialisti.

Il medico di medicina generale assiste 20 volte il numero dei pazienti con problemi psichiatrici rispetto al DSM. Noi dovremmo cercare di avere delle strategie collaborative di supporto comuni.

I medici di medicina generale tendono a vedere più frequentemente pazienti con problemi psichiatrici minori, le patologie psichiatriche comuni, ma ci sono anche pazienti gravi che vengono seguiti dal medico di famiglia. Al DSM afferiscono pazienti gravi è più indisciplinati, non dipende solo dalla disgnosi ma anche dal comportamento del paziente anche dal punto di vista sociale.

Esiste un'area in cui pazienti vengono visti contemporaneamente dal DSM e dal medico di medicina generale; si potrebbe pensare che questi pazienti siano particolarmente fortunati, ma gli esiti sono poi peggiori. L'unica agenzia che viene a sapere che il medico di medicina generale segue un determinato paziente siamo noi, ma non è vero il contrario.

Avere sistemi di non adeguata integrazione rischia di essere dannoso per il paziente.

E' difficile perchè magari viene dato dal MMG un determinato farmaco, poi il paziente va al DSM e ottiene una prescrizione diversa, questo non può far altro che disorientare il paziente.

I pazienti seguiti nei DSM hanno un livello di salute fisica molto inferiore rispetto alla popolazione generale. Devono esserci relazioni intense con i medici di medicina generale.

Studio condotto dall'OMS sui disturbi depressivi venivano date indicazioni precise sul possibile trattamento e gestione dei pazienti con disturbi mentali. Bisogna migliorare la cura dei pazienti psichiatrici nell'assistenza primaria.

Migliorare i modelli di rinvio a livelli superiori, cercare di capire I criteri di invio, attraverso quali strade in modo che il percorso sia più facile e incisivo.

Gli ostacoli principali sono:

funzione data dal sistema sanitario nazionale alla medicina generale, ben diversa da ciò che accade in altri paesi in cui la general practice ha un ruolo fondamentale nella cura dei pazienti, tutto è collegato alla medicina generale ed è al servizio di essa, favorendo collaborazione tra professionisti.

In altri paesi come l'Inghilterra la general practice è il nodo centrale, il cardine del sistema sanitario e vi convogliano moltissime risorse.

Questo accade in parte nei poliambulatori dove è possibile collaborare sulla base di riconoscimento interpersonale.

I medici di medicina generale hanno difficoltà a comunicare con I medici psichiatri anche per un problema di linguaggi specifici; inoltre il nostro sistema sanitario prevede una via stigmatizzante per il paziente con problemi psichiatrici, via che è destinata a complicare molto la strada di comunicazione tra pazienti e medici.

 

Gli antidepressivi nella pratica clinica tra prove di efficacia e buonsenso clinico

C. Barbui

Che cos’è la Depressione?

Contrariamente a quanto si possa pensare, non è facile rispondere a questa domanda.

La terminologia è complessa. All’interno dell’enorme gruppo delle Sindromi Depressive sono distinte Forme Minori e Forme Maggiori, vi è la Distimia, sulla quale si hanno ancora poche certezze.

Per porre diagnosi il DSM prevede un elenco di sintomi, tra cui l’umore depresso, la diminuzione degli interessi, la perdita di peso, l’insonnia, il rallentamento psicomotorio, l’affaticabilità, l’autosvalutazione, i sensi di colpa, i pensieri di morte, e definisce dei criteri temporali, distinguendo così le diverse forme del disturbo. Per cui se sono presenti da 2 a 4 di questi sintomi che durano per più di 2 settimane è Depressione Minore; se ce ne sono da 3 a 4 che durano per anni è Distimia; se ci sono più di 5 di questi sintomi è Depressione Maggiore. A sua volta la Depressione Maggiore viene classificata in Lieve, Moderata, Grave, a seconda di quanti sintomi in più rispetto ai 5 necessari sono presenti.

Nella classificazione dell’ICD-10 è più o meno la stessa cosa. Ci sono dei sintomi cardine, come ad esempio la depressione del tono dell’umore, la perdita di interessi, l’affaticabilità, e poi c’è tutta una sere di sintomi associati o accessori, sovrapponibili con quelli elencati nel DSM.

L’ICD-10 definisce la Depressione come Lieve se sono presenti 4 sintomi, come Moderata se i sintomi sono da 5 a 6, come Grave se sono più di 6.

Si può dire che raramente lo psichiatra lavora così. E’ difficile mettere in pratica questa procedura per fare diagnosi nel lavoro concreto di ogni giorno.

In merito a questo discorso può essere utile citare le Linee Guida del Governo Inglese sul trattamento della Depressione alle quali è allegata una piccola postilla che afferma quanto sarebbe giusto valutare il paziente secondo i criteri ed i sintomi elencati, ma anche quanto è improbabile che nella pratica clinica si riesca a ragionare veramente in questo modo; nella pratica clinica si usano degli altri criteri che hanno a che fare con il livello di autonomia del soggetto, il supporto sociale, la disabilità e una serie di altre considerazioni che sfuggono ai vari criteri diagnostici.

Un altro aspetto molto importante riguarda la conoscenza che si ha circa l’efficacia dei farmaci antidepressivi che, nonostante siano in uso da più di 50 anni e ve ne siano sempre di nuovi, alimentano una delle questioni centrali della letteratura: quanto servono i farmaci antidepressivi nella cura della depressione maggiore?

Si cerca di dare una risposta a questa domanda con le sperimentazioni randomizzate. Sono studi che dividono i pazienti in due gruppi: un gruppo assume l’antidepressivo e l’altro gruppo non lo assume. Importante è la casualità con cui i pazienti vengono suddivisi e che permette di creare due gruppi idealmente molto simili. Al termine dell’indagine si va a valutare chi sta meglio e se ci sono differenze di effetto che vengono attribuite al trattamento farmacologico.

Ci sono poi delle metodologie per raccogliere tutte le sperimentazioni su di un determinato argomento e presentarle sottoforma di rassegne o revisioni che hanno la caratteristica interessante di essere complete ed esaurienti.

Il problema è che si tende ad includere in queste rassegne solo le sperimentazioni pubblicate, non considerando tutte quelle non rese note perché risultate negative.

Un altro aspetto critico delle rassegne è la difficoltà di riportare nella pratica clinica il significato di risultati espressi come punteggi.

Un lavoro svolto presso l’Università di Verona e pubblicato nel 2008 ha preso in considerazione un farmaco antidepressivo, la paroxetina, e ha raccolto tutte le sperimentazioni randomizzate paroxetina verso placebo che si proponevano di valutare l’efficacia di questo farmaco; non ho considerato solo le ricerche pubblicate, ma ha incluso nella metanalisi anche le sperimentazioni non pubblicate.

Sono state identificate 29 sperimentazioni pubblicate e 11 non pubblicate, con alcune migliaia di pazienti coinvolti.

36 studi su 40 includevano soggetti con Depressione Maggiore di intensità da moderata a Grave.

Quasi tutti erano studi condotti nel setting specialistici.

Una prima informazione è che dopo circa 12 settimane (durata media di queste sperimentazioni) il numero dei soggetti che riceve l’antidepressivo che interrompono il trattamento è uguale al numero dei soggetti che interrompono il placebo.

Il "tenere il trattamento" è un aspetto importante da prendere in considerazione: quando il paziente tiene il trattamento vuol dire che lo tollera e che gli è di aiuto.

Un secondo elemento di riflessione che emerge è che dopo 12 settimane di trattamento circa il 53% dei pazienti che assumono paroxetina sta meglio rispetto al 42% dei pazienti che stanno meglio pur assumendo il placebo.

Questo vuol dire che si espongono 100 persone affette da Depressione Maggiore di intensità Media o Grave all’antidepressivo per dare un beneficio netto legato al farmaco attivo a 11 di esse.

Nel 2008 è stato pubblicato un altro lavoro che valuta il tasso di risposta agli antidepressivi rispetto alla durata e alla gravità della Depressione dei pazienti e rispetto al placebo.

Nelle forme più Gravi di Depressione vi è una differenza clinicamente evidente anche se non così significativa rispetto al placebo, differenza che invece non si riscontra nelle forme Moderate e Lievi.

La cosa che ha più destato interesse è che questo non è legato al fatto che più la Depressione è Grave e più l’antidepressivo è efficace, ma è legato al fatto che più la Depressione è Grave e meno l’effetto placebo è evidente.

Pertanto è l’effetto placebo che diminuisce e non l’efficacia del trattamento attivo che cresce.

Se l’efficacia degli antidepressivi è relativamente modesta ed è documentata solo nella Depressione Maggiore di intensità Moderata o Grave (dati, questi, emersi da trials e sperimentazioni che tentano di rispecchiare al meglio la realtà ma che la realtà non sono), come si fa ad utilizzare queste informazioni sperimentali nella pratica clinica quotidiana, dove è così problematico riuscire a definire categoricamente i pazienti?

La risposta è molto semplice: si danno gli antidepressivi a prescindere da questi elementi di diagnostici e di gravità.

Questo è stato evidenziato in uno studio fatto dall’Università di Verona in cui sono state esaminate le terapie dei pazienti ricoverati nel reparto di Psichiatria alla dimissione nel corso di diversi anni e si è notato un progressivo aumento dell’uso di antidepressivi.

In Canada, è stato visto nella popolazione generale che il 67% dei soggetti che assumono antidepressivi non solo non sono depressi ma non hanno neppure una diagnosi psichiatrica.

Studi a livello europeo hanno però evidenziato anche un altro spetto: è vero che gli antidepressivi sono dati a chi non è depresso, ma è anche vero che tra i soggetti depressi solo una piccola parte viene trattato con gli antidepressivi.

E’ poi opinione di molti che gli antidepressivi abbiano tra di loro un’efficacia simile, quindi la scelta del farmaco si dovrebbe basare su altri parametri che non siano l’efficacia stessa ma, ad esempio, la discussione con il paziente rispetto agli effetti collaterali.

Altri sono gli aspetti fondamentali da tenere presenti parlando di antidepressivi.

Perché il trattamento sia efficace bisogna darlo a dosi terapeutiche; non ha alcun senso dare più antidepressivi contemporaneamente; il trattamento bisogna proseguirlo per mesi che si stimano essere 6-8 dopo la fase acuta prima di pensare alla sospensione; non bisognerebbe mai interrompere bruscamente il farmaco perché questo potrebbe dare luogo a sintomi rebound.

Ad esempio le Linee Guida del Governo Inglese partendo dal presupposto che gli antidepressivi sono tutti simili, consigliano di scegliere tra gli SSRI, possibilmente prescrivendo il più economico e preferibilmente, se esiste, il suo generico.

Se questa terapia non funziona cosa bisogna fare?

Prima di tutto accertarsi che il trattamento venga assunto in modo corretto (la prima causa di inefficacia dell’antidepressivo è la non compliance del paziente alla terapia), eventualmente aumentare le dosi (anche se sembrerebbe che chi non risponde al dosaggio minimo efficace, difficilmente risponderà all’aumento della dose), ed infine cambiare il farmaco.

Certi studi dicono di cambiare antidepressivo dopo un mese di trattamento inefficace, ma forse nella pratica clinica un mese è un po’ poco, bisognerebbe considerare la situazione da paziente e paziente.

Se il paziente non risponde all’SSRI che farmaco si può dare?

Vi è uno studio pubblicato qualche anno fa sul New England Jurnal of Medicine, che ha riunito un gruppo di più di 700 pazienti che non rispondevano al Citalopram e ha prescritto loro altri antidepressivi: Bupropione, Sertralina e Venlafaxina.

Il primary outcome è stato il miglioramento dei sintomi depressivi: dopo 14 settimane dall’inizio di uno qualsiasi dei nuovi farmaci circa 1 paziente su 4 stava meglio.

Potrebbe,quindi, avere senso uno switch anche all’interno della classe degli SSRI (Citalopram→Sertralina), anche se dal punto di vista farmacologico qualcuno potrebbe criticare.

La Venlafaxina non è considerata un farmaco di prima scelta, non tanto per l’efficacia quanto per la tollerabilità; sembra che i pazienti tendano ad interrompere di più questo farmaco rispetto ad altri, c’è il problema della Pressione Arteriosa che deve essere tenuta sotto controllo e ci sono dati anche sul fatto che tra gli antidepressivi la Venlafaxina potrebbe avere un rischio importante nello slatentizzare ideazioni di tipo autolesivo.

Questo è un aspetto molto importante che riguarda gli antidepressivi e di cui oggisi parla molto.

Il problema è se gli antidepressivi, attraverso forse un meccanismo di irritabilità, acatisia, slatentizzazione di inibizioni che vengono meno, possano essere causa di un aumento delle ideazioni suicidiarie dei pazienti.

Gli SSRI aumentano di più il rischio di suicidio rispetto ad altri farmaci?

Si posso andare a recuperare i trial che studiano gli SSRI verso placebo e andare a vedere se tra i pazienti coinvolti nello studio ci sono stati casi di suicidio, cioè le sperimentazioni che valutano l’efficacia di questi farmaci possono essere usate per contare le morti per suicidio o il numero di gesti autolesivi.

Considerando che comunque il suicidio è un evento raro è sarebbe necessario prendere in considerazione più trial possibili per ottenere dati significativi.

Questo è stato fatto con uno studio i cui dati sono stati resi pubblici nel dicembre del 2006. Sono state considerate tutte le sperimentazioni esistenti su antidepressivi verso placebo ed in alcuni casi anche verso farmaci di confronto, non solo in pazienti con Depressione Maggiore, ma anche in altre situazioni psichiatriche.

Sono state incluse 372 sperimentazioni randomizzate.

In tutte queste sperimentazioni ci sono state solo 8 morti per suicidio.

Ma se si osservano i tentativi di suicidio e le ideazioni suicidiarie, i numeri cominciano ad essere più importanti.

In seguito a questa revisione è stata fatta una nuova scoperta.

La relazione antidepressivo-rischio di suicidio è mediata dall’età: il rischio di avere ideazioni autolesive decresce al crescere dell’età.

Quindi gli antidepressivi in età pediatrica o in giovani adulti sembrerebbero aumentare il rischio di ideazioni autolesive, negli adulti avere un effetto o neutro o protettivo, in soggetti al di sopra dei 65 anni effetto francamente protettivo.

Nel 2007, sul New England Jurnal of Medicine è stato descritto come, in virtù di questa analisi, dal 2007 appunto, negli USA, su tutte le confezioni di antidepressivi vi è espressamente riportato di porre particolare attenzione nel trattare con tali farmaci i soggetti in età pediatrica ed i giovani adulti sino ai 25 anni di età.

Sempre grazie a tale metanalisi, si possono evidenziare delle differenze tra i diversi antidepressivi.

Per esempio, la Sertralina e la Fluvoxetina sembrerebbero ridurre il rischio ideazioni autolesive, diversamente dalla Paroxetina che invece sembrerebbe aumentarlo.

Vi è tutt’ora in corso uno studio in Italia che sta raccogliendo tutte quelle sperimentazioni che confrontano gli antidepressivi tra di loro, per valutare, in una sorta di network di relazioni, tutti i farmaci in modo più completo, e garantire come prodotto finale un ampio spettro di scelta tra tutti i diversi antidepressivi basato su una gerarchia di efficacia con basi solide e comprovate.

 

La prescrizione degli antidepressivi nella Regione Liguria: dati quali-quantitativi e di confronto con l’Italia.

Sarteschi

Gli antidepressivi (AD) rappresentano una parte importante delle prescrizioni a carico del SSN sia in Liguria che presso la ASL 5.

Nel primo semestre 2008 la spesa farmaceutica relativa ai farmaci AD si orienta come esposto di seguito.

Gli AD rappresentano il 3,8% della spesa farmaceutica in Italia, il 5,5% in Liguria e il 6,9% nella ASL 5. Da tali dati si evince che nella nostra Regione vi è un intervento economico da parte del SSN maggiore rispetto alla media nazionale: si tratta di una spesa complessiva di 4-4,5 milioni di euro.

Per quanto riguarda la suddivisione della spesa complessiva nell’ambito delle diverse sottoclassi di AD si è osservato — sia in Regione, sia nella ASL 5 — che la preferenza accordata ai triciclici è ormai ridotta al 3%, mentre è pari al 60% circa la scelta degli SSRI classici; una grande fetta di mercato, inoltre, è oggi occupata dai nuovi antidepressivi come la duloxetina e la venlafaxina.

Prendendo in considerazione gli SSRI, e analizzando il numero di dosi consumate per 1000 abitanti, sono emersi i seguenti dati:

  • Media italiana: 150 dosi per 1000 abitanti
  • Liguria: 242 dosi per 1000 abitanti
  • ASL 5: 323 dosi per 1000 abitanti

 

In Liguria vi è dunque un consumo di SSRI decisamente maggiore rispetto alla media nazionale: questo dato è probabilmente spiegato dal grande numero di anziani presenti in questa Regione.

Inoltre nello spezzino vi è un consumo di SSRI molto maggiore rispetto alla media ligure: la ASL 5 risulta così molto più simile alla ASL di Massa Carrara, di Pisa, di Prato e di Pistoia, ovvero a tutta l’area costiera toscana che in qualche modo fa capo alla scuola psichiatrica pisana e che vede al suo interno un notevole consumo di SSRI.

Analizzando le prescrizioni mediche nell’ambito degli SSRI, si è potuto notare che il mercato è aumentato soprattutto per quei farmaci che hanno perso la copertura brevettuale (è ad esempio il caso di escitalopram, che ha visto un forte aumento delle prescrizioni). Al contrario, farmaci consolidati e meno sponsorizzati dalle

ditte farmaceutiche stanno perdendo quote di mercato. Si tratta di un fenomeno che riguarda non solo l’Italia, ma anche la Liguria e l’area spezzina.

All’interno della ASL 5 i farmaci attivi sul sistema nervoso centrale prescritti a carico del SSN sono destinati, nel 60-70% dei casi, a soggetti di sesso femminile. La metà di questi farmaci sono assunti da anziani.

Nel comune di La Spezia, un cittadino su cinque assume, a carico del SSN, farmaci attivi sul sistema nervoso. Valutando però la continuità terapeutica è emerso un profilo di consumo di tipo sporadico (1-2 scatole in un anno) da parte di gran parte degli assistiti.

Nel caso specifico degli AD, il trend di maggior consumo femminile è ancora più accentuato (71% delle prescrizioni).

La parte più cospicua del consumo di AD rientra nella fascia d’età degli anziani; vi è però un consumo elevato anche nella fascia giovanile (15-44 anni) che, anche se con un trend in discesa, è molto vicino al consumo nella fascia intermedia (45-64 anni).

Analizzando il consumo per fasce d’età, espresso come spesa pro capite, nei tre Distretti in cui è suddivisa la ASL 5 si osserva un sostanziale allineamento, pur con qualche differenza: ad esempio, per quanto riguarda la fascia giovanile il consumo è maggiore nel distretto della Val di Vara; nella fascia degli anziani è presente un consumo più elevato nella Val di Magra.

 

I progetti in Liguria.

G. Tibaldi

Il Dott. Tibaldi introduce un progetto finanziato dal Ministero della Salute, dal titolo "Migliorare le capacità di riconoscimento e gestione della depressione in medicina generale".

Il progetto, appena avviato, vedrà coinvolti almeno due distretti della Liguria, quello di Savona e quello della Spezia nella zona di Sarzana ed è centrato sul concetto di appropriatezza clinica, che nel trattamento della depressione in Medicina Generale è un sinonimo di qualità.

Quando si parla di appropriatezza clinica bisogna presupporre che vi sia anche un’equità di accesso al SSN.

L’equità di accesso è equità orizzontale: è la possibilità per tutti i cittadini di arrivare a contatto col SSN a prescindere dalla loro caratteristiche sociali, personali o di età.

Vi sono SSN che sono conosciuti per la loro iniquità di accesso: è il caso ad esempio del SSN americano, che presenta soglie di accessibilità estremamente pesanti.

Ma problemi di accessibilità esistono anche nel SSN italiano: vari studi dimostrano che la deprivazione sociale condiziona l’accesso, la tempestività della diagnosi, l’evoluzione prognostica e la mortalità.

In tema di appropriatezza clinica per la depressione o per qualunque altra patologia, come ad esempio il diabete, è importante fare riferimento anche al concetto di equità verticale, ovvero al principio secondo cui qualunque malato, a prescindere dalle proprie condizioni personali e sociali, dovrebbe vedersi garantito un pari livello di qualità nel trattamento.

Uno studio al di fuori dell’ambito psichiatrico, condotto su 53000 pazienti afferenti ai Medici di Medicina Generale ha dimostrato che gli indicatori di qualità del trattamento del diabete erano influenzati dalla deprivazione sociale, dal gruppo etnico di appartenenza e dal sesso. Ci sono dunque fattori non clinici e non legati alle capacità professionali dei medici che incidono spesso significativamente sui parametri di qualità e di appropriatezza del trattamento che viene offerto.

La valutazione dell’appropriatezza clinica nel trattamento della depressione non può essere disgiunta dagli indicatori di appropriatezza economica ed organizzativa.

Molto spesso nell’ambito clinico si è portati a pensare che la maggior parte degli interventi debbano collocarsi nell’area della qualità dell’offerta (qualificazione dei clinici, linee guida e formazione), ma questo è solo uno dei possibili ambiti su cui si può lavorare per modificare il livello di appropriatezza.

Il progetto di miglioramento dell’appropriatezza passa attraverso una collaborazione tra Regione e Medici che consentirà di mettere a punto tutti gli indicatori necessari.

Gli obiettivi principali del progetto, che ha la Liguria come capofila, sono i seguenti:

  1. Revisione della letteratura al fine di stabilire quali sono gli strumenti di diagnosi precoce più efficaci da utilizzare nella primary care per arrivare a un miglioramento dei livelli di riconoscimento precoce.
  2. Revisione congiunta delle strategie di gestione della depressione nell’ambito della Medicina Generale, con particolare riferimento al coinvolgimento delle figure sanitarie non mediche. Molti studi inglesi affermano che è molto importante che il medico, nella gestione dei soggetti depressi, abbia al suo fianco figure infermieristiche che svolgano funzioni di contatto con i pazienti, ad esempio nel periodo delle prime settimane di trattamento, quando è più alto il rischio di sganciamento dal trattamento.
  3. Definizione di linee guida specifiche per l’implementazione dei suggerimenti per la misurazione e il miglioramento dell’appropriatezza emersi da queste sperimentazioni effettuate in almeno due contesti liguri.

 

M. Vaggi

La gestione dei rapporti tra Psichiatria e Medicina Generale in un’ottica di sanità pubblica deve essere attuata affiancando al tentativo di perseguire l’appropriatezza clinica un’importante trasformazione organizzativa, centrata su una modifica della quota di ingresso al servizio.

Il nostro distretto (circa 100000 abitanti) comprende un’area urbana ad alta densità abitativa in cui è presente una forte sofferenza sociale e un’area rurale nell’entroterra.

In questa popolazione è possibile prevedere che una persona su quattro abbia un quadro clinico degno di attenzione: di queste, 9300 soffrono di un disturbo diagnosticabile (5000 hanno un Disturbo d’Ansia, 3500 hanno un Disturbo dell’Umore che meriterebbe un trattamento).

Si tratta dunque di un problema che non riguarda solo la psichiatria — in tutto il mondo occidentale il servizio psichiatrico impatta per l’1-2% della totalità delle patologie psichiatriche — e che va risolto attraverso un collegamento con l’esterno.

Secondo i dati dell’OMS, infatti, nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di disabilità nel mondo dopo le patologie cardiovascolari: si dovrà quindi affrontare una vera e propria emergenza sanitaria. Con numeri di questo tipo è impensabile cercare di rispondere al problema esclusivamente aumentando le risorse specialistiche.

L’idea di base a cui ispirarsi per risolvere il problema potrebbe essere quella di creare dei criteri di equità che portino al trattamento nei setting specialistici quei pazienti che realmente hanno bisogno di uno specialista.

Se il punto cruciale è dunque l’accesso al servizio, allora la fase di valutazione non può più essere un’attività di routine svolta da tutto il personale, ma deve essere una funzione specializzata svolta da alcuni operatori, che diventano così la porta di ingresso per tutti i pazienti che afferiscono al servizio.

In un sistema in cui le risorse scarseggiano chi entra nel servizio deve avere il miglior trattamento possibile, ma chi esce deve essere messo in condizione di essere seguito adeguatamente, attraverso un collegamento con la Medicina Generale.

 

L. Ghio

Il Dott. Ghio descrive una ricerca, presentata al Ministero della Salute nell’ambito del bando per giovani ricercatori, intitolata "Riconoscimento precoce e gestione della comorbidità depressiva nel paziente anziano: strumenti di liaison tra Medici di Medicina Generale e Dipartimenti di Salute Mentale"

Tale ricerca si focalizza sul problema dell’anziano depresso in comorbilità con una patologia somatica cronica con l’obiettivo di valutare se una migliore collaborazione tra Medici di Medicina Generale e

Dipartimenti di Salute Mentale possa migliorare il riconoscimento precoce della depressione e la gestione della patologia stessa.

Le unità operative coinvolte nella ricerca, con il supporto della Regione Liguria, sono le seguenti:

  • Azienda Ospedaliera San Martino — ASL3 Genovese
  • Centro Studi e Ricerche in Psichiatria, ASL2 Torino Nord
  • ASL5 La Spezia

 

Di seguito sono esposte le premesse della letteratura che hanno portato alla proposta della ricerca.

La depressione è il disturbo psichico più comune nei pazienti al di sopra dei 65 anni di età, con una prevalenza che va dal 10 al 25% dei casi: la percentuale più alta si riferisce ai pazienti anziani che hanno una patologia somatica cronica associata.

La depressione negli anziani ha serie conseguenze ed elevati costi sanitari. Il rischio di suicidio è uno dei problemi fondamentali: in Italia 4000 persone/anno si tolgono la vita e la metà di questi sono anziani.

Il rischio di istituzionalizzazione è elevato, alta la frequenza di ricovero: sulla totalità di pazienti ricoverati per depressione il 30% è sopra i 65 anni.

Solo pochi pazienti vengono seguiti dal CSM mentre la maggior parte viene seguita dai MMG.

Nei pazienti anziani la depressione viene riconosciuta in meno del 20% dei casi da parte dei medici di medicina generale e in meno del 10% dei pazienti ricoverati in ospedale per altre patologie.

In letteratura, il principale intervento proposto per migliorare il riconoscimento e il trattamento della patologia depressiva nel paziente anziano è lo sviluppo di una rete collaborativa tra MMG e Servizi di salute mentale (progetto IMPACT, Improving Mood Promoting Access to Collaborative Care Treatment). L’intervento proposto dal progetto IMPACT consiste nella creazione di un team formato da un responsabile della terapia — molto spesso un’infermiera professionista — dal medico curante del paziente, da un consulente psichiatra e da un medico di medicina generale di liaison.

Studi recenti evidenziano che nel paziente anziano il problema principale è rappresentato dalla depressione minore: avanzando con l’età diminuisce la frequenza di depressione maggiore e aumenta quella di depressione minore.

È frequente nell’anziano la presenza di una depressione in comorbilità con una patologia somatica: questo aspetto rappresenta il fulcro della ricerca, perché una depressione non trattata può portare a gravi esiti non solo in termini di patologia psichica ma anche per quanto concerne la patologia somatica.

L’adesione al trattamento di patologie somatiche per cui è richiesta una partecipazione attiva da parte del paziente — ad esempio diabete o BPCO — è minore nel paziente depresso.

Per quanto riguarda la mortalità per patologie somatiche nel paziente depresso, classico è l’esempio degli accidenti cardiovascolari: la mortalità di un paziente che ha subito un infarto ed è affetto da depressione è 5 volte maggiore rispetto a quella di un paziente infartuato non depresso.

Vi sono diverse possibili cause della difficoltà di riconoscimento e gestione della depressione nel paziente anziano affetto da patologia somatica:

  • Nell’anziano vi è una prevalente presentazione della depressione con sintomi somatici, per questo motivo alcuni Autori l’hanno definita "depressione senza tristezza".
  • Potrebbe esservi una focalizzazione da parte dei medici soprattutto sulla patologia fisica e una sorta di giustificazione della depressione come reazione fisiologica alla patologia stessa o anche alla senilità.
  • Potrebbe esistere una difficoltà da parte dei MMG ad informare i pazienti anziani della presenza di una diagnosi di depressione e nel contempo potrebbe esservi una negazione dei sintomi depressivi da parte dei pazienti, a causa dello stigma che accompagna questi disturbi.
  • I MMG spesso sono costretti a colloqui troppo brevi: è stato evidenziato che quando si affrontano tematiche relative alla salute mentale i tempi medi sono dell’ordine di pochi minuti e vi è un deficitario coordinamento tra i servizi di medicina di base e i servizi di salute mentale.
  • Infine, nel paziente anziano l’efficacia dei trattamenti antidepressivi generalmente si manifesta in ritardo rispetto alla media: la remissione si ha di solito intorno alle 12 settimane.

 

Obiettivo principale del lavoro è migliorare il riconoscimento precoce e l’appropriatezza dei trattamenti offerti al paziente anziano affetto da comorbilità depressiva, cercando di valutare quali sono gli strumenti più adatti a questo tipo di paziente e quelli più adattabili alla nostra realtà sanitaria.

La ricerca si svolgerà in tre fasi:

  1. In fase preparatoria avranno luogo indagini qualitative finalizzate a valutare nella realtà clinica quali sono le principali difficoltà di riconoscimento precoce e di gestione della depressione nel paziente anziano, attraverso metanalisi sugli strumenti diagnostici e sulle strategie di trattamento.
  2. Nella seconda fase, una volta scelto dal gruppo di lavoro uno strumento diagnostico specifico per il paziente anziano, verrà svolto uno studio prospettico a 3 mesi per valutare la variazione della capacità di riconoscimento da parte del MMG in seguito all’introduzione dello strumento stesso. Come indicatore per la valutazione verrà usata molto probabilmente la GDS (Geriatric Depression Scale) e un’intervista al medico di base, cieco rispetto ai risultati della GDS stessa.
  3. Infine verrà attuata una verifica dell’applicabilità e dell’efficacia di una rete collaborativa tra MMG e Salute Mentale nel riconoscimento e nella gestione del paziente anziano depresso in comorbidità con patologia somatica cronica, sul modello già sperimentato in altri paesi (progetto IMPACT), mediante uno studio prospettico a 12 mesi.

Lo studio consentirà inoltre di raggiungere alcuni obiettivi secondari:

  • Creazione di eventi informativi e formativi rivolti ai medici di base
  • Valutazione epidemiologica della prevalenza della comorbidità depressiva nel paziente anziano
  • Valutazione dell’efficacia della rete collaborativa di cura nel migliorare il grado di adesione al trattamento farmacologico antidepressivo e della patologia somatica
  • Valutazione della correlazione tra miglioramento della sintomatologia depressiva e riduzione della disabilità indotta dalla patologia somatica
  • Valutazione della soddisfazione dei pazienti rispetto agli interventi proposti.

 

Report a cura di Paola Magioncalda, Andrea Presta, Linda Vassallo

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