Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile

Share this
9 luglio, 2019 - 00:10
Autore: Carlo Bonomi
Editore: Bollati Boringhieri
Anno: 2007
Pagine:
Costo:

Sulla soglia della psicoanalisi è il titolo dell’ultimo libro di Carlo Bonomi, edito da Bollati Boringhieri, ma è bene avvisare fin dall’inizio il lettore che si accingerà a leggere questa avvincente storia delle origini della psicoanalisi, ricca di osservazioni fino ad oggi inedite, che l’autore non rimarrà timidamente sulla soglia della psicoanalisi, ad osservare ciò che da quella prospettiva si offre allo sguardo. Bonomi varcherà ben presto e con audacia quella soglia per scovare quei recessi che la storiografia psicoanalitica ufficiale ha sempre conosciuto ma ha sempre tenuto accuratamente nascosti ai lettori profani. Il sottotitolo del libro, Freud e la follia infantile, ci introduce direttamente in una di queste stanze segrete che sono state fin dall’inizio tenute celate dalla poderosa opera agiografica di Ernest Jones sulla vita e l’opera di Freud, e dagli storici che ne hanno seguito le orme.
Ma anche in quelle opere che si sono preoccupate più della verità storica che della costruzione di una mitologia, troviamo ben pochi riferimenti che ci portino a collegare l’attività del primo Freud neurologo con una clientela infantile. Tutto ciò che il lettore profano conosce riguardo ad un qualche interesse teorico di Freud per le malattie nervose infantili riguarda il suo scritto sulle paralisi cerebrali infantili, al quale per sua stessa ammissione all’amico Fliess si dedicò sempre malvolentieri, e per quanto riguarda la sua pratica clinica conosciamo la sua analisi della fobia di un bambino di cinque anni (Caso clinico del piccolo Hans), che non fu una vera analisi infantile poiché Freud la condusse per interposta persona del padre.

 




Per ciò che riguarda una vera attività pediatrica di Freud come neurologo o addirittura come psicoterapeuta non vi sono dati ufficiali al riguardo. Bonomi ricostruisce questo percorso pediatrico di Freud da Parigi, a Berlino e poi a Vienna. Se è noto che Freud a Parigi seguì le lezioni di Charcot alla Salpêtrière, è meno noto però che egli venne a contatto anche con tutta una letteratura che si occupava degli abusi sessuali ai bambini e aveva seguito con molto interesse le lezioni di Brouardel alla Morge e assistito all’autopsia di qualche bambino deceduto in seguito a violenza sessuale. Finito il soggiorno parigino, Freud si reca a Berlino, dove, "nel policlinico di Adolf Baginsky, che Freud frequenta nelle quattro settimane del suo soggiorno a Berlino, avviene il suo incontro più significativo con la teoria sessuale" (p. 89). Qui Freud verrà iniziato, come dirà alla fidanzata Martha, ai segreti delle malattie infantili, ed è qui che concepirà l’idea di estendere il suo interesse alla clientela infantile quando, aprendo a Vienna il suo ambulatorio privato il giorno di Pasqua del 1886, "incluse "il trattamento delle malattie nervose infantili" tra le sue prestazioni mediche" (p. 173). Rientrato a Vienna, Freud accettò l’incarico di direttore del reparto delle malattie nervose dell’Ospedale Infantile di Vienna che Max Kassowitz gli offrì ancor prima della sua partenza per Parigi.

 

Una parte di questo materiale deriva dalle ricerche di Masson (1984), ma Bonomi aveva richiamato l’attenzione sull’attività pediatrica di Freud già in un articolo pubblicato in inglese nel 1994 e successivamente in un articolo comparso quattro anni dopo sulla rivista Psicoterapia e scienze umane.

Il merito di Bonomi è quello di collegare questi dati storici poco conosciuti dell’attività pediatrica di Freud con la nascita della psicoanalisi e con la costruzione di alcuni concetti chiave della teoria freudiana, a partire dalla teoria della seduzione fino al concetto di castrazione che ha, come vedremo tra poco, antecedenti storici altrettanto ben radicati nelle prime esperienze cliniche di Freud.

La ricostruzione storica di Bonomi è di ampio respiro, e prende le mosse dalla crescente visibilità che assume l’infanzia nel discorso medico del XVIII e XIX secolo. Se un tempo il bambino era anche rappresentato figurativamente come un adulto in miniatura ( come nel famoso quadro di Velazquez, Las Meniñas), nel corso del XIX secolo si va sempre più organizzando una nuova visibilità del bambino che preluderà ad una specificità dell’infanzia che culminerà nella fioritura di tutta una psicologia infantile rispetto alla quale l’opera di Freud sarà in parte in continuità e in parte rappresenterà una rottura rispetto a questa nuova visione dell’infanzia.

Se i primi alienisti, soprattutto Esquirol con il Trattato delle malattie mentali del 1838, avevano assimilato l’infanzia alla follia e organizzato il trattamento morale della follia alla stregua di una enorme impresa pedagogica, in seguito si assisterà ad una svolta che "non si basa sui "fatti" ma su una nuova teoria della mente infantile che finisce per creare i nuovi fatti" (Bonomi, p. 60). Mentre all’inizio del secolo si considerava l’infanzia esente da passioni, ora "per la prima volta si riesce a immaginare che un dolore intenso può permanere a lungo nella mente del bambino" (p. 60). Se i primi alienisti poterono accedere a questa idea di una sensibilità specifica del bambino ancora tramite l’idea dell’ereditarietà e, come dice Morel, delle "predisposizioni organiche viziose tramandate ai figli dai genitori" (p. 63), Freud dal canto suo "convertirà lo schema tipico della degenerazione progressiva nell’idea che i figli di genitori perversi si ammalano psichicamente non tanto per la trasmissione ereditaria ma per gli abusi sessuali che essi compiono sui figli" (p. 63). In questi anni va prendendo forma l’osservazione sistematica del bambino e la nuova psicologia e ci si avvierà alla costruzione di una teoria della mente infantile: "negli ultimi anni dell’Ottocento si profila un’impresa nuova, eccitante e socialmente stimata: leggere l’animo dei bambini" (p. 68). Sul finire del secolo si comincerà a parlare di follia infantile e si giunge alla convinzione che il bambino non è quell’essere esente da passioni che si era creduto, ma è invece "naturalmente perverso", come dirà Compayré nel 1896. Qui vale la pena citare direttamente le parole dell’autore, il quale comincia a sfatare uno dei tanti miti della storiografia psicoanalitica, quello di un Freud "scopritore" di una nuova visione dell’infanzia e svincolato dal pensiero medico del suo tempo. "Si noti per inciso che, stando al racconto canonico della nascita della psicoanalisi, Freud giungerà a rompere con l’idea "convenzionale" dell’innocenza infantile e a compiere la sua grandiosa scoperta che il bambino è "naturalmente perverso", soltanto un anno dopo, alla fine del 1897, scoperta che sarà poi ripetutamente celebrata da Ernest Jones e Kurt Eissler in testa come il frutto coraggioso della sua autoanalisi! Non è forse straordinario che generazioni di psicoanalisti si siano tramandati questa leggenda?" (p. 69).

In questo scorcio di secolo il "male" viene di nuovo incluso nella rappresentazione sociale del bambino, viene avanzata l’equazione tra suggestionabilità ed educabilità, nasce tutta una ortopedia mentale e una attenzione sempre più ossessiva verso i comportamenti sessuali del bambino che culminerà nella grande campagna medica contro la masturbazione come causa principale della follia infantile.

"Tutti questi temi - dice Bonomi — confluiscono nell’opera di Freud fino a formarne una serie di fili che, presi uno per uno, rimangono ben riconoscibili, e che però combinandosi danno vita ad una trama nuova. Ma qui dobbiamo segnalare un duplice errore in cui la riflessione storico-critica sulla psicoanalisi è ripetutamente caduta: dapprima ha cercato di presentare l’azione compiuta da Freud come una "scoperta" (vuoi dell’inconscio, vuoi della sessualità infantile, o altro), ma ogni volta che qualcuno andava a verificare il contenuto specifico di tale scoperta, confrontandolo con le idee dell’epoca, si trovava, per così dire, a mani vuote, dato che quelle stesse idee erano moneta corrente. E a questo punto Freud è apparso come un autore il cui pensiero era avvolto nelle metafore della sua epoca, ma entrambe queste formulazioni non riescono a catturare la specificità dell’inventore della psicoanalisi. E’ chiaro, né potrebbe essere altrimenti, che egli si nutre delle idee del suo tempo" (p.73). Sarà lo stesso Freud a riconoscere il suo debito con la propria epoca in una lettera a Fliess del 5 novembre 1897, e proprio in relazione alla psicologia del bambino: "E’ interessante che ora la letteratura dia tanta importanza alla psicologia del bambino […] Così si rimane sempre figli del proprio tempo, anche con le idee che riteniamo più personali".

Se anche per Freud, come osserva Bonomi, "l’infanzia rappresenta il terreno di passaggio dal primitivismo alla civiltà", tuttavia "quello che per gli altri autori era una progressiva spoliazione dei caratteri primitivi, nell’opera di Freud risulterà una meta impossibile da raggiungere, come attesta il continuo ritornare nei sogni, nei lapsus, nelle azioni mancate, nei sintomi nevrotici, di ciò che viene soppresso" (p.73).

Con la "teoria della seduzione" Freud costruisce il primo modello del funzionamento mentale infantile in risposta a quei traumi sessuali precoci che aveva imparato a conoscere nel suo viaggio di studio a Parigi e che la letteratura medica francese rubricava come "attentati al pudore". Egli tuttavia perverrà a "riconoscere l’ambivalenza e il conflitto nell’animo infantile" soltanto con la svolta teorica del complesso edipico. "Il nesso tra infanzia, perversione e nevrosi verrà così a rappresentare la chiave di volta della sua opera; ma anche qui dobbiamo ribadire che non è Freud a inventare questo nesso" (p.74). Bonomi osserva acutamente che "la costruzione di un’immagine carica di qualità "sessuali" e "perverse" dell’infanzia è una parte essenziale del percorso verso la costruzione di una immagine psicologica del bambino" (p. 75), ma "questo patomorfismo, prima ancora che a Freud, appartiene al suo tempo. Da questo punto di vista il problema vero è quello di capire che cosa avviene nell’opera di Freud dello spazio mentale del suo tempo" (p.75). Lo stesso Freud ha contribuito a mettere fuori rotta i suoi biografi e a tramandare il mito che sia stata la psicanalisi a scoprire la sessualità infantile affermando nel saggio Le resistenze alla psicoanalisi (1924): "La psicoanalisi ha messo la parola fine alla bella favola dell’asessualità dell’infanzia" (OSF, 10, 56).

Questo ampio e circostanziato preambolo storico-critico ci introduce in quella zona d’ombra nella quale si colloca più propriamente la nascita della psicoanalisi e sulla quale la storiografia psicoanalitica ufficiale ha mantenuto fino ad ora il silenzio. Si tratta, in sostanza, di dieci anni dell’attività professionale di Freud che sono stati espunti da ogni storiografia psicoanalitica e durante i quali Freud ha lavorato come neurologo con una clientela prevalentemente infantile presso un ospedale pubblico di Vienna. Come ho già accennato, Bonomi aveva iniziato a colmare questa inaccettabile lacuna storiografica più di dieci anni orsono, e ora nel secondo capitolo del suo volume raccoglie in una cinquantina di pagine dense e appassionanti lo sfondo reale dal quale emerge la psicoanalisi, che non è la storia tramandata da Jones di un pioniere isolato in rotta con le idee del suo tempo, ma invece quella di un neurologo che si trova pienamente inserito nella cultura medica del suo tempo, che si troverà a lavorare per dieci anni con bambini sofferenti di disturbi nervosi che saranno probabilmente i suoi primi e anonimi pazienti isterici, che condividerà con il suo tempo idee e pregiudizi sulla masturbazione infantile, che si incontrerà per la prima volta con la realtà sommersa degli abusi sessuali all’infanzia, con la teoria dei riflessi che egli stesso condividerà per lungo tempo anche a causa dell’ambivalente influsso che ebbe su di lui la lunga amicizia con l’otorinolaringoiatra berlinese Wilhelm Fliess, che assisterà a quello scempio diffuso su larga scala di genitali prevalentemente femminili, ma non solo, quale rimedio organico dell’isteria prima di arrivare a proporre una cura psichica per il male femminile del suo secolo, e ad interventi di castrazione maschile e femminile prima che egli sia in grado di proporre la castrazione come evento simbolico.

Bonomi osserva che Freud "partecipa al mondo della pediatria in un periodo di grandi e veloci trasformazioni; per noi è importante che, come neurologo, egli doveva occuparsi di tutte le malattie dei nervi, compresa l’isteria infantile, che in quegli anni era costantemente associata alla sessualità infantile" (p. 84). Sebbene Bonomi metta in luce che persino il sogno di Irma, il sogno paradigmatico della psicoanalisi, riporta all’esperienza pediatrica di Freud, cosa che è sfuggita probabilmente non solo ai profani, egli è costretto a concludere che "il lavoro di Freud con i bambini non è mai stato incluso fra le esperienze rilevanti per la nascita della psicoanalisi. Questa sconcertante negligenza non sembra essere estranea al desiderio del fondatore della psicoanalisi, dato che nei suoi testi i riferimenti al lavoro con i bambini sono pochi e distorti. In quegli anni, in cui l’isteria era considerata una malattia sessuale, dal suo reparto passavano ogni anno molti casi di isteria infantile, ciò nonostante, quando dovrà raccontare come era nata la psicoanalisi, egli scriverà che le sue idee sulla sessualità infantile erano derivate unicamente dalle analisi sugli adulti, in quanto gli era mancata "l’opportunità di compiere le sue osservazioni direttamente sui bambini"" (pp. 84-85). Dunque lo stesso Freud fu il primo a voler occultare e dimenticare dieci anni di esperienze neuro-pediatriche. Si tratta, osserva Bonomi, di una "reticenza che lascia tanto più perplessi quanto più entra in risonanza con i crescenti dubbi che, dagli anni settanta, sono sorti tra gli studiosi in merito alla scoperta freudiana della sessualità infantile" (p. 85), che più che una scoperta freudiana fu una scoperta del suo secolo. "Insomma Freud descrive se stesso come l’unico che accetta di portare la "responsabilità" di certe idee "scellerate" che pure facevano parte del senso comune" (p. 87). Bonomi osserva acutamente che la scoperta della sessualità da parte di Freud aveva a che fare con "qualcosa in cui si riflettono le dissociazioni del senso comune" (p. 87). Inoltre l’autore mostra le iniziali contraddizioni di Freud su questo tema, poiché, all’inizio egli "aveva preso sistematicamente posizione contro l’etiologia sessuale" (p. 88).

Nelle quattro settimane che Freud trascorse nel policlinico berlinese del pediatra Adolf Baginsky avvenne "il suo incontro più significativo con la teoria sessuale" (p. 89) Baginsky "era noto per essere il principale sostenitore delle cause sessuali dell’isteria nei bambini" (p. 91) e considerava la masturbazione infantile come la conseguenza di stimolazioni esterne e della seduzione da parte degli adulti, nonché come l’origine di una serie di disturbi nervosi e deviazioni dello sviluppo infantile. Baginsky, attento agli aspetti sociali ed epidemiologici delle malattie infantili, considerava la masturbazione "un male che si diffondeva attraverso la seduzione e il contagio" (p. 92). Bonomi osserva che "dieci anni dopo il suo tirocinio con Baginsky, Freud avrebbe dato vita alla cosiddetta teoria della seduzione" (p. 92), e giustamente si chiede perché "presentando pubblicamente la sua teoria nel 1896 non disse di essere stato messo sulla sua strada molti anni prima da Baginsky? Ecco una domanda da aggiungere alla già corposa lista degli interrogativi" (p. 93).

Leggendo questo saggio abbiamo la chiara impressione che molte delle storie della psicoanalisi che sono state pubblicate anche di recente manchino dello spessore storico-critico dell’opera di Bonomi e si riducano a pure cronache, talvolta persino frettolose e lacunose, coma ad es. il recente libro di Dominique Bourdin, Cento anni di psicoanalisi. Da Freud ai giorni nostri, Dedalo 2007, che liquida la teoria della seduzione in dieci righe, o il presuntuoso volume di Jean-Michel Quinodoz, Leggere Freud, Borla 2005, che, prendendo in considerazione l’intera opera freudiana anche con rimandi agli sviluppi posteriori, dimentica stranamente di citare tra i primi scritti di Freud Etiologia dell’isteria. Diventa sempre più difficile classificare opere come queste come opere di storiografia psicoanalitica. Soprattutto si ha la sensazione che questi autori non si pongano domande e non abbiano dubbi, e diano tutto per scontato, sicché anche il lettore è condotto ad assimilare acriticamente una cronaca psicoanalitica che descrive la psicoanalisi come una scienza nata nella mente di un uomo chiuso nel suo studio in Berggasse 19. Gli unici saggi che in questo panorama meritano seria considerazione e apprezzamento sono il volume di Speziale-Bagliacca, Freud messo a fuoco, pubblicato sempre da Bollati Boringhieri nel 2002, e il recente volume di Eli Zaretsky, I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi, edito da Feltrinelli nel 2006.

Ben diversa la lettura del libro di Bonomi, che conduce il lettore a condividere con lui interrogativi e dubbi, a indispettirsi e scandalizzarsi per le menzogne, le ipocrisie e i silenzi che ancora coprono molti aspetti della nascita della psicoanalisi, e che conduce il lettore a condividere con lui un atteggiamento critico. Così, ad esempio, proprio sul tema della seduzione, che molte storie della psicoanalisi hanno riportato acriticamente come il più clamoroso ripensamento di Freud che avrebbe inaugurato il periodo veramente psicoanalitico del suo pensiero, Bonomi, anziché seguire questa versione ufficialmente consolidata, ci invita ad una riflessione critica e ci dice che "la domanda che dobbiamo porci non è perché Freud "abbandona la teoria del trauma reale, ma al contrario perché non ci riesce, che cos’è che lo frena, perché non percorre fino in fondo la strada che pure ha imboccato fin dal 1893" (p. 39). Così ancora, sul tema della masturbazione, Bonomi mostra "come persino Freud sia rimasto prigioniero della convinzione che la masturbazione fosse causa di danni organici" (p. 94). Nell’ambito di questa "grande paura" che ha ossessionato l’Occidente per quasi due secoli, "inizia a evidenziarsi il nesso tra isteria, infanzia e masturbazione" (p. 95), quantomeno nel senso che la masturbazione infantile determinerebbe una predisposizione all’isteria.

Con la nascita della teoria dei riflessi che spiegava vari sintomi somatici come derivanti dall’azione a distanza, per via riflessa, dell’irritazione degli organi genitali, la masturbazione era considerata non solo come atto involontario e compulsivo, ma anche come effetto delle "azioni perverse compiute dai genitori sui figli" (p. 99).

Poiché la teoria dei riflessi non riconosceva alcuna differenza, ai fini dell’effetto patogeno, tra una irritazione genitale impersonale o prodotta intenzionalmente da un adulto, "la lotta contro la masturbazione che attraversa tutto l’Ottocento era, simultaneamente, una lotta contro l’abuso sessuale" (p. 100). Questo è un dato importante che testimonia come l’abuso sessuale infantile fosse una realtà ampiamente riconosciuta già nella seconda metà dell’Ottocento prima di diventare, secondo molti cronisti psicoanalitici, il fantasma fondatore della psicoanalisi. Uno storico di indiscutibile valore, come Michel Foucault, parlando della crociata contro la masturbazione nel corso del XIX secolo afferma che "la causa di masturbazione più frequentemente invocata nella crociata è la seduzione, la seduzione da parte dell’adulto: la colpa viene dall’esterno […] per lo più, sono le istigazioni involontarie e imprudenti dei genitori o degli educatori, durante le cure e le pratiche igieniche […] Si tratta anche delle eccitazioni volontarie (e stavolta più perverse che imprudenti) provocate dalle nutrici quando vogliono far addormentare i bambini. E’ la seduzione pura e semplice da parte dei domestici, dei precettori, dei professori. La campagna contro la masturbazione si orienta molto presto, possiamo dire sin dall’inizio, contro la seduzione sessuale dei bambini da parte degli adulti e soprattutto da parte dell’ambiente circostante. Vale a dire a opera di tutti gli individui che, all’epoca, costituiscono le figure statutarie della famiglia. Il domestico, la governante, il precettore, lo zio, la zia, i cugini e così via […] L’origine della masturbazione, insomma, è il desiderio degli adulti per i bambini".

Ma poiché il fulcro patogeno rimane la masturbazione, nel momento in cui si stabilisce il nesso tra masturbazione infantile ed isteria si assisterà al dilagare di una serie di trattamenti chirurgici pelvici (clitoridectomia, ovariectomia, infibulazione) che porteranno a gravi mutilazioni genitali delle donne e delle bambine. "Gli anni in cui Freud compie il suo viaggio a Parigi e Berlino - ci informa Bonomi — sono anni decisivi per il diffondersi della castrazione […] La nascita della psicoanalisi viene cioè a coincidere cronologicamente con la massima espansione dei trattamenti chirurgici dell’isteria (per lo meno in Europa, perché negli Stati Uniti la loro espansione continuerà ancora a lungo). Come è possibile — si chiede Bonomi — che non vi sia un solo testo di psicoanalisi che faccia riferimento a questo stato delle cose?" (pp. 103-4).

Fortunatamente Bonomi ristabilisce una equità storica che non eravamo abituati a conoscere nella storiografia psicoanalitica e non lascia tregua al lettore catturando la sua attenzione con rivelazioni sempre più sconcertanti. Ci siamo appena ripresi dalla rivelazione che in una gran parte dei casi di isteria la terapia veniva attuata mediante la castrazione delle donna, terapia nella quale si intrecciano intenzioni terapeutiche e sadismo punitivo attraverso la ritraumatizzazione genitale della donna, che veniamo messi dinanzi alla consapevolezza che è proprio dalle contraddizioni aperte da questi trattamenti che trarrà origine la psicoanalisi. "Le contraddizioni che abitano il sapere medico sembrano addensarsi attorno a questo punto fino a provocare uno squarcio sul terreno delle certezze dell’uomo di fine Ottocento, ed è da questo squarcio che si originerà la psicoanalisi al centro della psicoanalisi vi sarà infatti, fin dall’inizio, il problema della ripetizione del trauma nella terapia, la questione cruciale della ritraumatizzazione. Anche qui la psicoanalisi non s’inventa proprio niente, ma entra direttamente nelle contraddizioni profonde che agitano il senso comune, promuovendone una gestione più consapevole" (p. 105).

Bonomi si chiede se fossero queste pratiche cruente sui genitali infantili quei "segreti delle malattie dei bambini" che Freud non ebbe il coraggio di rivelare alla fidanzata. E’ probabile, perché, conclude l’autore, "tutto sembra indicare che al tempo del tirocinio di Freud l’operazione [la circoncisione] fosse parte integrante delle misure utilizzate da Baginsky nelle malattie dei nervi nei bambini" (p. 109). Che Freud, del resto, fosse informato sul tema della castrazione lo deduciamo da una lettera a Fliess del 24 settembre 1900 nella quale consiglia all’amico berlinese la lettura del libro di K. Rieger, autore non certo favorevole alla psicoanalisi, che aveva definito una "psichiatria da vecchie comari", dal titolo Die Kastration in rechtlicher, sozialer und vitaler Hinsicht betrachtet (La castrazione considerata sotto l’aspetto giuridico, sociale e vitale). Dunque il tema della castrazione era noto a Freud non solo attraverso la mitologia, che tra l’altro aveva interpretato erroneamente, ma anche attraverso le opere scientifiche del tempo e la pratica medica del suo secolo. "L’incontro di Freud con la castrazione nel corso del suo tirocinio pediatrico spiegherebbe - secondo Bonomi - la sua iniziale avversione all’etiologia sessuale, nonché le lacune, reticenze e ambiguità che si addensano attorno alla sua partecipazione al mondo dei pediatri." (p. 110). Bonomi ci fa comprendere come questo "non detto" relativo alla castrazione reale con la quale Freud si incontrò in quegli anni ritorni costantemente nelle sue opere successive. "Freud non parlò mai della pratica della castrazione delle donne nevrotiche e delle sue varianti infantili, come se fosse un tabù; eppure, attraverso la sua opera, egli non farà altro che parlare di questa cosa non detta" (p. 110).

Ora è arrivato il momento di abbandonare per un po’ il lettore, il quale troverà da solo le più stimolanti suggestioni nel libro di Bonomi. Mi premeva inquadrare lo spessore culturale e documentario di questa storia delle origini della psicoanalisi e il tema del tutto nuovo delle relazioni e frequentazioni di Freud con la cultura e l’ambiente pediatrico del suo tempo, che pone l’origine della psicoanalisi in una luce completamente nuova e su uno sfondo ben più complesso di quello tramandatoci dalla maggior parte delle cronache psicoanalitiche. Sintetizzando in poche parole, Bonomi mostra come l’emergere del paradigma psicologico relativo all’infanzia comporti anche lo spostamento dell’attenzione dal trauma reale all’idea della suggestionabilità infantile. Qualche anno più tardi, lo stesso spostamento dal trauma reale al mondo delle fantasie isteriche ad opera di Freud, con la rinuncia alla teoria della seduzione, verrà salutato come l’atto di nascita della psicoanalisi.

Il tema del trauma è ancora oggi talmente controverso, nonostante l’ampia opera di rivalutazione della figura di Ferenczi e della sua continuazione della teoria traumatica freudiana dovuta in Italia allo stesso Carlo Bonomi assieme a Franco Borgogno, che come ha detto recentemente Bohleber nella bella relazione al XLV Congresso dell’IPA di Berlino nel 2007, "Considerare la realtà effettuale esterna è stato spesso interpretato come attacco alla realtà psichica e all’importanza dell’inconscio. Tale atteggiamento si è manifestato nel modo più chiaro nell’interpretazione dell’abuso sessuale". Bonomi non manca di affrontare anche tale aspetto che è all’origine di tante controversie non ancora sopite, e lo fa in una pungente polemica affidata alle ultime pagine del libro, quelle Note e frammenti che io consiglio al lettore di leggere invece come introduzione, poiché in quella trentina di pagine che non sono frammenti sparsi ma una sintesi organica e coerente è contenuta tutta la vis polemica e la critica costruttiva di Bonomi non solo verso le teorie freudiane ma anche, tra le righe, verso chi se ne fa acriticamente paladino. Bonomi osserva che "la scoperta della realtà psichica è stata eretta […] a scusa per continuare a ignorare la realtà. Basti pensare a come Ernest Jones, l’uomo che per oltre trent’anni è stata la massima autorità psicoanalitica, ha presentato la svolta del 1897 nel primo volume della vita ed opere di Freud: "Bisognava mettere da parte i desideri incestuosi dei genitori verso i figli come pure gli eventuali atti del genere, e occuparsi invece del reperto, generale nei bambini, di desideri incestuosi verso i genitori e in modo caratteristico verso il genitore del sesso opposto". E’ da non credere: Jones raccomanda di ignorare gli atti incestuosi dei genitori, per occuparsi unicamente delle fantasie delle figlie!" (p. 250). Non dobbiamo pensare che la meraviglia e lo sdegno di Bonomi (qualità intellettuali che si incontrano sempre più raramente) siano rivolte solo al passato e alla storiografia di quegli anni, perché, dice Bonomi, più che Freud "il problema riguarda i suoi seguaci e il modo in cui il movimento ha funzionato, premiando l’allineamento e le doti burocratiche al posto dell’originalità e del coraggio" (p 250), e questa è una di quelle ragioni per la quale le teorie innovative di Ferenczi sul trauma sono state così a lungo non solo ignorate ma volutamente messe al bando.

L’idea di trauma psichico, osserva Bonomi, si impone inizialmente ancora in connessione con la chirurgia genitale, alla quale viene riconosciuto un effetto terapeutico non più diretto ma in virtù della paura che produce, dello shock psichico che ne deriva. Vi è quasi una utilizzazione omeopatica del trauma come rimedio per controbilanciare quei traumi patogeni che hanno prodotto il sintomo nevrotico. In questo senso Bonomi potrà dire che "la psicoterapia è l’erede delle operazioni chirurgiche" (p.124), e del resto Freud stesso usò ripetutamente la metafora chirurgica per riferirsi alla psicoterapia. Tuttavia "nessuno di questi medici era interessato a sapere di che cosa aveva veramente paura il paziente. E’ soltanto nell’ambito delle terapie derivate dall’ipnotismo che si aprono alcune finestre in questa direzione, con l’indagine sugli incidenti che hanno generato la paura e con il riconoscimento della sensibilizzazione del paziente alla persona dell’ipnotista […] Eppure il giovane Freud, al quale capita di affacciarsi sulla scena terapeutica nel breve momento in cui si apre la finestra sulla paura, è l’unico di questi autori (con l’eccezione forse di Janet) che invece di usare la psicoterapia per aumentare l’efficacia dei trattamenti fisici, la usa per entrare nel mondo delle paure del paziente a partire dai suoi "traumi" […] E’ l’inizio della più straordinaria indagine sulla paura mai tentata dall’uomo" (p.126). Si chiude qui il secondo capitolo del libro di Bonomi dedicato al tema della "paura" e si apre il terzo capitolo intitolato "dolore" e dedicato alla ricostruzione della storia del trauma psichico.

Nelle quaranta pagine dedicate al trauma Bonomi riscrive e amalgama saggi precedenti e altrettanto belli dedicati alla storia del trauma, e ne ripercorre il costituirsi dal concetto di "irritazione spinale" e successivamente della cosiddetta railway-spine syndrome fino alla nascita del concetto di trauma psichico, e alla sua dissoluzione ad opera del paradigma ideogenetico, che farà entrare in crisi profonda il concetto di trauma portando Freud ad abbandonare la teoria della seduzione o del trauma reale. Su questo tema ancora oggi così dibattuto Bonomi assume una posizione altamente equilibrata superando quelle dicotomie faziose che continuano a persistere sul tema del trauma e della seduzione reale. "Siamo immersi in una tradizione - osserva Bonomi — che ci ha abituato a leggere l’opera di Freud a partire dall’abbandono della teoria del trauma reale del 1897, indipendentemente che si giudichi questa svolta una conquista straordinaria o un imperdonabile errore […] Questa polarizzazione ha però impedito di vedere l’inesauribile contraddittorio che […] scorre all’interno dell’opera di Freud" (p. 153). Nonostante Freud abbia rinnegato la teoria del trauma reale "l’idea di trauma continuerà a riaffiorare nel suo discorso senza mai riuscire ad essere del tutto assimilata o eliminata" (p. 156).

Avevo promesso di abbandonare il lettore perché fosse lui stesso a decidere di intraprendere questa avvincente lettura e invece mi accorgo che, mentre io stesso rileggo questo libro per la recensione, non riesco a privare il lettore di quegli aspetti che ritengo delle vere rivelazioni per la storiografia psicoanalitica, ma lo farò ancora per poco per non dilungarmi eccessivamente e per non togliere del tutto al lettore il piacere della scoperta. La dissoluzione del trauma ci porta sul percorso della castrazione e poi si incrocia con la strada di Edipo. "Da questo momento in poi questa storia tipica, identificata con la leggenda di Edipo, viene assunta a schema unificatore delle storie di vita reali […] e la castrazione diventa il nuovo simbolo universale della sofferenza […] E’ difficile capire fino a che punto Freud sia consapevole che questa scelta equivale ad ammettere che raccogliere, mettere insieme e raccontare la storia di una vita senza ricorrere a un mito è impossibile […] Il bisogno di ricostruire una storia clinica particolare richiamandosi a un prototipo universale raggiunge il suo apice con il caso dell’uomo dei lupi […] E’ in questo contesto che Freud postula l’esistenza di una serie di traumi primordiali tramandati ai posteri in forma di fantasia (la seduzione, il coito tra i genitori, l’evirazione), così che, ritoccando e completando i ricordi con la fantasia, il bambino non fa altro che colmare "le lacune della verità individuale con la verità preistorica" […] C’è certamente qualcosa di grandioso in questo tentativo di fondare il senso della vita in un mito, riconducendo il mito a "fatti" realmente accaduti; tuttavia la ricaduta sul piano della clinica è disastrosa, dato che, saturando le lacune con schemi precostituiti, diventa difficile ascoltare questo paziente qui e ora. Fra l’altro la conseguenza paradossale di questa prospettiva è che subire o meno un trauma non fa alcuna differenza, poiché le "idee patogene" che le esperienze traumatiche infantili possono generare, sono già presenti nel patrimonio ereditario della mente in forma di "fantasmi originari"" (p.163).

L’ultimo capitolo, intitolato "Cosmogonia", affronta il problema della castrazione a partire dalle sue origini mitiche fino al suo significato simbolico. In un paragrafo dedicato a "Freud psicoterapeuta infantile" Bonomi rintraccia nelle opere di Freud una serie di testimonianze di una attività psicoterapeutica con bambini e giovani adolescenti che era fino ad oggi sfuggita a chi non si era posto nell’ottica che dieci anni di attività pediatrica svolta "esattamente negli anni in cui prende forma la psicoanalisi" (p. 173) non potessero non aver lasciato una qualche testimonianza nell’opera di Freud. Il filo della castrazione che percorre questo capitolo è intrecciato non solo con l’opera teorica di Freud ma anche con i suoi personali complessi nevrotici dei quali Bonomi ci svela la trama nascosta che traspare fin nelle sue ultime opere, offrendoci una originale rilettura del saggio di Freud su L’uomo Mosè e la religione monoteistica.

Chiude questa preziosa monografia un’appendice di Note e frammenti che in realtà tali non sono, poiché ripercorrono tutti i temi affrontati nei quattro capitoli del libro senza ripetizioni, ma continuando ad offrire nuove prospettive e spunti critici sull’origine della teoria psicoanalitica e sulla sua evoluzione.

Come Foucault aveva affermato che la teoria psicoanalitica dell’incesto aveva potuto essere accettata dalla famiglia borghese perché il pericolo era stato collocato nel desiderio del bambino, così, a proposito della castrazione, Bonomi dirà: "Se Freud non avesse trasformato qualcosa di così penosamente vero e reale in un "mito", chi mai lo avrebbe ascoltato?" (p. 249).

Per concludere, il saggio di Bonomi si presenta come la più lucida, rigorosa e coraggiosa opera nel panorama della storiografia psicoanalitica degli ultimi anni; un’opera destinata non solo agli specialisti del settore, ma anche a tutti quei lettori che, dotati di spirito critico e stanchi di leggere pagine noiose di cronisti che non sanno che cosa significhi scrivere la storia delle idee, vogliono accostarsi finalmente ad una vera storia delle origini della psicoanalisi, una storia che non parla solo del suo fondatore, delle sue personali idiosincrasie e della sua nevrosi, ma che colloca l’origine della psicoanalisi e il suo fondatore nello Zeitgeist della sua epoca, che rintraccia lo stretto legame tra le sue teorie e le sue revisioni con la cultura e la pratica medica del suo tempo. Un merito indiscusso del libro di Bonomi è di avere scritto un nuovo capitolo della storia della psicoanalisi che non potrà d’ora in poi più essere ignorato: lo stretto legame tra la nascita della psicoanalisi, la teoria e la pratica pediatrica di fine Ottocento e dieci anni di pratica neuropediatrica dello stesso Freud che erano stati fino ad ora occultati non solo dalla storiografia psicoanalitica, ma dallo stesso fondatore della psicoanalisi.

 

[Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’Introduzione di questo importante libro, che copre davvero una lacuna non irrilevante all’interno della sterminata bibliografia relativa a Freud. Le implicazioni epistemologiche, storiche e teorico-cliniche del discorso di Bonomi richiedono l’apertura di uno spazio di riflessione e di discussione, che queste pagine dell’Introduzione riusciranno senza dubbio a sollecitare ]

 

Introduzione

Questo breve lavoro nasce da una preoccupazione riassumibile in una domanda: come possiamo collocare la scoperta freudiana nel contesto storico senza appiattirne i contorni? Il richiamo ai "margini" che appare nel titolo riassume la doppia esigenza di riconnettere il corpus psicoanalitico alla storia della mente nell’età moderna e dall’altro ci aiuta a ridefinire lo sfondo sul quale noi dobbiamo posizionare l’opera di Freud se vogliamo che essa ci risulti ancora significativa.

L’azione di posizionamento contro uno sfondo è qualcosa che di solito non viene neppure avvertito come una azione che il lettore compie. Eppure è una azione essenziale perché il senso, la direzione e la forma di quello che il lettore vedrà, dipende in buona parte da questa azione, per lo più affidata agli automatismi della tradizione. Capita, però, a volte, che questi automatismi non funzionino più e che si perda quella presa diretta nelle cose che fa sì che esse ci appaiano come dotate di senso. Credo che questo sia avvenuto anche con la psicoanalisi. È avvenuto in modo particolarmente eclatante con il fenomeno dei "Freud bashers" (dei "picchiatori di Freud") che ha caratterizzato la scena internazionale degli anni 1990, quando una serie di intellettuali provenienti da ambiti vari ha incominciato a prendersela con il padre della psicoanalisi nel corso di esercizi di lettura che, si badi bene, non sempre erano sciocchi (a volte presentavano alcune analisi brillanti, per lo meno all’inizio), ma che però scontavano il fatto di non sapere più su quale sfondo posizionare l’opera di Freud. Così, alla fin fine, se la prendevano con un Freud che era diventato un concentrato di banalità e luoghi comuni e in cui si rispecchiava un mondo che i lettori non sentivano più come loro, un "Freud di cartapesta" che aveva smesso di parlarci.

Ma la vera questione è che già da un po’ Freud aveva difficoltà a farsi capire. Quando incominciai ad interessarmi della psicoanalisi, a cavallo tra gli anni 1970 e ’80, il suo mondo non era così lontano come lo è oggi, ma non era nemmeno più tanto vicino. Per quanto nessuno dubitasse della originalità del padre della psicoanalisi, non era più chiaro in che cosa consistesse quella che allora si chiamava la sua "rottura epistemologica". Introducendo la nozione di " coupure épistémologique" Althusser (1963-64, p. 78) aveva cercato di catturare la " rottura della continuità in relazione al campo anteriore " e l’effetto di " sconvolgimento " del campo sul quale era sorta l’opera di Freud. Sulla questione vedi il breve capitolo dedicato ad essa da Borch-Jacobsen e Shamdasani nel Dossier Freud (2006, pp. 163 sgg.), nel quale sono posti alcuni importanti interrogativi, che comunque non ricevono una soluzione. Il presente libro nasce precisamente all’insegna della necessità di chiarificare il senso di tale rottura, senza negare la storia (come nella tradizione dogmatica della psicoanalisi), ma anche senza negare la differenza introdotta dalla psicoanalisi. Se nel presente libro tanto spazio sarà dedicato alla prassi della castrazione reale, è proprio perché tale prassi viene individuata come il terreno in cui si rende visibile la rottura epistemologica della psicoanalisi. Come scrivo in un lavoro recente intitolato "Dalla mutilazione del genitale al culto del fallo" (Bonomi, 2006): " Si deve dunque riconoscere che la "rottura epistemologica" non è il titolo di una soluzione ma di un problema aperto, di una sfida costate a rimettere in questione la psicoanalisi in quanto sapere costituito, non per negare la sua legittimità, ma per ritrovare le sorgenti della sua vitalità nelle pieghe di una storia che la stessa psicoanalisi è chiamata a dispiegare. Se non si deve infatti negare la storia, non la si deve neppure sovrastimare. Il suo potere esplicativo non è così grande. La storia è piena di luoghi che non sono trasparenti e quello della castrazione è specialmente oscuro. Storia e psicoanalisi possono allora cercare di illuminarlo reciprocamente." La scoperta dell’inconscio non poteva essere perché, come Ellenberger (1970) aveva mostrato nella sua poderosa ricostruzione storica delle radici della psicologia dinamica, l’idea di forze dinamiche inconsce era moneta corrente ben prima della nascita della psicoanalisiQuanto al linguaggio anodino e altisonante della metapsicologia, esso aveva smesso di alimentare l’illusione di una iniziazione ad un sapere superiore, ed anzi era stato riconosciuto come così inquinato da promuovere tentativi di eliminarlo, come quelli di George Klein (1975) e di Roy Schafer (1976). Il primo lanciò un duro attacco al concetto di pulsione sessuale come accumulo autonomo di tensione somatopsichica all'interno di un apparato psichico concepito come sistema idraulico, evidenziando il carattere di risposta a stimolazioni esterne della sessualità e la sua inerenza ad un tessuto di significati e relazioni umane interiorizzate. Tutto questo, per Klein, era presente nel Freud clinico, il quale doveva però essere liberato dalle analogie pseudo-esplicative del Freud teorico. Il secondo era giunto ad auspicare Una nuova lingua per la psicoanalisi, in un testo che iniziava con parole così forti che meritano di essere ricordate:

Gli psicoanalisti freudiani non possono più a lungo permettersi di mantenere, senza sfidarla, la convinzione che le proposizioni psicoanalitiche debbano essere formulate nei termini della metapsicologia di Freud o in termini con essa compatibili. Di fatto abbiamo smesso da tempo di usare questo miscuglio di linguaggio fisico-chimico e biologico evoluzionista. Mi riferisco al linguaggio eclettico di forza, energia, catexis, meccanismo, sublimazione, neutralizzazione, da un lato e funzione, struttura, impulso, oggetto e adattamento dall'altro. (Schafer 1976, p. 3)

 

La questione del vocabolario della metapsicologia era importante perché implicava la definizione della posizione che Freud occupava rispetto ai saperi tradizionali. Uno dei detonatori di questo problema era stata la pubblicazione postuma del Progetto di una psicologia, un manoscritto incompiuto che Freud aveva inviato nel 1895 all'amico di Berlino Wilhelm Fliess. Il lavoro faceva parte di un voluminoso carteggio che copriva gli anni degli inizi della psicoanalisi, rimasto fra le carte della vedova di Fliess e poi acquistato dalla principessa Marie Bonaparte nel 1936. Nel 1950 buona parte delle lettere e delle minute vennero pubblicate a cura di Marie Bonaparte, Anna Freud e Ernst Kris nel volume intitolato Aus Anfängen der Psychoanalyse (tradotto in italiano nel 1961 come Le origini della psicoanalisi). Il volume presentava alcune cose di grande interesse e ne taceva altre; ciò che al momento colpì maggiormente fu proprio il Progetto, il quale rivelava l’adesione profonda di Freud al programma riduzionista di alcuni suoi maestri, come Brücke, il quale era stato una figura importante del movimento di biofisica sorto a Berlino a metà Ottocento con il fine di introdurre in fisiologia l’orientamento meccanicistico-matematico. Il Progetto si proponeva infatti di descrivere il funzionamento dell’apparato psichico come un sistema di neuroni governato da processi puramente quantitativi, ossia senza fare ricorso alcuno alla soggettività, ed era formulato in un linguaggio talmente astratto che finiva per scombinare la narrazione della nascita della psicoanalisi come scoperta di fatti clinici — la qualcosa rendeva necessario elaborare una nuova storia o introdurre un qualche aggiustamento.

Fu Kris ad incaricarsene suggerendo, nella prefazione al volume, che la nascita della psicoanalisi coincideva con la transizione da un Freud prevalentemente "fisiologo", quale è attestato dal Progetto del 1895, ad un Freud prevalentemente "psicologo", quale è rivelato da L'interpretazione dei sogni del 1899. Il principale punto di svolta veniva individuato nella "autoanalisi" del 1897 e nella inerente scoperta della sessualità e passionalità edipica infantile. Sarebbe stato nel corso di questo "spostamento degli interessi scientifici" che il vecchio vocabolario fisiologico avrebbe acquisito nuovi significati psicologici (Kris 1950, p. 528). Kris poteva così scrivere:

Nel corso di questa evoluzione alcuni hanno avuto l'impressione che i principi fondamentali della psicoanalisi debbano considerarsi invecchiati, perché molti dei loro termini derivano dalla terminologia scientifica degli ultimi due decenni del secolo scorso. Il fatto è incontestabile ... Tuttavia è anche vero che la terminologia tradizionale ha acquistato con la psicoanalisi un nuovo significato che spesso ha ormai poco a che fare con quello originale. (p. 538)

Questa strategia esplicativa venne ripresa da Ernes Jones, il quale scrisse nel primo volume di Vita e opere di Freud, che questi "dava ai termini che usava dei significati psicologici che li rendevano indipendenti dal loro contesto originale" (1953, p. 437), e sistematicamente adottata da James Strachey, il curatore della Standard Edition.

Questo aggiustamento rimandava le difficoltà e i dubbi senza risolverli: che senso ha mai, infatti, mantenere dei termini fisicalistici e biologici, se si vuole che essi siano intesi in senso psicologico? Non sarebbe stato più sensato usare un vocabolario psicologico, se di questo si trattava? Un momento cruciale del crescente disagio verso il vocabolario psicoanalitico fu l'incontro tra studi storici (in particolare Bernfeld 1944, 1951, Amacher 1965) e studi teoretici nella tradizione di Rapaport che si realizzò nello studio di Robert Holt del 1965 sull'influenza degli assunti neurobiologici nel pensiero freudiano. In esso Holt affermava:

Da questi studi storici, mi si è imposta la seguente formulazione sommaria: molti dei risvolti più enigmatici e apparentemente arbitrari della teoria psicoanalitica, che comprendono asserzioni che sono false al punto da non essere in alcun modo verificabili, sono o assunti biologici nascosti o risultano direttamente da tali assunti, che Freud imparò dai suoi insegnanti di medicina. (p. 115)

Holt prendeva posizione contro quella tendenza a sminuire l'impatto dei vecchi termini neurofisiologici sulla creazione della nuova teoria psicologica che aveva portato Strachey a dire a proposito del Progetto che ciò che Freud vi aveva scritto in termini neuro-fisiologici risultava "valido e molto più intelleggibile se tradotto in termini mentali" (Strachey 1957 p. 164; cit. in Holt 1965, p. 129). "Al contrario", Holt ribadiva, "io credo che molte delle oscurità, fallacie e contraddizioni interne della teoria psicoanalitica sono piuttosto derivati diretti della sua eredità neurologica" (p. 129). Questa critica metteva in discussione l'idea che, nel suo atto di nascita, la psicoanalisi avesse pienamente convertito il senso dei "vecchi" termini neuro-fisiologici per significare qualcosa di completamente "nuovo" e "psicologico".

Molti contributi di quegli anni nacquero come tentativi di risolvere questa tensione tra vecchio e nuovo. Paul Ricoeur, nel monumentale sforzo interpretativo del 1965, si attenne, come un equilibrista, all’assunto che la terminologia psicoanalitica tratta dalle scienze naturali fosse "semi-metaforica", e Daniel Lagache, introducendo il vocabolario della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis (1967) ammise che lo "scandalo" della psicoanalisi consisteva nel fatto di parlare di cose che per il senso comune non esistono neppure:

lo scandalo della psicoanalisi non consiste tanto nell'importanza da essa attribuita alla sessualità, quanto nell'introduzione della fantasmatica inconscia nella teoria del funzionamento mentale .... ma il linguaggio comune non ha le parole necessarie per designare strutture e processi psichici che per il senso comune non esistono neppure, per cui è stato necessario inventare delle parole ... (Lagache 1967, p. VII)

Lagache toccava qui un problema cruciale, attorno al quale inizieranno presto a convergere i tormenti dell’epistemologo e dello storico, il problema del rapporto tra psicoanalisi e senso comune. Se Lagache si accontentava di dire che Freud aveva sottratto le parole della psicoanalisi dal linguaggio ordinario, su questo punto si sarebbero concentrate alcune delle obiezioni più interessanti degli anni successivi. Partendo da una concezione del linguaggio ispirata da Wittgestein, come di un "insieme di regole per costituire una versione del mondo", Schafer (1976) accusò il vocabolario di essere molto più seriamente implicato nella costituzione della esperienza e dei "fatti" psicoanalitici di quanto fosse comunemente presunto. Come psicoanalisti, egli diceva, "abbiamo imparato a parlare" una certa lingua, abbiamo "acquisito una competenza nello sviluppare le implicazioni di questi termini e nell'estendere le loro applicazioni" fino a credere di possedere un "sapere preconcettuale" che esisteva prima e indipendentemente dalle parole. Come era avvenuto questo incantesimo? Schafer riteneva che il linguaggio fosse implicato nella creazione di "fatti" attraverso il nascosto uso di analogie operative che avrebbero sottilmente organizzato la molteplicità dell'esperienza nell'unità del discorso. Queste analogie derivavano dalle tradizioni scientiste cartesiana, newtoniana e darwiniana in cui Freud era cresciuto, le quali potevano a loro volta essere considerate come versioni sofisticate delle metafore concretistiche che pervadono il linguaggio quotidiano e che, a loro volta, sarebbero derivate dall'esperienza infantile corporea e indifferenziata. Nella sua teorizzazione metapsicologica, Freud avrebbe fatto un uso sistematico di questi modi figurati, concretistici e impropri di descrivere le azioni mentali. O, come dirà alcuni anni più tardi, egli avrebbe intessuto i suoi racconti metapsicologici nella doppia trama della metafora della "macchina" newtoniana e della "bestia" darwinista, le quali rispecchiano al tempo stesso vissuti corporei e racconti infantili universali (Schafer 1980-81). Freud avrebbe così avvolto le sue intuizioni psicologiche nelle due strutture narrative principali del suo tempo, introducendo nel suo argomentare metapsicologico assunti metafisici come il meccanicismo e l'animismo, fallacie logiche come l'errore categoriale e il regresso all'infinito, ed opzioni morali come il determinismo perfetto che nega all'uomo ogni libertà e responsabilità. Quella che tradizionalmente è stata chiamata metapsicologia, arriva a dire Schafer all'inizio degli anni Ottanta, è il risultato di una "distillazione di senso comune sofisticato":

Il senso comune sofisticato è la fonte degli assunti precritici da cui sono derivate le strutture narrative della psicoanalisi ... La psicoanalisi non prende il senso comune qual è, ma lo trasforma in un distillato più completo … Tradizionalmente questo processo di elevazione del senso comune è stato chiamato metapsicologia psicoanalitica. (Schafer 1980-81, p. 207)

Formulata nel suo tipico stile provocatorio, questa tesi di Schafer veniva in un certo senso a chiudere il lungo e travagliato periodo della cosiddetta "crisi della metapsicologia": una volta aperte e dispiegate, le analogie attorno a cui era costruito lo scandaloso linguaggio freudiano si erano rivelate come un concentrato di senso comune!

Se la stagione della "crisi" poteva dirsi chiusa era soltanto perché, con questa mossa, tutta la problematicità della metapsicologia si era trovata di colpo trasferita al senso comune. Il senso comune non era più ovvio: si doveva imparare ad ascoltarlo in modo nuovo. Ma che cosa era il senso comune? Era davvero riconducibile ad un unico insieme di vissuti corporei infantili universali, sempre uguali a se stessi in qualunque tempo e luogo, come pretendeva Schafer (ma in fondo anche Freud), o i vissuti corporei infantili dovevano a loro volta essere visti come condizionati dalla cultura, come, tanto per fare un esempio e richiamarsi a un autore divenuto via via più rilevante, era stato mostrato da Elias (1969-80) rispetto al continuo modificarsi della soglia della vergogna e del disgusto nel corso del processo di civilizzazione? E poi, la felice idea di Lagache che lo scandalo della psicoanalisi consisteva nella sua rottura con il senso comune, poteva essere riformulata nei termini di una dialettica interna? Domande come queste richiedevano non solo di riposizionare la psicoanalisi sullo sfondo della tradizione da cui era emersa, ma anche di entrare in questo sfondo per identificare uno a uno i punti di continuità e di discontinuità.

I vari studi di quegli anni - fra i quali è doveroso ricordare quello di Sulloway (1979) per il suo straordinario impatto — spingevano sempre più a riconoscere il pensiero del fondatore della psicoanalisi come prigioniero di assunti e schemi di pensiero acriticamente incorporati nella sua dottrina attraverso gli studi di medicina. Come scriveva Holt in un saggio del 1984 "tutti noi siamo metafisici, implicitamente se non esplicitamente" (p. 348), in quanto i nostri pensieri e la nostra condotta sono sottilmente guidati da "metafore fondanti" ("root metaphors") e "ipotesi sul mondo" in merito a che cosa è la realtà, al posto che l'uomo occupa nell'universo, al modo in cui conosciamo. Era ormai diventato chiaro che il "mondo" che si rifletteva nell’opera di Freud era lontano e diverso dal nostro, per quanto si continuasse a riconoscere che egli avesse determinato più di ogni altro la mutazione di quel mondo vecchio in quella che Holt chiamava "la moralità moderna e la nostra visione del mondo". Ma non si sapeva più come tutto ciò fosse avvenuto. La timida ipotesi dello studioso più autorevole e rappresentativo della "crisi della metapsicologia" era che l’opera di Freud rappresentasse un passo verso una nuova sintesi, tutta da venire, tra umanesimo e meccanicismo. In quegli anni si sapeva ancora che Freud era stato un innovatore, ma non si riusciva più a toccare con mano il carattere innovativo del suo pensiero, e questo perché, divenendo parte dell’aria che si respira, aveva perso quella solidità necessaria al tatto. Non c’erano più confini netti né margini spigolosi: le concezioni freudiane si erano fuse con la nostra cultura fino a formare "l’unica mitologia occidentale che gli intellettuali contemporanei hanno in comune", come scriverà poco dopo Harold Bloom (1986).

Questo era lo stato delle cose quando iniziai il percorso di studi che si trova qui raccolto. L’aspetto più frustrante, o almeno quello che io percepivo come tale, era il non riuscire a catturare i momenti di continuà e discontinuità con la tradizione. L’enfasi posta sulla "psicologia per neurologi" mi sembrava disviante perché focalizzava eccessivamente l’interesse su una "mitologia del cervello" che per quanto occupasse le cattedre universitarie, era nei fatti slegata dalla pratica medica. La gente non si faceva curare da coloro che professavano il "nichilismo terapeutico", come attorno agli anni 1880 facevano gli studiosi del sistema nervoso centrale. Si era cercato troppo nei libri sul tavolino di Freud e troppo poco nell’aria che respirava e negli ambulatori che frequentava.

Un correttivo a questa impostazione di ricerca era rappresentata dalla (allora) recente critica della scoperta della sessualità infantile, la quale riassumeva bene le contraddizioni in cui ci trovavamo: da un lato era ancora forte e diffusa la convinzione che quella della sessualità infantile fosse la scoperta più significativa e dirompente di Freud, e dall’altro lato, sulla scia del mutamento di mentalità introdotto dal 1968, questa convinzione appariva sempre più ridicola. Quest’ultima prospettiva trovava sostegno in alcuni studi apparsi negli anni 1970, che mettevano in discussione l’idea che la visione angelicata dell’infanzia fosse davvero lo sfondo da cui la scoperta freudiana si era distaccata. Questi studi, che segnalavano come tutti i vari elementi che eravamo abituati a collegare al nome di Freud fossero ampiamente presenti già da prima, furono ripresi da Sulloway (1979), il quale ne evidenziò l’intimo ordine, mostrando come la scoperta della sessualità infantile fosse il prodotto della rivoluzione darwiniana e del suo impatto sulla psicologia. È difficile esagerare l’effetto che in quegli anni ebbe questa ricostruzione: se autori come Schafer, Holt e Mitchell incominciarono a parlare di metafora o narrativa della "bestia", lo si deve proprio al lavoro di Sulloway, il quale aveva fornito una ricostruzione che, oltre a mostrare in modo puntuale come, per dirla con Mitchell (1987), "la teoria freudiana della sessualità e la metapsicologia fondata sulle pulsioni" rappresentassero "un equivalente della struttura della teoria di Darwin sull’evoluzione della specie umana", a differenza degli autori che avevano toccato la questione in precedenza, aveva reso evidente come tutto ciò fosse in realtà basato su un "darwinismo di cartapesta".

Sulloway aveva di fatto mostrato come dietro la complessa articolazione del pensiero freudiano, più che Darwin fosse riconoscibile un divulgatore come Haeckel, e dunque un insieme di idee comuni caratteristica di un epoca ormai lontana. Utilizzando la narrativa della "bestia", Freud aveva riprodotto un mondo in cui la sessualità era "sentita" come una prova degradante dell’origine animalesca dell’uomo e come una minaccia continua al suo contegno civile. Ma nel 1980 questo "sentire" si era trasformato da legame segreto che univa Freud ai suoi lettori in luogo di un distacco in virtù del quale la trama freudiana non aveva più una presa diretta nei suoi lettori. E a questo punto la trama di questo mondo era libera di apparire come il semplice prodotto di una "metafora". Anche la scoperta freudiana della sessualità infantile aveva finito per sgonfiarsi come una "scoperta di cartapesta". Insomma, se le cose erano diventate delle metafore, era perché nessuno ci credeva più. Ma perché, alla stessa cosa, in un momento ci si crede e in un altro non ci si crede più? E perché il credere o non credere modifica così radicalmente la percezione che abbiamo delle cose? Se prendiamo queste domande sul serio, non possiamo accontentarci delle "narrative" e delle "metafore". C’è da considerare il quadro entro il quale le cose appaiono e la funzione che vi svolgono. Non posso che sottoscrivere quanto a suo tempo affermato da Friedman:

È triste che siano così tanti gli psicoanalisti che si accontentano di interpretare il sistema freudiano come un edificio costruito in base ai "modelli" scientifici dell’epoca. La presentazione di una teoria nei termini di un modello può appena scalfirne la superficie, a meno di non tener conto dei compiti comuni di cui sia la teoria che il modello accettano di prendersi responsabilità. Confrontare la teoria di Freud con le altre scienze del suo tempo ci può aiutare a capire di che cosa si occupa il suo sistema … (1988, p. 188)

Le mie prime escursioni nella letteratura medica del diciannovesimo secolo confermarono quello che già si sapeva, ossia che l’idea di sessualità infantile incomincia ad apparire in modo sistematico dalla fine degli anni 1850. Vi era però un dato che non mi aspettavo: le osservazioni riportate e le idee espresse non avevano nulla a che fare, per lo meno inizialmente, con la matrice darwinista. A volte precedevano, anche se di poco, il 1859, l’anno della pubblicazione de L’origine delle specie; altre volte le nuove idee erano promosse da autori che, come Morel, erano creazionisti. Eppure nel 1860, l’opera del teorico di quella caduta adamitica che è la degenerazione, diventa il veicolo della nuova idea che l’onanismo è la principale causa di follia nei bambini, un’idea che assurge in brevissimo tempo a paradigma al di fuori di ogni matrice darwinista. Sarà soltanto in un secondo momento che il "darwinismo di cartapesta" si impossesserà di questa area nello sforzo di addomesticarla.

Restava da capire all’interno di quale cornice la sessualità infantile avesse incominciato ad emergere, rendendosi visibile e diventando un problema, o per meglio dire, il problema per eccellenza, dato che a fine Ottocento si configura come la chiave per accedere alle più diverse dimensioni della vita psichica. Naturalmente, la cornice principale era quella del processo di civilizzazione e del progressivo controllo sulle pulsioni e sugli affetti che contraddistingue la modernità. All’interno di questa cornice mi è sembrato di poter identificare un processo dialettico che coinvolge le figure del bambino e del folle. Nel primo capitolo ne colgo alcuni dei movimenti oscillatori, degli aspetti contraddittori e degli effetti paradossali, cercando di mostrare come questo processo contribuisca a modificare sia l’immagine della follia che la percezione dell’infanzia. La psichiatria romantica, il trattamento morale, la psicoterapia e la psicologia infantile nascono tutti come momenti diversi di questo processo unico che appare come dotato di vita propria e che costituisce il terreno su cui prenderà forma anche la psicoanalisi.

Questa si radica dunque sullo stesso terreno delle altre discipline, dalle quali cui sembra differenziarsi soltanto per un diverso modo di rapportarsi al senso comune e di gestirne i paradossi. Qualunque sia la ragione di questo diverso modo di gestire i paradossi, l’opera di Freud appare, da questa prospettiva, ben radicata nello spazio mentale dell’epoca e in presa diretta con le sue contraddizioni. Se non configuro questo radicamento come una partecipazione al senso comune è perché ritengo che il senso comune rappresenti una forma organizzata di protezione nei confronti delle contraddizioni profonde dello spazio mentale in cui si vive, mentre ciò che sembra fin dall’inizio caratterizzare il pensiero di Freud è l’indifferenza a questo fattore protettivo.

L’esplorazione di queste contraddizioni mi ha condotto, ormai molti anni or sono, a prendere in considerazione una parte della vita professionale di Freud che era stata fino ad allora ignorata: il training pediatrico che egli fece a Berlino con Adolf Baginsky, subito dopo aver seguito a Parigi le lezioni di Charcot e prima di iniziare la libera professione. Quando incominciai a fare ricerche su questo argomento, le poche biografie di Freud che ne facevano menzione riportavano, a partire da quella di Jones, che Freud avrebbe fatto il suo training nel marzo del 1886 presso l’ospedale Kaiser und Kaiserin Friedrich-Krankenhaus, il quale però era sorto solo più tardi, nel 1890, per iniziativa di un comitato berlinese presieduto da Rudolf Virchow (cf. il Krankenhaus-Lexicon, 1900, p. 62 sg.). Questo era un chiaro segno di quanto il "training" neuro-pediatrico di Freud fosse stato trascurato dagli studiosi e un motivo per approfondire questa parte della sua vita di medico. Dalle mie ricerche successive è risultato che nel 1886 Adolf Baginsky aveva un policlinico privato situato in Johannisstr. 3 in un palazzo che non esiste più da molto tempo. Solo dopo le mie indagini sul luogo e la presentazione delle mie ricerche al convegno dei 100 anni della psicoanalisi, è apparso un articolo sul soggiorno di Freud a Berlino, a firma di J. G. Reicheneder (1994). Segnalo che anche nel recente libro di Christfried Tögel, Freud und Berlin (2006, p. 18), pur trattandosi di un libro molto ben curato, viene per inerzia ripetuto lo stesso errore di Jones. Il risultato delle mie ricerche venne presentato al congresso celebrativo dei Cento anni dalla nascita della psicoanalisi (1893-1993) ed è stato pubblicato in vari articoli apparsi negli anni seguenti (Bonomi 1994a, 1994b, 1997, 1998a, 1998b, 2002a, 2002b). Il secondo capitolo è una rielaborazione di questo materiale che ci trasporta all’interno di uno spazio mentale radicalmente diverso dal nostro, ma che è talmente implicato nella nascita della psicoanalisi da offrire nuovi squarci nelle sue origini.

Il nucleo della questione, che per apparire significativo necessita comunque di essere inserito in un ampio quadro di riferimento, è che nel corso di questo training pediatrico Freud si incontra con l’etiologia sessuale dell’isteria, la quale da un lato prefigurava la successiva "teoria della seduzione", perché secondo le idee neurofisiologiche dell’epoca erano soltanto le stimolazioni esterne che producevano un "contagio", e dall’altro comportava una "cura" finalizzata ad eliminare un "male" localizzato nei genitali con interventi chirurgici che comprendevano per le bambine l’amputazione del clitoride e per le giovani donne la castrazione, ossia l’estirpazione delle ovaia.

Nella presente rielaborazione cerco di ricostruire il senso di queste teorie e di questi trattamenti punitivi nell’ambito delle concezioni neurofisiologiche dell’epoca e in riferimento al fenomeno sociale durato circa due secoli (dal 1760 al 1968) che è stato chiamato la "grande paura della masturbazione" (Stengers e Van Neck 1984). Tra le tesi di ordine generale che sostengo vi è l’idea che la perdita della sede somatica dell’isteria sia stata determinata dalle grandi contraddizioni aperte dalla teoria dei riflessi spinali. Il passaggio "dalla fisiologia alla psicologia" che troviamo al centro de L’interpretazione dei sogni, immortalato nell’elevazione dell’arco riflesso a modello della prima teoria freudiana della mente, si comprende molto meglio tenendo conto delle tensioni che si vengono a creare tra modelli contrapposti, e in particolare del fatto che la teoria nervoso-centrale sembra insediarsi come reazione al carattere sempre più punitivo e cruento assunto dai trattamenti ginecologici sotto la spinta della precedente teoria dei riflessi. Da questo punto di vista il passaggio "dalla fisiologia alla psicologia" rappresenta un passaggio dai "genitali al cervello" nella spiegazione dell’isteria, un passaggio a cui Freud partecipa solo in un primo momento, sotto la spinta dei suoi "maestri" Charcot e di Breuer (come egli stesso avrà modo di sottolineare), ma a cui presto rinuncia per mantenersi vicino alla prospettiva dei riflessi spinali, l’unica che sembra garantire un legame con la sessualità. Qui si inserisce la vicenda della sua collaborazione con Wilhelm Fliess, che peraltro non tratto in questo volume, e della peculiare inibizione ad esercitare la professione medica in senso tradizionale. Questa inibizione, che non sembra del tutto estranea al grave incidente che avviene nel corso della operazione chirurgica di una sua paziente (Emma Eckstein), lo porterà a scoprire la dimensione puramente mentale della vita sessuale, a cui potrà accedere nel momento in cui decide di non intervenire più sul corpo delle sue pazienti.

In questo volume il lettore non trova il percorso che porta Freud dal corpo alla parola (un percorso che passa dal sogno di Irma e che mi propongo di tracciare in un ulteriore lavoro), bensì alcune delle sue premesse, relative soprattutto ai trattamenti ginecologici e chirurgici alla moda. Poiché questi trattamenti non erano praticati da squilibrati, ma bensì da medici ben inseriti nella società e indubbiamente desiderosi di curare le loro pazienti, colgo l’occasione per sollevare alcuni interrogativi sulla natura del sapere medico, del senso comune e della moralità. E poiché il successo e la diffusione di questi trattamenti giunge al suo apice negli anni in cui nasce la psicoanalisi, mi interrogo sul loro nesso con la rottura della psicoanalisi con il senso comune, giungendo a formulare la seguente riflessione:

La dimensione traumatica dell’incontro di Freud con la castrazione sembrerebbe così consistere nella lacerazione del senso comune e della sua funzione protettiva. È attorno a questo squarcio che, negli anni seguenti, prenderà forma la psicoanalisi, la quale sarà contemporaneamente un tentativo di solidificare la coscienza delle contraddizioni, e una protezione a posteriori, come un tentativo di fasciare con nomi, concetti, pensieri, una ferita scoperta.

Nella terza parte ricostruisco un altro scenario che non è stato inglobato nella storia della psicoanalisi: la storia della nascita e del tramonto del concetto di trauma psichico negli anni che vanno tra il 1880 e il 1920 circa. L’utilità specifica di questa ricostruzione è che ci permette di sovvertire il modo usuale di vedere le mosse compiute da Freud nella costruzione della sua teoria. Nel primo volume della Vita e opere di Freud, Ernest Jones ha sostenuto che il punto di partenza di Freud era stata l’"opinione convenzionale dell’innocenza infantile" (Jones 1953, p. 388), identificando il baricentro della sua scoperta nell’abbandono dell’etiologia traumatica a favore del riconoscimento di "desideri e impulsi di cui il paziente stesso era responsabile". Tuttavia, questo slittamento dall’evento esterno alla disposizione interna caratterizza il processo di psicologizzazione del trauma (Fischer-Homburger 1975) che si svolge sulla scena pubblica prima e indipendentemente da Freud. E se guardiamo la sua opera "in controluce" a partire da questo sfondo esterno, ecco che la domanda che dobbiamo porci non è perché Freud "abbandona la teoria del trauma reale", ma al contrario perché non ci riesce, che cos’è che lo frena, perché non percorre fino in fondo la strada che pure ha imboccato fin dal 1893. La risposta, solo abbozzata, è che quella "paralisi" che diventerà il varco d’accesso preferenziale allo spazio mentale delle sue pazienti e la cifra unica del suo stile investigativo, è anche e prima di tutto la matrice da cui nasce, come seguendo un indefinito moto oscillatorio, il continuo farsi e disfarsi del suo pensiero. Anche questo capitolo è per lo più una rielaborazione di materiale pubblicato in precedenza (Bonomi 2000, 2001, 2003, 2004). Per aiutare il lettore ad orientarsi è stata aggiunta in appendice una tavola cronologica per ciascuno dei tre capitoli storici.

Il quarto capitolo rappresenta infine un contributo alla decostruzione di quell’ideale della "castrazione simbolica" che tanta parta ha avuto nel creare un vincolo ipnotico tra i membri della comunità psicoanalitica e il fondatore di tale comunità. Partendo dall’esigenza di trovare un collegamento tra la violenza della castrazione reale e la sua posteriore elevazione a simbolo del processo strutturante per eccellenza ("la funzione della Legge in quanto istitutiva dell’ordine umano", per usare la definizione data da Laplanche e Pontalis 1967, p. 81), l’indagine si trasforma in una esplorazione della soglia che unisce e separa il caos dal cosmo, così come viene riflessa in una serie di miti greci, creazioni artistiche e fondazioni religiose in cui Freud trova ispirazione per la propria opera. Con quest’ultimo excursus, la "soglia" si lascia infine adombrare come il terreno stesso della psicoanalisi. Nell’appendice sono raccolti alcuni appunti che aiutano a collocare i temi del libro nel panorama della successiva storia della psicoanalisi. Se vi è una insistenza particolare sulla realtà e il suo diniego, non è certamente in nome di un realismo ingenuo, ma perché il campo del "reale" è qiello che è rimasto meno studiato dalla psicoanalisi.

Le ricerche qui raccolte e rielaborate si stendono per un arco di circa vent’anni, e sebbene in questo lavoro non entro nell’opera di Freud se non nella misura di volta in volta necessaria per farne risaltare i bordi, esse non sono disgiunto da un più ampio tentativo di rileggere la nascita della psicoanalisi su cui ho lavorato parallelamente e di cui questo lavoro rappresenta la premessa ma anche, per certi versi, la conclusione. Questo ne spiega il tempo di gestazione insolitamente lungo. In tutto questo tempo, le persone che sono state di impulso e di aiuto sono diventate talmente tante che ringraziarle tutte sarebbe persino imbarazzante. Ve ne sono però alcune il cui incoraggiamento a proseguire nella strada intrapresa nei momenti iniziali e più difficili del percorso è stato decisivo, come André Haynal, che ha fatto sì che le mie ricerche incontrassero un pubblico adeguato, Patrick Mahony e Robert Holt, che oltre a sostenermi con la loro fiducia, hanno in più modi nutrito la mia mente, Marco Conci, che si è generosamente prestato a leggerne le varie versioni, e Franco Borgogno che in questi ultimi anni è diventato un interlocutore insostituibile.

 

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 3366