Un eremo non è un guscio di lumaca

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7 gennaio, 2020 - 09:44
Autore: Adriana Zarri
Editore: Einaudi, Torino
Anno: 2011
Pagine: 256
Costo: €10.50

Adriana Zarri (1919-2010), teologa e saggista, ha lavorato a questo libro fino agli ultimi giorni della sua vita. Nel volume sono raccolti alcuni scritti storici, come "Erba della mia erba", e articoli scritti per varie riviste. Ad un certo punto della sua vita — forse ad una svolta esistenziale — fece una scelta coraggiosa e controcorrente: decise di vivere in un cascina di campagna in totale solitudine, recuperando la tradizione antica della vita eremitica e cristiana. In questo libro racconta questa sua avventura: quando prese questa radicale decisione era il settembre 1975.

La comunicò agli amici con una lettera che annunciava un trasloco non "dovuto a motivi pratici", scriveva, ma motivato da "una scelta di vita eremitica. La mia nuova residenza sarà infatti una vecchia cascina solitaria, dove trascorrere i restanti anni della mia vita nella preghiera e nel silenzio".

Introduce bene questi scritti Rossana Rossanda, che aveva conosciuto Adriana a Roma durante la campagna per l’aborto, a cui anche lei — sebbene cristiana e teologa — aveva aderito; spesso andava a trovarla nel suo eremo, il Molinasso, forse un vecchio mulino: era la cascina prescelta, sulle colline intorno ad Ivrea, isolata e immersa nella natura. Dimessi gli abiti di città, vestiva gli abiti semplici di foggia contadina e si divideva tra varie occupazioni: scriveva, ma accudiva anche gli animali, riparava la vecchia cascina, rendendola nel tempo vivibile e accogliente, coltivava l’orto che le garantiva una certa autosufficienza. Aveva una stanza per gli ospiti, e riceveva spesso gli amici. Ma trascorreva anche lunghi periodi in solitudine eremitica, austera e senza comodità, raccolta in preghiera e meditazione, affrontando, in particolare d’inverno, non poche difficoltà dal punto di vista pratico. Il Molinasso appariva ai visitatori come luogo molto quieto e "invidiabile" nei giorni estivi: ma Adriana passava giorni, se non settimane, senza vedere nessuno. Diceva che l’unica persona che vedeva con regolarità era il postino. La campagna, però, è spesso anche territorio di caccia e di scorribande da parte di disperati, che una notte sfondarono la sua porta. Forse l’avevano sorvegliata; era un donna sola, isolata dalla comunità, e crudelmente la malmenarono nonostante fosse inerme, non credendo che vivesse in povertà e non avesse soldi: fu la postina a trovarla due giorni dopo, traumatizzata e ferita.

 



 

 

Questo incidente, che poteva costarle la vita, accese polemiche tra i suoi amici, tormentati da sensi di colpa: era chiaro che nessuno poteva vivere fuori dal mondo, in particolare una donna; non poteva stare senza protezione: per lei questa aggressione rappresentò la perdita di ciò che considerava orgogliosamente come un punto di arrivo: la solitudine vissuta come spazio di elezione. Il trauma e quelle tristi ore vissute tra la vita e la morte l’avevano ferita, indebolita. Poiché non aveva denaro, avendo deciso di vivere in povertà e del suo lavoro quotidiano, non sapeva dove andare. 
Ricevette varie offerte di ospitalità, da conoscenti e amici, ma la perdita della cascina in collina, con i suoi spazi aperti, era difficile da rimpiazzare in un contesto meno isolato. Alla fine, dopo molto girovagare, le offrirono una proprietà diocesana abbandonata, nei pressi di un paesino torinese, affacciata verso la campagna: qui ricompose il suo giardino, dove fiorivano molte rose. Oltre a coltivare, potare e nutrire gli animali, Adriana ha scritto molto e ha messo assieme molte persone in discussioni e convegni, intervallati da periodi di preghiera solitaria. La teologia di Adriana è sicuramente una teologia della salvezza: ad esempio rifiutò il concetto di inferno e finì per dichiararsi "eretica". Non amava né Paolo né Agostino e per le sue meditazioni attingeva direttamente alle scritture.

La prosa di questi testi è limpida e trasparente, diretta, senza fronzoli o giri di parole: racconta di esperienze di vita inframmezzate da riflessioni ampie sul senso della vita e la percezione di Dio, o meglio del divino nella realtà umana. Lo sguardo, francescanamente, è sempre è rivolto alla natura e ai suoi cicli, all’amore per gli animali e il creato. Per molti aspetti mi ha ricordato gli scritti di un maestro buddista zen, Thich Nath Han, storico del buddismo, ma anche poeta e giardiniere, che riflette costantemente sugli aspetti della natura in cui riflette e colloca il sé del meditante. L’unica vera sostanziale differenza tra loro è che per il maestro zen la comunità è l’elemento centrale della pratica buddista, mentre l’aspetto devozionale più intenso Adriana lo vive nella preghiera solitaria. Sembra che, al di là della ristretta cerchia degli amici, la solitudine sia l’estrema difesa: sia anzi l’unica vera sfida che Adriana muove alle ingerenze pesanti del clero e della comunità cattolica legata al papa, che soffocano la sua vocazione libera, protesa verso il creato e verso gli altri uomini.

Il libro si chiude con i ricordi dell’epoca felice: grande è infatti il rimpianto dell’eremo del Molinasso, e del progetto di una vita eremitica, così faticosamente conquistata: "le realtà nascono e muoiono; e quando non vogliono morire, non sono più quelle, si degradano. Meglio seppellire anche questa mia vita con me; e che qui ci venga chi vuol venire, o magari nessuno. E il Molinasso morirà dolcemente, abbracciato dai rovi. Ecco si fendono e si sgretolano i muri, crollano e si scoperchiano i tetti; il cielo ci ride sopra, il sole ci cade dentro, il vento gioca con gli infissi che sbattono… E anche quando tutto sarà crollato, il rudere fiorirà e vivrà da ogni parte: nell’erba, nel groviglio delle spine, nell’intanarsi delle talpe, nel guizzo delle lucertole … E’ la morte, è la vita. E d’inverno la neve placherà quanto c’è stato di angoscioso nel morire, e preparerà il marzo delle primule". Un felice esempio di ciò che i buddisti chiamano "impermanenza". Una grande lezione di vita da una donna intelligente e piena di coraggio.

Un grazie di cuore ad Adriana Zarri per la sua testimonianza di vita e di coraggioso lavoro intellettuale.

 

Ecco l’epigrafe scritta da lei stessa :

Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.

 

Biografia

È nata nel 1919 a San Lazzaro di Savena, nelle immediate vicinanze di Bologna, figlia di un mugnaio (già bracciante), e della figlia di un capomastro.
Negli anni giovanili è stata dirigente dell'
Azione Cattolica; dal 1952 è giornalista pubblicista.
Dopo aver vissuto in diverse città italiane (
Roma, soprattutto), dal settembre 1975, per una scelta di tipo eremitale, si è ritirata prima ad Albiano, poi a Fiorano Canavese, e infine, dalla metà degli anni '90, a Strambino, sempre in provincia di Torino.

Ha collaborato con molte testate cattoliche: L'Osservatore RomanoRoccaStudiumPolitica oggiSette giorniIl RegnoConciliumServitium e Adista. Ha collaborato con i periodici Avvenimenti (con la rubrica Diario inutile) e MicroMega. Nel quotidiano Il Manifesto aveva una rubrica domenicale, Parabole. In passato partecipò anche come ospite fissa alla trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro.

Ha portato avanti una teologia antitradizionalista, dubitando dell'esistenza dell'Inferno in quanto punizione non educativa e riproponendo una visione pessimistica della morte. Ha preso pubblicamente le distanze tanto dal disinteressamento nei confronti della religione quanto da movimenti conservatori comeComunione e Liberazione oppure Opus Dei.

Il 6 dicembre 1995 le è stato conferito il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana. "Premio speciale Testimone del Tempo" assegnato dal Premio Acqui Storia; "Premio Matilde di Canossa" della Provincia di Reggio; "Premio Minerva 1989" nella sezione "Ricerca scientifica e culturale"; "Premio Igino Giordani 2002" del comune di Tivoli.

Per il suo volume "Vita e morte senza miracoli di Celestino VI" ha vinto, nel 2008, la quattordicesima edizione del "Premio Letterario Domenico Rea", nella sezione "Narrativa" e la quarta edizione del "Premio letterario Alessandro Tassoni", sempre per la sezione Narrativa.

 

Bibliografia

  • Giorni feriali, IPL, Milano, 1953
  • L'ora di notte, SEI, Torino, 1960
  • La chiesa, nostra figlia, La Locusta, Vicenza, 1962
  • Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualità, Borla, Torino, 1964;
  • Teologia del probabile, Borla, Torino, 1967;
  • Tu. Quasi preghiere, Gribaudi, 1973
  • È più facile che un cammello..., Gribaudi, 1975
  • Dodici Lune, Camunia, 1989
  • Figlio perduto. La parola che viene dal silenzio, La Piccola, 1991
  • Nostro Signore del deserto. Teologia e antropologia della preghiera, Cittadella, 1991
  • Quaestio 98. Nudi senza vergogna, Camunia, Milano, 1994
  • Dedicato a, Frontiera, 1988
  • Erba della mia erba. Resoconto di vita, Cittadella, 1998
  • Dio che viene. Il Natale e i nostri natali, La Piccola, 2007
  • Vita e morte senza miracoli di Celestino VI, Diabasis, 2008
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