La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi

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13 marzo, 2013 - 18:06
Autore: Franco Borgogno
Editore: Bollati Boringhieri
Anno: 2011
Pagine: 336
Costo: €28.00

Se i casi clinici di Freud, per ammissione dello stesso autore, si leggevano come “novelle”, non meno avvincente risulta, fin dalle prime pagine, il caso clinico di M, presentato da Franco Borgogno nel suo ultimo libro La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi, pubblicato dall'editore Bollati Boringhieri.
L'autore ci svela il difficile percorso analitico di una venticinquenne paziente schizoide deprivata e, verrebbe da dire, “deprivante”, poiché indurrà nella coppia analitica una «storia traumatica di svuotamenti di pensiero e di emozioni» (p. 23), analoga a quella che la paziente aveva vissuto nella sua infanzia a fianco di una madre “priva di entusiasmo per la vita”, spesso depressa, fisicamente malata, sofferente di mali oscuri e tormentata da un “terribile segreto” che fa presagire dinamiche transgenerazionali.
La storia clinica si apre con un sogno della paziente che dà il titolo al libro. Già nelle prime pagine sono racchiusi alcuni dei temi che hanno contrassegnato il percorso analitico dell'autore: tra questi la riflessione sul pensiero di Ferenczi e la partecipazione affettiva dell'analista, e una nuova interpretazione della funzione del sogno a partire dalla rivisitazione operata da Ferenczi. L'autore riprende e sviluppa il concetto di Ferenczi che il primo sogno portato in analisi ha un valore fondamentale, è una specie di “biglietto da visita” con cui il paziente si presenta al suo analista, e mostrerà come il sogno di M. anticipi il percorso e l'evoluzione della futura relazione transfert-controtransfert della coppia analitica.
Borgogno inserisce nel testo stralci di conversazione di quest'analisi con questa difficile paziente durata otto anni: assistiamo alle sue riflessioni, alle sue interpretazioni e, verso la fine, sentiamo parlare direttamente la paziente. Cogliamo il calore e l'empatia con i quali l'autore si è avventurato in questo difficile percorso analitico, e anche qualche momento di self-disclosure discreta, non intrusiva né ansiogena per la paziente. Su questo tema l'autore diverge dall'opinione di chi sostiene una self-disclosure aperta e quasi aggressiva con questi pazienti, ed esprime i suoi dubbi dicendo: «non so se sia sempre utile e opportuno arrivare a ciò. Ritengo a ogni buon conto che l'analista dovrà con essi [questi pazienti], per avvicinarli, accogliere i propri intensi sentimenti, positivi e negativi, come un irrinunciabile punto di partenza su cui continuare a lavorare, preparandosi a passi falsi e a inevitabili enactments da transitare e modulare con assiduità e pazienza» (p. 39). Questa riserva di Borgogno nasce da una specifica considerazione sull'esigenza del paziente deprivato di potersi riconoscere come persona nelle modificazioni che è in grado di produrre nell'ambiente circostante e in prima persona nell'altro della coppia analitica. Ciò, però, non autorizza l'analista a restituire al paziente stati affettivi traumatogeni, né tantomeno giustifica una posizione di totale chiusura e di inconoscibilità degli stati emotivi dell'analista. Borgogno pensa “ferenczianamente”, come afferma egli stesso, «che un quid di apertura da parte dell'analista sia in molti casi un tratto più terapeutico e meno algogeno che non un eccesso di riserbo e di austerità, giacché la misteriosità escludente e talora crudele che lo accompagna, anziché non contaminare il paziente, sovente finisce per porre al centro dell'attenzione l'analista sottraendo spazio al paziente. In particolare ciò mi sembra rilevante con i pazienti schizoidi deprivarti, a patto che l'analista non li inondi con la sua soggettività non governata» (p. 153).
Lasciare «che i nostri scritti rivelino, attraverso la nostra voce clinica, i dettagli di ciò che è avvenuto nello specifico trattamento di uno specifico paziente, a prescindere da ciò che abbiamo fatto e a prescindere dal credere o meno di avere fatto la cosa “giusta”», ha detto Bromberg (2006), «richiede coraggio» (p. 89). Borgogno questo coraggio lo ha dimostrato non solo schiudendoci la porta della sua stanza d'analisi, ma anche sottoponendo il caso clinico di M ai commenti e alle critiche di altri analisti. Infatti, su quel caso clinico che inaugura il nuovo volume di Borgogno e ne occupa la prima parte, avremo modo di assistere ad un dialogo a più voci tra l'autore e i suoi “supervisori”. Dialogo, tra l'altro, dal quale nasce anche un utile approfondimento che ci svela ulteriori aspetti di questo difficile trattamento che non sono stati evidenziati nel resoconto clinico e che emergono dalla interazione tra l'autore e i suoi “supervisori” in una dialettica di reciproco arricchimento.
L'autore assegna un posto preminente alla partecipazione affettiva dell'analista e a quei moti di spontaneità e sorpresa che sorgono nello scambio affettivo della coppia analitica, riportando in auge il concetto di “sorpresa” affermato da Theodor Reik e rivalutato in seguito da Bromberg (2006). Borgogno offre puntuali indicazioni di tecnica per «dare voce alle potenzialità inespresse e al sé non nato» (p. 41) del paziente deprivato, e raccomanda di essere «instancabilmente disposti a provare sentimenti in vece sua» al fine di incontrarlo autenticamente e di evitare una pseudo-analisi, quell'analisi che Bromberg definiva “senza buche”, ad indicare una troppo facile via regia per l'inconscio, che a suo tempo Freud aveva individuato nel sogno. E giungiamo così all'importanza dei sogni nell'analisi di M. Siamo ormai lontani dalla interpretazione freudiana del sogno come appagamento di un desiderio infantile; l'asse della interpretazione dei sogni e della loro utilizzazione terapeutica si è ormai spostato verso la funzione traumatolitica del sogno proposta da Ferenczi. Poiché proverò a leggere questo caso clinico in una prospettiva transgenerazionale, anticipo qui la posizione di Tisseron (1995) il quale sostiene che il sogno può funzionare da «“analizzatore” della dinamica familiare, e in particolare della dinamica transgenerazionale» e non sta ad indicare «rappresentazioni nevrotiche che regolano il conflitto tra il desiderio e il divieto, ma traumi personali o transgenerazionali» (p. 138).
C'è un elemento importante nell'anamnesi di questa paziente che merita di essere preso in seria considerazione e sviluppato: «entrambi i genitori erano orfani e, per giunta, a tutti e due il padre era morto con la loro nascita. Era quest'ultimo, per l'appunto, il “segreto” di cui in casa nessuno parlava nel terrore superstizioso che ciò risuccedesse, tanto più che M. era stata concepita tardi allorché i genitori non erano più giovani e si percepivano provati dalla vita» (p. 25). Più avanti veniamo a conoscenza di un particolare ancora più inquietante, vale a dire che anche nella generazione precedente a quella di M. i padri erano deceduti in coincidenza con la nascita tardiva di un figlio. Dunque per due generazioni i padri erano deceduti in coincidenza con una filiazione tardiva, sicché i genitori di M. si trovavano ad essere i superstiti di due generazioni nel cui immaginario la nascita di un figlio aveva determinato la morte del padre.
Questo “segreto familiare” che coinvolge due generazioni mi è sembrato un elemento molto importante della storia familiare di M, ed ha richiamato la mia attenzione anche perché vi ho recentemente dedicato alcune riflessioni sul ruolo che svolge nel mito di Edipo (Romano, 2011). Anche nella genealogia di Edipo vi è una analoga storia di bambini orfani, poiché sia Laio che il padre di questi, Labdaco, rimasero orfani di padre poco dopo la loro nascita. Questo duplice lutto è all'origine dei problemi che Laio e Giocasta si troveranno ad affrontare riguardo alla filiazione, e questa maledizione familiare, che nel mito è affidata alla voce oracolare che predice la morte di Laio da parte del figlio, rappresenta l'elemento che renderà inquietante e foriera di morte la nascita del piccolo Edipo.
La madre di M. è una novella Giocasta, una madre mortifera che mostra tutta la sua ambivalenza riguardo alla procreazione. La stessa paziente sembra alludere nel suo secondo sogno a questa somiglianza tra la figura materna e la regina Giocasta e il tentato infanticidio.
In un pianeta grigio in cui pioveva sempre abitava una regina che odiava la vita e il proprio figlio tanto da cercare continuamente di ucciderlo scagliandolo giù dal palazzo. Il bambino aveva appreso a cadere in piedi e a non farsi nulla, ammirato dalla regina per questa dote di non procurarsi ferite e sofferenza. Giungevano però astronavi che, se apparivano nemiche, volevano in realtà proteggere il popolo sottomesso al crudele gioco fra regina e figlio. Una giovane donna di nome «Nessuno» si faceva allora avanti e, unendosi ai loro tentativi di liberare e difendere il popolo, avvertiva gli stranieri di stare attenti all'odio e ai piani malvagi della regina e di suo figlio.
In fondo la regina di questo sogno che tenta ripetutamente di uccidere il figlio gettandolo dalla reggia non evoca proprio la regina Giocasta e il tentato infanticidio di Edipo? Abbiamo in questa storia familiare a che fare con l'Edipo, ma non con l'Edipo classico freudiano visto dalla parte del bambino, ma con quella costellazione edipica di cui ha parlato Faimberg (1993a,1993b), l'Edipo visto dalla parte dei genitori e del loro rapporto con il bambino, con un bambino non desiderato e male accolto come ha detto Ferenczi (1929). Al pari di Edipo, anche M, quale “bambina mal accolta”, esprime nei suoi sogni «un progetto di ricerca da parte sua di una genealogia e di una storia personale» (p. 72).
Mi soffermerò per un po' su quel “segreto familiare” che ha comportato che «per M e per la sua famiglia nascere era venuto simbolicamente a coincidere con il morire e con la morte» (p. 72), e che lascia intravedere la trasmissione transgenerazionale di questo segreto. Mi riferirò ripetutamente a due scritti di Micheline Enriquez (1993a, 1993b) che risultano particolarmente illuminanti a questo proposito, nel primo dei quali l'autrice analizza due casi in cui la nascita di un figlio genera la morte o la follia del padre. Il mio punto di partenza sarà quel dato anamnestico per cui nella famiglia di M «i padri (dei genitori e dei nonni) erano deceduti quando avevano messo in cantiere un figlio in tarda età come peraltro stava accadendo loro. Il decesso dei padri, tragico per la conseguenza di lasciare le mogli sole a provvedere ai figli e al sostentamento, non era dovuto di per sé a circostanze particolarmente drammatiche ma a malattie non così gravi che però a quel tempo esitavano facilmente e comunemente nella morte. La tragedia consisteva perciò in questa situazione nel semplice ripetersi di medesimi eventi luttuosi; una coincidenza che alla fine aveva creato un timore soverchiante (di natura superstiziosa anche) che la famiglia fosse “iellata” e perseguitata dalla cattiva sorte» (p. 67).
Sulla base di questi dati anamnestici possiamo comprendere meglio perché i genitori di M «erano depressi, emozionalmente poveri e carenti di entusiasmo per la trasmissione della vita» (p. 74), forse fino al punto che questa mancanza di entusiasmo poteva avere assunto, al di là della depressione, una tonalità delirante paranoide a sfumatura persecutoria. Nei suoi due casi, Enriquez constata che «l'incontro con la paternità si realizza allo stesso tempo nell'espressione proiettiva di un desiderio di morte nei riguardi del bambino e nell'emergere di una minaccia di morte per il padre che emana da una potenza paterna (o affine) primitiva, che interdice ogni successione generazionale» (p. 109). Nei casi della Enriquez la nascita di un figlio ha determinato nei padri una catastrofe psichica che li ha precipitati in un delirio che ruota attorno al tema morte/immortalità del padre. Nella genealogia di M abbiamo a che fare con delle nascite che per due generazioni sono state in relazione con la morte dei padri. Questi figli orfani di padre porteranno con sé, nella loro vita adulta, non solo quel senso di colpa del sopravvissuto di cui parlava Freud, ma anche una inconscia “megalomania” che deriva dalla percezione di questo potere oscuro e malefico di avere, con la propria nascita, determinato la morte del padre. Dunque i genitori di M, entrambi orfani di padre poco dopo la loro nascita, potevano trovarsi in questa particolare e ambivalente condizione psichica depressivo/megalomanica nel momento in cui la nascita di M venne a risvegliare in loro la minaccia che anche la nascita a lungo procrastinata di questa bambina potesse essere foriera di un altro lutto.
Sappiamo che i genitori di M hanno tenuto nascosto alla figlia il loro “segreto familiare” con tutta l'angoscia e l'aspettativa di morte che era per loro legata alla sua nascita. Ma possiamo davvero pensare che M non abbia mai avuto neppure una oscura percezione delle aspettative tragiche in cui la sua nascita aveva gettato i suoi genitori? Afferma la Enriquez: «mi sembra impossibile che il bambino, che come ogni bambino possiamo immaginare alla ricerca delle proprie origini, non abbia sentore, una volta o l'altra, degli avvenimenti della sua nascita» (p. 109). Sembra allora di dover concludere che, poiché “per M e per la sua famiglia nascere era venuto simbolicamente a coincidere con il morire e con la morte”, questo doveva avere creato una «spaventosa confusione nelle concezioni che un soggetto può farsi sull'eredità e sulla trasmissione tra le generazioni» (Enriquez, p. 110). Se ipotizziamo che quel “timore soverchiante (di natura superstiziosa anche) che la famiglia fosse 'iellata' e perseguitata dalla cattiva sorte” abbia portato i genitori di M a sviluppare un'ideazione persecutoria, allora la ricaduta di questo delirio su M non poteva che essere dirompente così come la descrive Enriquez: «Se invece si tratta di un incontro con un delirio di persecuzione in cui dominano i temi di distruzione di una generazione da parte dell'altra [...], il bambino verrà messo a confronto con una teoria delirante sull'origine che contraddice i legami simbolici della parentela e i desideri di trasmissione e di genealogia. E' di gran lunga il caso più micidiale giacché il discorso che veicola enuncia che il solo fatto di venire al mondo risveglia in un altro o in altri, di un'altra generazione ma nella stessa famiglia, un desiderio di uccisione nei riguardi del bambino e del suo genitore appunto perché divenuto genitore di quel bambino» (p. 113). Il bambino, dice ancora Enriquez, non potrà fare a meno di vivere la persecuzione di cui si sente vittima il genitore anche come diretta verso di lui, in quanto figlio o figlia di quel genitore, né potrà evitare, sia pure confusamente, di stabilire un collegamento tra l'odio e la sofferenza fino ad arrivare ad un circolo vizioso in cui l'odio genera la sofferenza e la sofferenza genera odio, giungendo così a quel “terrorismo” che provoca sul bambino la sofferenza del genitore.
Così, nel corso della sua analisi, M farà proprio esperienza di questo «massiccio odio che ella riversa attraverso il transfert», come ha commentato Jacobs (p. 78), odio che vorrei vedere non solo come derivato dalla sofferenza generata dalla mancanza di caregivers sufficientemente buoni nell'infanzia di M, ma anche come un lascito transgenerazionale. Borgogno ci informa che M si sentiva viva soltanto quando constatava che i suoi genitori accorrevano da lei per il timore che il suo silenzio ne denunciasse la morte, «ma facendo ciò non mostravano alcun reale interesse nei confronti dei suoi bisogni e dei suoi desideri» (p. 94), perché la loro sollecitudine nei confronti di M. era mossa solo dal senso di colpa per il loro desiderio inconscio che fosse morta. Borgogno osserva che in tal modo M aveva sviluppato la «fantasia onnipotente inconscia di essere lei, con il suo silenzio» (p. 95), a smuovere e rendere vivi i suoi genitori. Allora si potrebbe pensare che M, a sua volta, era indotta da una “colpa transgenerazionale” a verificare, con il gioco dei suoi silenzi, che i suoi genitori fossero ancora vivi e che quella onnipotenza mortifera che si era manifestata nei figli delle generazioni precedenti non si era ancora messa all'opera.
Borgogno ci fa sapere che «M per sopravvivere nell'ambiente ritirato e depresso in cui viveva e per liberarsi da una madre tanto ingombrante si era ammutolita scomparendo dalla scena psichica» ed aveva operato una identificazione con la madre che l'aveva portata a ritenere «che si è esistenti unicamente se si è assenti psichicamente» (p. 164). Dunque M aveva fatto ricorso a quella via di uscita che Enriquez definisce «utilizzazione attiva della passività, passività letale e non sessuale in origine, in opposizione a un odio esplosivo non elaborabile...» (p. 123).
Nella storia di M c'è un'onnipotenza mortifera che si trasmette attraverso le generazioni e che rende problematica la filiazione, che per tre generazioni avverrà sempre in tarda età. Shengold (2011) afferma che il «neonato vede i genitori come dotati di poteri divini, e qualsiasi evento la mente registri - all'interno e all'esterno del corpo - per gran parte dell'infanzia è attribuito a loro, perciò anche la responsabilità del terrore dovuto all'intensità dell'esperienza traumatica è ascritta ai “genitori-divinità” [...] Ma queste divinità che permettono che esista la sofferenza e non sono in grado di eliminare la morte stimolano pure varie e profonde forme di ambivalenza» (pp. 14-15). Anche per la piccola M i genitori dovettero essere delle divinità, e divinità tanto più inquietanti perché entrambi sono stati in grado di determinare la morte dei loro rispettivi padri. Genitori-divinità, pertanto, in grado di decidere della vita e della morte, divinità terrifiche perché mortifere.
Enriquez (1993a) riporta il caso di una paziente che «aveva avuto un'infanzia solitaria, dolorosa, silenziosa, senza alcun interlocutore caldo e comprensivo [...] una bambina intellettualmente precoce [...] colta da impulsi suicidi che la stringono in momenti di depersonalizzazione in cui si sente sdoppiata» (p. 125), e che la stessa paziente percepisce essere una identificazione con la madre, per cui dirà: «E' qualcosa di mia madre che risorge, come se si trattasse del suo desiderio di morte nei miei riguardi» (p. 125). In questa paziente si manifestano «sogni di attacchi estremamente violenti» che le permettono «d'intravedere qualcosa del desiderio di morte di sua madre nei suoi riguardi» (p. 131). Veniamo così a quel sogno che M porta nella prima seduta come il suo biglietto da visita:
Una persona giapponese di identità incerta faceva hara-kiri di fronte a me in una specie di chiostro e voleva che la vedessi. Scappavo ma questa, correndomi dietro, con mio orrore e disgusto mi raggiungeva continuamente «arcata dopo arcata» crollando a terra con tutti gli intestini di fuori.
Borgogno interpreta che la persona giapponese potesse essere sia la paziente stessa che la madre, «delle cui sofferenze M fu in passato costretta ad essere testimone partecipe» (p. 24), una madre, appunto, estranea, di cui M non ha potuto conoscere l'identità e della quale non comprende la lingua, per lei ostica quanto può essere una lingua orientale. Una madre che non si fece conoscere dalla figlia in quanto ritirata dalla vita e da ogni comunicazione empatica e portatrice di riconoscimento per l'altro perché rinchiusa nel suo guscio depressivo. Una madre che esibisce di fronte alla figlia tutta la sua sofferenza e il suo autotormentarsi, che riversa su di lei tutto il peso e l'angoscia della sua depressione costringendola ad essere spettatrice involontaria del suo dolore. Ma questa figura enigmatica che fa hara-kiri potrebbe anche essere, nuovamente, quella madre che tenta ripetutamente di abortire il frutto “delle proprie viscere”.
Arricchendo ad ogni replica ai suoi “supervisori” le notizie sulla sua paziente, Borgogno ci dice che «non traspariva dalla sua persona nessun slancio creativo o voglia di vivere, soprattutto, nessuna comprensione delle sue tensioni e del suo dolore. Le tensioni e il dolore [...] si esprimevano per lo più in un continuo lamento agonico» (p. 173), lamento agonico che possiamo presumere che la paziente abbia udito per molto tempo provenire da una madre depressa e priva di interessi vitali. M trasmette fin dall'inizio al suo analista una «impressione di vuoto, di ritiro, di non-differenziazione mista a una specie di irritazione senza scopo e senza speranza» (p. 173), sicchè l'analista percepisce «quanto fossimo l'uno per l'altro sconosciuti e alieni in quella situazione (l'analisi) a lei del tutto ignota» (p. 173), una sensazione di reciproca estraneità che probabilmente M sperimentò per molti anni della sua infanzia nella relazione con la madre.
Ma possiamo pensare che questi genitori, dei quali conosciamo soprattutto la madre perché, purtroppo, il padre rimane abbastanza in ombra, siano responsabili, nei confronti di M, solo di omissioni, e non anche di una intrusione che ha comportato di immettere nella sua mente quello che Ferenczi definiva un “trapianto estraneo” che vegeta poi tutta la vita nell'altra persona? «Più spesso, gli analisti si trovano di fronte, nell'esperienza clinica del transgenerazionale, al “negativo” e al problema della morte sia come distruttività che come autodistruttività» (Meotti A. e Meotti F., 2007, p. 157). Seguirò per un po' questi due autori perché mi sembra che il loro discorso illustri in maniera esemplare quel tema della morte nel transgenerazionale che ho voluto assumere come paradigma di lettura del tutto personale di questo interessante caso clinico di Borgogno.
«La trasmissione di qualcosa che è connesso alla morte ha particolare significato nella trasmissione transgenerazionale [...] La scissione e proiezione dei fantasmi di morte della madre e del bambino avviene abitualmente sul padre e da lui può partire l'esportazione all'esterno del suo gruppo oppure la ritrasmissione all'interno. In quest'ultimo caso ha inizio la trasmissione transgenerazionale del “negativo”. Infatti, sembra probabile che - sia nel caso di insufficienza di elaborazione, da un lato, sia nel caso di carente esportazione all'esterno, dall'altro - si crei la “necessità” della trasmissione transgenerazionale del “negativo” e della morte, con il ritorno delle proiezioni delle angosce di morte sul bambino. A queste proiezioni possono unirsi quelle dei gruppi interni della madre e del padre, derivanti o dal narcisismo dei genitori o, a nostro avviso, soprattutto da carenze di simbolizzazione e da una lunga catena di traumatismi. L'oggetto che inizia una catena transgenerazionale è quell'oggetto familiare che non riesce a partecipare al complesso movimento di simbolizzazione e di esportazione della morte nello spazio e nel tempo, quale si deve verificare intorno ad un bambino: è l'oggetto che rivolge la morte sul proprio nato, in quantità sufficienti ad avviare processi traumatici. Un esito particolare di tale trasmissione del trauma sono le aree autodistruttive che tanto impegnano l'analista e che, molto spesso, sono affrontabili solo come esiti di operazioni di oggetti parentali che hanno esportato nell'analizzando, ultimo anello di una catena plurigenerazionale, il proprio legato mortifero» (p. 158).
Per comprendere a pieno quanto appena riportato, dobbiamo fare riferimento a quel concetto di configurazione edipica introdotto da Faimberg (1993) quale concetto più ampio del complesso edipico freudiano, necessario a comprendere la relazione tra le generazioni. Il complesso edipico freudiano, infatti, riguarda solo i desideri inconsci del bambino verso i genitori e «non comprende la natura e la storia degli oggetti edipici come tali» (Faimberg, 1993, p. 76). Con il concetto di configurazione edipica Faimberg (1993) intende «non solo la relazione del bambino con i genitori ma anche la relazione dei genitori con il bambino, come essa può essere ri(co)struita. Propongo che il concetto di “configurazione edipica” includa questa relazione reciproca tra il bambino e i genitori» (p. 76). Questo comporta di non prendere in considerazione solo i desideri inconsci di morte e incestuosi del paziente verso i genitori, ma di considerare anche che «il paziente ha nel suo mondo interno una certa versione di come i genitori hanno riconosciuto la sua “alterità” e il significato che ha avuto per loro che il paziente sia un maschio o una femmina» (Faimberg 1993, p. 77), poiché questo avrà delle conseguenze sul modo in cui il paziente organizza i suoi conflitti edipici. La nozione di “configurazione edipica” va nella stessa direzione della visione ferencziana che considerava non solo l'adattamento del bambino alla famiglia ma anche L'adattamento della famiglia al bambino (1927).
Nel mondo interno di M, dunque, non vi doveva essere solo un “trapianto estraneo” che induceva in lei pulsioni di morte o che si manifestava con la perdita di ogni slancio vitale o con un protratto “lamento agonico”. M doveva anche essere portatrice inconsapevole, nel suo mondo interno, di una versione della sua accoglienza da parte dei genitori che aveva a che fare con le loro pulsioni di morte e con un reale tentato infanticidio che possiamo presumere che la paziente abbia consegnato alle immagini del sogno del hara-kiri.
Mi fermo qui per non appesantire ulteriormente il mio discorso e anche perché credo di avere fin troppo indugiato nel piacere di leggere questo caso clinico in un'ottica transgenerazionale. A conclusione della discussione del caso M, Borgogno fa un ultimo intervento nel quale ci regala un insegnamento di tecnica analitica che merita di essere sottolineato, non solo materialmente come ho fatto io, ma impresso in maniera indelebile nella nostra memoria in modo che possa riattivarsi nel momento del bisogno e dell'incontro con la sofferenza, non solo patologica. Borgogno ci avverte di come «il buon analista temperato debba saper trasformare la mostruosità e l'alienità che il paziente percepisce a proposito di sé e dei propri fatti di vita in elementi umani e non così fuori dell'ordinario com'egli li sente, per quanto dolorosi e tragici essi siano stati per lui. Trasformazione che il buon analista temperato può compiere se è in grado di bonificarli di quella parte di angoscia psicotica che li circonda e li ammanta rendendoli impensabili e inimmaginabili oltre che di per sé poco comprensibili» (p. 152).
Così, potremmo dire, stemperando la perturbante estraneità nell'ordinaria sofferenza umana, il “buon analista temperato” Borgogno è riuscito con la sua paziente M a dipanare quella “matassa aggrovigliata che la soffocava” tessendone alcuni fili in una «struttura significativa da lei riconoscibile come sua e pertanto più pronta a essere confrontata e discussa insieme» (p. 152).
Nella seconda parte del suo libro, Borgogno ripubblica alcuni lavori già apparsi e che proseguono il tema a lui caro del “paziente deprivato”. Il settimo capitolo è dedicato a: “«Spoilt children»: un dialogo fra psicoanalisti”, comparso nel n. 52 dei Quaderni di Psicoterapia Infantile, curato dallo stesso Borgogno e A. Ferro, pp. 107-148. Borgogno utilizza il termine spoilt children, cui la psicoanalisi anglosassone conferisce il significato di “bambini capricciosi e viziati”, in un nuovo e più pregnante significato. Lo spoilt child è un bambino deprivato, saccheggiato, «spogliato da una vera e propria azione di guerra [...] da chi avrebbe dovuto prendersene cura ma per vari motivi non aveva potuto farlo poiché il farlo era diventato per lui una battaglia e spesso una battaglia di sopravvivenza» (p. 184).
In questo nuovo significato credo si possa ravvisare quel rovesciamento di prospettiva che aveva, a suo tempo, condotto Ferenczi a parlare dell'adattamento della famiglia al bambino. I genitori degli spoilt children sono genitori “deprivanti” che si liberano dei loro obblighi genitoriali soddisfacendo in anticipo i bisogni e i desideri del bambino, ma in tal modo privandolo di un reale accudimento empatico. Borgogno definisce questi bambini deprivati «parzialmente morti e devitalizzati» (p. 184) poiché sono stati lasciati in uno “stato di abbandono per quanto riguarda la vita emozionale e mentale” (p. 189).
Questi bambini vengono anche spesso deprivati dell'aiuto necessario da parte degli operatori dei servizi, che dietro il comportamento capriccioso e viziato, dietro il loro distruggere e vanificare ciò che di positivo viene loro offerto, dietro la loro tenace resistenza verso ogni forma di aiuto, non sanno riconoscere i segni di una grande deprivazione che questi bambini stessi, per primi, non riconoscono. Questi spoilt children, che possiamo definire orfani di genitori nella loro mente, perché non hanno ricevuto un riconoscimento della loro esistenza psichica da parte dei genitori, non hanno sviluppato alcuna capacità di autoaccudimento. «Il super-io molto severo e rigido di questi pazienti non è un autentico genitore: è piuttosto una caricatura di genitore che è stato assente almeno mentalmente, non svolgendo quelle fisiologiche e necessarie funzioni protettive di consiglio e di educazione che toccano ai genitori; è in definitiva una presenza ostacolante, intrusiva e demolitiva» (p. 208). Con loro l'analista dovrà diventare quel “testimone” empatico delle loro storie di vita e della loro sofferenza, concetto questo, della testimonianza, più volte ribadito da Borgogno nei suoi scritti.
Infine, il tema degli spoilt children consente a Borgogno di riaffermare nuovamente un principio già sostenuto altre volte con forza, è cioè che l'intrapsichico non può essere slegato dall'interpersonale, che l'intrapsichico «non è elemento “originario” ma origina nelle interazioni precoci del bambino con i suoi genitori» (p. 209). Mi preme sottolineare questo principio che è fondamentale per comprendere l'area traumatica e quell'area del transgenerazionale nella quale mi sono avventurato con la mia lettura del caso M.
Il capitolo ottavo, Little Hans Updated, rappresenta una rilettura, aggiornata sulla base di nuovo materiale oggi disponibile, del noto caso clinico del Piccolo Hans, il piccolo paziente che Freud trattò per l'interposta persona del padre. Borgogno riconosce che in questo trattamento Freud assunse un ruolo di supervisore rispetto al materiale che gli portava il padre di Hans, e gli riconosce la capacità di «comprendere i moti comunicativi profondi che cimentano la conversazione fra padre e figlio nella dedizione con cui segue passo a passo il filo del loro dialogo...» (p. 214). Questo riconoscimento ci lascia alquanto perplessi, e lo stesso Borgogno ammette di avere un po' ecceduto nel sottolineare questo punto di svolta freudiano, e io ritengo che sia stato fin troppo generoso con Freud. Pienamente condivisibile, invece, la critica mossa a Freud di avere completamente trascurato il contesto familiare profondamente conflittuale dei genitori di Hans. Nei confronti di questa omissione freudiana Borgogno esprime tutto il suo rammarico per il fatto che si sia «diffuso e radicato nella comunità psicoanalitica un ordine ipnotico a non vedere e non riconoscere come determinanti “le realtà” del contesto in cui una mente nasce e si sviluppa (sia questo contesto quello d'origine o quello terapeutico), un ordine ipnotico che malauguratamente ci si è poi a lungo scordati di sciogliere nel corso dell'evoluzione della nostra disciplina» (218).
A quella che mi è sembrata una immeritata concessione a Freud fanno tuttavia da contrappunto delle sferzanti critiche sulle “mancanze personali e punti irrisolti” che lo hanno condotto ad “ululare coi lupi”, a «conformarsi al moralismo e al perbenismo degli assunti di base culturali e sociali dominanti, e dunque a colludere con le palesi e notevoli contraddittorietà di fondo dei genitori» (p. 219). Su queste omissioni ha pesato, dice Borgogno, l'idealizzazione dei propri genitori da parte di Freud.
In un Postscriptum a questi appunti di lettura Borgogno affronta il nuovo materiale emerso dalla “desecretazione” di una serie di interviste di Kurt Eissler a Max Graf (il padre di Hans) e ad Herbert Graf (il piccolo Hans), nonché a Lise, la prima moglie di Herbert Graf. Prima di svelarci i contenuti di queste interviste, Borgogno passa in rassegna la letteratura sul Piccolo Hans prodotta dopo la rivelazione di questo materiale. Wakefield (2007) ha sottolineato la commistione fra privato e professionale in questo caso in cui Freud è al tempo stesso l'analista di Olga König (la madre di Hans) e il supervisore di Max Graf (il padre di Hans), il quale è anche suo discepolo e frequenta le prime riunioni della Società Psicoanalitica di Vienna, senza trascurare la reciproca frequentazione delle due famiglie. Blum (2007) evidenzia l'aspetto enigmatico delle reticenze di Freud che non possono essere spiegate esaurientemente dalla necessità di convalidare le sue nascenti teorie sulla sessualità infantile. Chused (2007) e Ross (2007) collegano la fobia di Hans a fantasie pre-edipiche e non edipiche, come vorrebbe Freud, e rimarcano i vari comportamenti di abuso, di sadismo, di esplosività passionale, la seduttività materna e l'evitamento e il diniego paterni e il complessivo clima familiare disturbato e disturbante. Stuart (2007) mette in evidenza «l'ipercoinvolgimento di Freud dovuto a una spiccata simiglianza fra i personaggi e i conflitti della storia edipica di Hans e quelli presenti nella storia dello stesso Freud (un ipercoinvolgimento che, conducendolo ad accavallare fatti psichici e soluzioni d'essi personali su quelli che contraddistinguevano Hans e i suoi familiari, lo rese parzialmente “cieco” nel discernere ed enucleare che cosa in effetti si celava dietro alla nevrosi e alla fobia di Hans)...» (p. 229).
Veniamo ora a quel materiale “desecretato” dai Sigmund Freud Archives e reso pubblico nel 2004. Dalle interviste effettuate da Eissler emerge una elevata conflittualità familiare e il dato sconcertante di un maltrattamento infantile ripetuto. La madre di Hans, che Freud descrive come una nevrotica ossessiva ma “madre eccellente e devota”, risulta invece «una paziente molto più seria, sofferente di un cospicuo disordine affettivo che forse oggi classificheremmo borderline [...] una persona sostanzialmente depressa e molto volubile, una persona isterica, fobica e socialmente ritirata [che] usava Hans come una sorta di partner-surrogato narcisistico per le sue angosce» (p. 231). Una madre «che per via del suo intenso dolore psichico giungeva a “maltrattare” i figli e talvolta a picchiarli senza controllo», soprattutto la secondogenita Hanna. Anche il padre, Max Graf, era «lui stesso sovente violento e autoritario, in particolare con i figli [...] e in aggiunta a ciò presentava pure lui un atteggiamento per molti versi fobico ed evitante, quando non francamente ostile e svalutante...» (p. 232).
Da questi dati emergerebbe, dunque, che la storia del piccolo Hans è tutta un'altra storia rispetto a quella che ci ha consegnato Freud, e si pone l'interrogativo del perché egli abbia occultato questi dati dei quali non poteva non essere a conoscenza. Ma io vorrei porre anche un altro interrogativo. Con gli strumenti e le conoscenze psicoanalitiche di cui disponiamo oggi, era davvero impossibile giungere ad intuire almeno in parte ciò che è stato rivelato successivamente, o questa possibilità è venuta a mancare soprattutto per una certa tendenza, ancora oggi persistente, a idealizzare il padre della psicoanalisi e il suo metodo terapeutico e la sua onestà scientifica? Non era forse anche qui all'opera quello che Borgogno ha definito un “ordine ipnotico a non vedere”, in questo caso a non vedere gli errori di Freud e la sua connivenza con i genitori del piccolo Hans e le sue macchie cieche rispetto ad una pedagogia ancora intrisa degli inquietanti principi del dr. Schreber, padre di quel Daniel Paul Schreber sulle cui Memorie di un malato di nervi Freud scrisse un saggio due anni più tardi? Ciononostante, diversi autori hanno segnalato molte incongruenze di questo caso clinico, evidenziando sia il precipuo interesse scientifico di Freud preponderante rispetto all'impegno terapeutico, sia le contraddizioni di una educazione del bambino solo a parole non costrittiva, ma di fatto ampiamente coercitiva e sessuofobica, sia l'ambiguità paterna rispetto alla educazione sessuale di Hans come l'aperta seduttività della madre, sia il sottofondo autobiografico ed autoanalitico di questo caso clinico. Io credo che Maria Torok (1987) abbia, almeno in parte, intuito una verità che è stata rivelata successivamente da queste interviste, vale a dire che il piccolo Hans, attraverso la sua fobia, abbia messo in scena la fobia dei genitori riguardo al sesso ed abbia dato voce al loro fantasma, alla loro fobia di essere castrati dal “Professor” Freud.
Vengo ora alle considerazioni di Borgogno dopo l'acquisizione di questo nuovo materiale. L'autore rivolge alla comunità psicoanalitica un «invito in generale a dare un maggiore ascolto nel nostro lavoro analitico all'ambiente psichico precoce di crescita che ha contraddistinto nel passato e che contraddistingue nell'attualità la vita di un soggetto» (p. 235), sottolineando che «non basta solamente l'analisi della “realtà psichica” e dell'inconscio» ma bisogna anche prendere in considerazione «la vita psichica entro cui nasce e si snoda la storia infantile e adolescenziale di un individuo, compresa quella della sua stessa analisi» (p. 235), il che significa tener conto anche delle «singolari qualità cognitive e affettive degli oggetti che ci accolgono nel nostro venire al mondo e nel nostro desiderio di ri-nascere» (p. 235) attraverso il percorso psicoanalitico. Mi preme sottolineare ancora una volta un pensiero dell'autore che percorre i vari saggi del libro come un filo rosso che li unisce: il monito a non trascurare la realtà esterna a esclusivo vantaggio delle fantasie e del mondo interno del paziente. Quelli che Ferenczi chiamava i “resti diurni e vissuti” ed Erickson l' “attualità storica”, afferma Borgogno, rappresentano «l'area che a lungo nell'evoluzione della psicoanalisi è stata sottostimata a favore della rilevanza dei “demoni interni”, e che puntualmente risulta trascurata e non messa abbastanza a fuoco nel corso dell'analisi di Hans sia dai genitori medesimi di Hans che dallo stesso Freud, che mai ha veramente riaggiustato il tiro delle sue idee portanti su questo e altri casi simili (almeno a livello ufficiale nei suoi scritti) e non credo soltanto per motivi deontologici ed etici ma per limiti relativi ai suoi tratti caratteriali e ai dettami e alla logica del tempo in cui è vissuto» (pp. 235-6).
Quanto ai motivi che hanno spinto Freud a tacere questo clima familiare pesantemente conflittuale e traumatogeno, Borgogno afferma che Freud «non era lui stesso esente da macchie cieche e da difese» (p. 237) e fa rilevare che «si riteneva maniacalmente [...] pressoché esente e superiore rispetto all'incorrere in ciò da cui metteva in guardia, non riconoscendo così l'entità del suo stesso acceso coinvolgimento con i pazienti e neppure il forte movimento identificatorio inconscio che accompagna inesorabilmente ogni vocazione e dedizione professionale, anche quella più nobile e ammirevole» (p. 238). Riguardo alla scarsa rilevanza data alle figure genitoriali, Borgogno sembra voler giustificare Freud con lo zeitgeist della sua epoca, ma non dobbiamo dimenticare che all'epoca della sua “teoria della seduzione” Freud aveva violentemente accusato i padri di molteplici abusi e violenze sulle figlie, violenze e abusi che aveva descritto a volte con un linguaggio fin troppo crudo per i suoi tempi. Dunque Freud era ben consapevole dei comportamenti perversi e crudeli di alcuni padri nei confronti dei figli e delle loro conseguenze patogene, almeno fino a che non decise di porre in primo piano la realtà intrapsichica e relegare sullo sfondo la realtà esterna. Io non credo ciecamente nell'onestà scientifica di Freud e sono convinto che egli fosse disposto a passare sotto silenzio più di quanto possiamo immaginare pur di giovare all'affermazione e al progresso della “sua” scienza. Con la stesura del caso clinico del piccolo Hans, Freud intendeva confermare le sue teorie sulla sessualità infantile e sul complesso edipico, e che questo fosse il suo interesse principale lo ricaviamo dalle stesse parole che egli rivolse ad Hans in occasione di quell'unica breve visita che il bambino gli fece nel suo studio. In quell'occasione, dopo avergli rivelato il suo complesso edipico, disse ad Hans: «Già da tempo, prima che lui venisse al mondo, io sapevo che ci sarebbe stato un piccolo Hans, che avrebbe voluto così tanto bene alla mamma da dovere, per questo, avere paura del papà e glielo avrebbe raccontato». Dunque Freud era in attesa di confermare, attraverso un caso clinico, la sua teoria edipica, ed egli probabilmente accolse la nascita di Hans con maggiore trepidazione di quanto non fecero (ora possiamo dirlo con il senno di poi) i suoi stessi genitori. Del resto nella sua introduzione a questo caso clinico, Freud stesso non fa mistero, accennando alle sue teorie sulla sessualità infantile formulate nei Tre saggi, del «desiderio che quelle tesi fondamentali vengano dimostrate in modo più immediato, attraverso una via più breve». La storia clinica del piccolo Hans era appunto questa “via più breve”.
Il capitolo nono affronta il “rovesciamento dei ruoli” nella relazione analitica, un tema ancora oggi poco indagato, e riprende il caso di M che Borgogno aveva affrontato nel primo capitolo. Io consiglierei il lettore di leggere questi due capitoli in sequenza, sebbene distanti tra loro, perché in questo nono capitolo vengono ripresi elementi della storia di M che sono utili anche alla comprensione dei successivi commenti al caso di altri autori.
Il decimo capitolo è dedicato a Ferenczi: ieri, oggi e domani. Nella prima parte l'autore analizza l'affinità di pensiero e di tecnica tra Ferenczi e Winnicott, che nella vita reale furono due spoilt children e nell'ambito della teoria psicoanalitica due wise babies che aprirono nuove prospettive nella comprensione e nel trattamento dei pazienti traumatizzati. La seconda parte è dedicata a Ferenczi come “analista introiettivo”, caratteristica che lo rende ancora oggi, per molti psicoanalisti, «ispiratore e maestro per certi versi quasi contemporaneo» (p. 269).
Chiude il libro una Conclusione provvisoria che non vuole essere una conclusione ma una sorta di ritorno sui propri passi con un'intervista nella quale Borgogno ripercorre le tappe del proprio percorso analitico, dalla sua formazione alla sua pratica terapeutica. Forse questa intervista varrebbe la pena leggerla prima di affrontare il libro, per avere uno sguardo non solo sull'analista ma anche sull'uomo Borgogno, e apprezzare meglio l'empatia e la partecipazione affettiva che costituiscono il paziente e costante sottofondo umano, e non solo tecnico, di quella difficile analisi che apre questo volume.
Dando uno sguardo complessivo al libro, al di là dell'indubbio interesse che le singole tematiche specifiche affrontate nei vari saggi rivestono, tematiche unificate dal tema di fondo di un paziente adulto che è stato un bambino deprivato, ciò che emerge come solida tessitura di fondo del volume non è solo il costante richiamo al reciproco embricarsi di intrapsichico e interpersonale e gli ammonimenti che ne conseguono sul piano della pratica psicoanalitica, ma il coraggioso e onesto autodisvelamento di un analista empatico e “ben temperato” quale appare Borgogno in questi pregevoli saggi, la cui lettura non è destinata solo agli addetti ai lavori, ma a chiunque abbia l'ambizione di esercitare la psicoterapia e la modestia per essere disposto sempre ad imparare.

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