Antonello e Freud - Visita ad un museo di Romolo Rossi

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4 marzo, 2013 - 15:33

Ecco qui l’Ecce Homo di Antonello.

Perchè sia qui a Genova nessuno lo sa: Cosa ci fa qui? C’e’ mai stato Antonello a Genova? Qualche genovese glielo ha commissionato? O le mani di un mercante? Cominciamo bene, un mistero.

Comunque è un momento del Vangelo: Pilato giudica Cristo dopo che è stato frustato, incoronato di spine, sputato ed insultato.

Lo mostra e sbotta: "Ma come! Questo è il vostro uomo!"

E' un detto ironico, ed e’ come dire: " Ecce Homo: questo qui è l'uomo che voi volete, il rivoluzionario che diventerà il Re dei Giudei".

Ma il senso che assume diventa, come ognuno sente, molto più profondo.

Pilato, in realtà, non ne vorrebbe sapere di condannarlo e offre al popolo Barabba("... Ma ci sarebbe Barabba...").

Questi quadri, raffiguranti l’"Ecce Homo", di Antonello e di altri, sono spesso di dimensioni piccole. Anche quello di Piacenza, che poco tempo fa abbiamo visto qui, vicino a questo, è piuttosto piccolo.

Erano dipinti che i gran signori si mettevano nella stanza da letto, per poi contemplarli...da mettere sopra la testata del letto, come facciamo noi oggi.

E’ un uomo giovane che non corrisponde all’immagine normale di Gesù Cristo, non si richiama alla tradizione, ma ha un’espressione strana (d'altra parte Antonello da Messina dipinge sempre espressioni molto strane in personaggi diversi; ricordiamo, per esempio, il "Ritratto di Ignoto" del Museo Mandralisca a Cefalù, che ancora oggi, con una integrazione di fantasia, possiamo inquadrare come il ritratto di una persona acuta ed ambigua, un mafioso, forse?

L’uomo qui di fronte è un personaggio con un volto che mette insieme molti aspetti comuni: una persona qualsiasi.

Ha un’intensa carica espressiva e ha capelli lunghi; probabilmente non sapremo mai come era in origine, dato che restaurarlo più di così non conviene e, dopotutto, non sapendo cosa possa succedere, un quadro così meno si restaura, meglio è. E' una persona che ha sofferto, che ha una corda al collo, probabilmente quella con cui è stato trascinato, che porta ancora segni di lesioni varie: i capelli debordano disordinatamente sulle spalle. Cio’ che si nota maggiormente e’ un’espressione del tutto particolare della bocca; con quella piega amara, o meglio dolce/amara, è ancora una rappresentazione tradizionale, ma il punto cruciale e’ l’espressione degli occhi. L'occhio è dolente; se dovessimo metterci nei panni del pittore capiremmo che una realizzazione come questa è molto difficile, e non comprendiamo bene in che modo vi sia riuscito. Sappiamo che l’occhio, di per se’, non avrebbe espressione: e’ la muscolatura mimica perioculare che gliela conferisce. Le ciglia non si vedono bene, l'occhio è ben aperto: Antonello raggiunge il massimo della sua maestria pittorica con il trattamento della muscolatura mimica dell'occhio.

E', diciamo, l'espressione di qualcuno che non si capisce cosa faccia, che non implora niente e nessuno ma che ha l'espressione di quello che non ne puo’ piu’, come se raggiungesse il massimo di tollerabilita’.

Ecco quello che ci interessa.

Quando noi parliamo di dolore mentale ci esprimiamo con una metafora.

A rigore sappiamo cosa sia il dolore: è una stimolazione fisica che crea una sensazione e un vissuto molto precisi che chiunque riconoscerebbe. Ne conosciamo origine, vie nervose e centri del sistema nervoso centrale. Nel caso del dolore mentale, lo sappiamo bene, e’ tutta un’altra questione. Qui abbiamo un esempio classico del passaggio dal dolore fisico a quello mentale; il pittore è riuscito a trasformare in questo momento il dolore fisico dell'uomo torturato, che ha un livello massimo di sopportabilità, nel dolore mentale.

In "Inibizione Sintomo e Angoscia" del 1925 Freud si propone di cercare l'origine dell’angoscia e scrive, inoltre, un’appendice: "Angoscia, Dolore e Lutto" (appendice C).

L'angoscia nasce dall'esperienza della nascita: una persona nasce, perde e viene separata, questa separazione è la prima grande angoscia e tutte le ansie successive non sono altro che la riedizione, una sorta di campanello di allarme.

*Della psicologia dei processi emotivi si sa talmente poco che mi sento autorizzato a chiedere per le osservazioni qui di seguito presentate un giudizio il più possibile indulgente. Il problema sorge a proposito del punto seguente: Abbiamo dovuto dire che l'angosciasi verifica come reazione al pericolo della perdita dell'oggetto. Ebbene, noi conosciamo già una reazione alla perdita dell'oggetto: il lutto. Dunque: quando tale perdita conduce all'angoscia, e quando al lutto? Nel lutto, del quale ci siamo già occupati in precedenza, un aspetto rimaneva del tutto incompreso: la sua particolare dolorosità.

Sappiamo che la perdita di una persona cara è un lutto che si elabora, ma allo stesso tempo produce dolore.

Che la separazione dall'oggetto sia dolorosa, ci appare tuttavia assolutamente ovvio. Quindi il problema si complica ulteriormente.

Il dolore per un lutto e’ qualcosa che comprendiamo perfettamente: a nessuno di noi passerebbe per la mente di chiedere il perche’ di tale dolore.

Quand'è che la separazione dall'oggetto genera angoscia, quando lutto e quando, magari, soltanto dolore?

Diciamo subito che al momento presente non abbiamo alcuna prospettiva di riuscire a rispondere a questi interrogativi. Ci limiteremo pertanto ad alcune precisazioni e a qualche vago suggerimento.

Il nostro punto di partenza sarà di nuovo una situazione che crediamo di capire: quella del lattante che scorge una persona estranea in luogo di sua madre.

Dunque, se il bambino piccolo non vede più la mamma, ma vede al suo posto un estraneo, per lui è un dramma. (E' un’ esperienza comune che, se uno tiene un bambino durante la notte, e questo si sveglia, non trovando la mamma piange).

Egli manifesterà l'angoscia che noi abbiamo ricondotto al pericolo della perdita dell'oggetto. Tale angoscia, però, è ben più complicata e merita una discussione più approfondita. Non vi è alcun dubbio circa l'angoscia del poppante, ma l'espressione del suo volto e la reazione del pianto fanno supporre che inoltre egli provi dolore. Sembra che confluisca in lui qualche cosa che poi più tardi verrà separato. Il poppante non può ancora distinguere la mancanza temporanea dalla perdita duratura; se una volta non riceve l'impressione del viso della madre, si comporta come se non dovesse rivederla mai più, e ha bisogno di ripetute esperienze rassicuranti per imparare che a questo sparire della madre suole seguire la sua ricomparsa.

La madre perfeziona questa conoscenza, per lui così importante, eseguendo col bambino il gioco ben noto di nascondergli il proprio viso e poi riscoprirlo per farlo felice. È così che in un certo senso il bambino impara a provare un anelito non accompagnato da disperazione.

Per il lattante, quindi, persa la percezione, perso tutto; per lui se qualcuno non si vede più vuol dire che non c'è più; noi sappiamo che cio’ non e’ vero anche se, se ci mettiamo nei panni di un genitore che non vede più il proprio bambino e non sa con chi può essere, chi lo tiene in quel momento, capiamo che, anche in un adulto, la perdita della vista corrisponde alla perdita dell’oggetto.

D’altra parte, nei giochi dei bambini esiste una forma di allenamento per la perdita ed il ritrovamento: ricordiamo il gioco del "cu-cu sette-te" o quello del "rocchetto" descritto da Freud in "Al di la’ del Principio del Piacere".

In questi giochi, che non sono altro che metodologie contro la perdita, il bambino e’ ansioso ma non disperato perche’ sa che vi sara’ il ritrovamento; in effetti anche il nostro modo per combattere la perdita e’ prevedere il ritorno dell’oggetto che non solo e’ esterno, ma anche interno.

La situazione in cui il bambino avverte la mancanza della madre non è per lui – dato il suo fraintendimento – una situazione di pericolo, ma è invece una situazione traumatica o, più esattamente, è una situazione traumatica se egli in quel momento avverte un bisogno che la madre dovrebbe soddisfare; si trasforma in situazione di pericolo qualora questo bisogno non sia attuale. La prima condizione d'angoscia, che l'Io stesso introduce, è dunque quella della perdita della percezione, che viene uguagliata a quella della perdita dell'oggetto. Una perdita d'amore non entra ancora in considerazione. Più tardi, l'esperienza insegna che l'oggetto, pur rimanendo presente, può esser diventato cattivo per il bambino, e ora la perdita d'amore da parte dell'oggetto diventa un nuovo, molto più durevole pericolo, e una nuova condizione d'angoscia.

L'oggetto che se ne va, l'oggetto che scompare, o che non soddisfa il bisogno di quel momento, diventa un oggetto con valenza negativa: l’oggetto persecutore. Se l’oggetto non da amore la perdita sta nella perdita d'amore e non tanto in quella dell'oggetto.

La situazione traumatica della mancanza della madre si scosta in un punto decisivo dalla situazione traumatica della nascita. Al momento della nascita non esisteva alcun oggetto, quindi di nessun oggetto poteva essere avvertita la mancanza. L'angoscia era l'unica reazione che aveva luogo. Da allora, ripetute situazioni di soddisfacimento hanno creato l'oggetto madre, che adesso in caso di bisogno riceve un intenso investimento che potremmo chiamare "nostalgico".

Nella nascita non esiste un bisogno frustrato, ma semplicemente la nascita; non ci sono altri oggetti, c'è la perdita nuda e cruda, mentre solo dopo si creano i bisogni a cui consegue la frustrazione per non avere il soddisfacimento dal seno e, quindi, nuovamente la perdita; un bambino, alla nascita, piange e basta, solo in seguito piange ed aspetta che qualcuno arrivi a soddisfare i suoi bisogni.

La reazione del dolore è da mettere in rapporto con questa nuova situazione. Il dolore è dunque la reazione propria alla perdita dell'oggetto, l'angoscia la reazione al pericolo che tale perdita implica, e, in. uno spostamento ulteriore, la reazione al pericolo della perdita dell'oggetto in quanto tale.

Il dolore è la reazione alla perdita dell'oggetto atto a soddisfare il bisogno quando il bisogno preme e l'oggetto non è in grado, non puo’, non riece o non vuole o non e’ li per soddisfare il bisogno. Come vediamo questa è una definizione molto positivista, tecnica, psicologica del dolore, definizione che non ha niente, in se’, di spirituale.

Anche del dolore sappiamo pochissimo. L'unico elemento sicuro ci è dato dal fatto che il dolore, anzitutto e di regola, sorge quando uno stimolo che colpisce la periferia riesce a far breccia nello scudo che protegge dagli stimoli e agisce ora come uno stimolo pulsionale assillante, contro il quale le azioni muscolari, che altrimenti sono efficaci in quanto sottraggono allo stimolo il luogo stimolato, non hanno alcun potere.

Freud ci parla del dolore somatico, del meccanismo fisio/psichico ma soprattutto fisiologico del dolore, con notazioni molto precise: il dolore è in fondo un operazione funzionale precisa, e noi non ci saremmo darwinianamente selezionati senza il dolore, e senza dolore non potremmo sopravvivere.

Il dolore informa che c’e’ uno stimolo nocivo, questo passa per le vie del sistema nervoso sia centrale che periferico e produce una risposta motoria atta ad allontanare lo stimolo doloroso: se una persona ha una lesione nervosa centrale o periferica, non avverte il dolore e può bruciarsi la mano senza accorgersene.

Se il dolore, invece di provenire da un punto dell'epidermide, deriva da un organo interno, la situazione non cambia; è solo una parte della periferia interna che è subentrata a quella esterna. Il bambino ha evidentemente occasione di compiere simili esperienze dolorose, le quali sono indipendenti dalle sue esperienze di bisogno.

Mettendoci nella mente del bambino piccolo quando ha bisogno si osserva facilmente che il bisogno è avvertito in termini cenestesici e le madri lo sanno quando dicono: "Spuntano i denti, ha il mal di pancia". In effetti il bisogno è espresso come alterazione della cenestesi: il corpo è a disagio ed è il corpo che è alterato; il bisogno mentale appartiene all’adulto.

Il bambino avverte dolorosamente il bisogno perchè il suo corpo manda degli stimoli spiacevoli quando il suo bisogno non viene soddisfatto; caso tipico è quello della bolla gastrica: quando si forma la bolla d'aria a livello dello stomaco, il bambino piange e la mamma sa che per farlo continuare a mangiare, visto che non è ancora sazio, deve fare qualcosa per eliminare la bolla e quindi lo stimolo noxiocettivo.

Questa condizione d'insorgenza del dolore sembra avere però ben poca affinità con una perdita oggettuale; anche il fattore, essenziale per il dolore, della stimolazione periferica, manca completamente nella situazione di nostalgica bramosia del bambino. Eppure, se la lingua ha creato il concetto del dolore interno, psichico, e ha decisamente paragonato le sensazioni di perdita d'oggetto al dolore corporeo, ciò non può essere privo di senso.

Ma il dolore mentale?

Visto che l’uomo, dai tempi dei tempi, parla di dolore mentale?

Nel dolore corporeo si produce un investimento elevato, che possiamo chiamare narcisistico, delle zone dolenti del corpo; tale investimento aumenta costantemente e agisce sull'Io in un modo per così dire svuotante.

Naturalmente il corpo è importante e ce ne accorgiamo quando, per esempio, abbiamo il mal di denti o il mal di testa... è inutile che qualcuno ci parli di altre cose perchè siamo concentrati nel nostro dolore, ovvero abbiamo un iperinvestimento della zona dolente.

Alla persona che ha un intenso dolore fisico non importa più nulla, non vuole sentire nulla, e’ concentrata sul dolore, mangia malvolentieri, quello che gli piaceva non gli piace più e anche lo spettacolo televisivo che prima aspettava con trepidazione adesso non gli interessa; quindi la concentrazione sull'organo dolente svuota l'Io.

È noto che nel caso di dolori in organi interni, noi percepiamo rappresentazioni spaziali e di altro tipo, relative a queste parti del corpo, che di solito non compaiono nel rappresentarsi cosciente. Anche la singolare circostanza che nel caso in cui la psiche sia distratta da un interesse di altra specie, neppure i dolori corporei più intensi vengono avvertiti (non si può dire in questo" caso: rimangono inconsci), si spiega con la concentrazione dell'investimento sulla rappresentanza psichica della parte corporea che fa male.

Ma Freud annota anche il contrario: se abbiamo un forte investimento emotivo su qualcosa, diminuisce il dolore, cosi’ come è noto che, sotto forte stimolazione sessuale, il dolore tende a diminuire. Se io concentro tanto investimento libidico sulla parte corporea che sta male, vedo solo quella, ma io posso ritrarre il mio investimento sull'aspetto emotivo e potrò alternare: ecco il principio della conversione.

Ebbene, l'analogia che ha permesso la trasposizione della sensazione dolorosa nel campo psichico, sembra essere questa. L'intenso e, a causa della sua insaziabilità, sempre crescente investimento nostalgico sull'oggetto mancante (perduto) produce condizioni economiche analoghe a quelle generate dall'investimento doloroso della parte lesa del corpo, e rende possibile prescindere da ciò che alla periferia determina il dolore corporeo.

Come nel corpo si investe la libido sulla parte lesa, così nella psiche, quando si ha una perdita, l'investimento eccessivo e’ sull'aspetto emotivo producendosi, in tal modo, un effetto analogo a quello del dolore.

Il passaggio dal dolore fisico al dolore psichico corrisponde alla trasformazione da un investimento narcisistico a un investimento oggettuale. La rappresentazione oggettuale, altamente investita dal bisogno pulsionale, riveste la funzione del luogo del corpo investito dall'aumento degli stimoli.

Freud qui fa un discorso particolare affermando che, mentre l'investimento sul fisico è un investimento narcisistico (noi sappiamo che l'investimento sul Sè è un investimento narcisistico), quello sulla rappresentazione mentale non è narcisistico perchè si tratta pur sempre un elemento esterno.

La permanenza del processo d'investimento e l'impossibilità d'inibirlo producono uno stato uguale all'impotenza psichica. Quando la sensazione di dispiacere allora insorgente, anziché esprimersi nella forma reattiva dell'angoscia, ha il carattere specifico, ma non ulteriormente descrivibile, del dolore, viene spontaneo ascrivere questo fenomeno a un fattore utilizzato ancora troppo poco nella spiegazione, e cioè all'alto livello delle situazioni d'investimento e di legamento caratterizzanti questi processi che danno luogo a sensazioni di dispiacere.

Conosciamo ancora un'altra reazione emotiva alla perdita d'oggetto: il lutto. A questo punto la sua spiegazione non presenta più alcuna difficoltà.

Sappiamo che una forte perdita, un grave lutto, determina non solo un dolore per la perdita in se stessa, ma anche un impoverimento dell'Io e la persona inizia a denigrare sè stessa: "Siccome ti ho perduto non valgo nulla, io non sono più niente..."ed e’ cio’ che accade anche nei quadri melanconici e, quanto è più grande l'investimento, quanto più la perdita emotiva produce dolore e nostalgia, anche se è giusto, nel lutto, che l’oggetto perduto ci manchi

Eccoci al punto: l'"Ecce Homo " è un uomo che esprime un dolore fisico, ma lo esprime sia simbolicamente che somaticamente... la mimica, lo sguardo, il colore verdognolo della pelle.

Ma la perdita qui sta debordando in altre cose: quali sono le gravi perdite che ci immaginiamo nell'"Ecce Homo"?

Una e’ l’umiliazione: questa persona è stata umiliata, trascinata davanti a tutti, con perdita della sua dignità e della sua capacità: e’ un uomo che fino al giorno prima predicava ed adesso viene presentato così: "E' questo l’uomo"? "Ecce Homo". E’ presente, quindi, oltre al sentimento di umiliazione, la frustrazione, la perdita dell'autostima, anche, e soprattutto, la perdita della fiducia nell'uomo, nel suo amore, proprio quell’uomo che, nonostante tutto, egli dovrebbe riscattare dai peccati.

Si fronteggiano due rappresentazioni opposte: il senso di umiliazione personale e l’esigenza di amare.

Ecco la trasformazione del dolore fisico in dolore morale: quello che era investimento sul corpo diventa il dolore legato all'iperinvestimento affettivo, mentre il dolore legato all'iperinvestimento affettivo diventa un dolore legato all'investimento affettivo deteriorato che va perdendosi.

L'importanza di questo quadro sta, io credo, nell’incredibile rappresentazione visiva del passaggio dal dolore da fisico a morale: questo è un uomo che non ne puo’ più fisicamente e che slitta da questo al non poterne più moralmente, e passa dal dolore fisico al dolore mentale in una commistione espressiva che ci fa capire le cose come nessun discorso riesce a fare.

Era li’, dunque, l’Unheimliche dell’Ecce Homo.

Riusciamo a percepire il dolore intenso che prova per la "cattiveria"umana.

Opera straordinaria perchè è riuscita a concretizzare tutto questo con un tratto misurato, contenuto e semplicissimo.

Documenta la storia di una perdita, nel corpo e nella mente: il dolore fisico si e’ trasformato in qualcosa di diverso.

Non ci rimane che concludere con Freud:

Il lutto subentra sotto l’influsso dell’esame di realtà, il quale esige categoricamente che ci si debba distaccare dall’oggetto,dato che esso non esiste piu’.

Al lutto e’ affidato il compito di eseguire questa retrocessione dall’oggetto in tutte le situazioni in cui quest’ultimo era stato fatto segno di un elevato investimento.Il carattere doloroso di questa separazione si adatta quindi alla spiegazione gia’ data, essendo un effetto dell’elevato e inappagabile investimento nostalgico dell’oggetto nel mentre si riproducono quelle situazioni in cui il legame con esso ha da essere sciolto.

 

* S.Freud "Freud Opere" vol.10 "Angoscia, Dolore e Lutto" pag 314-317 Boringhieri

A cura di Beatrice Morabito

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