Storia della Shoah

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26 gennaio, 2020 - 16:38
Autore:
Editore: UTET Libreria
Anno: 2005
Pagine:
Costo: €95.00

[ Quest’opera di epocale importanza — che tanta fortuna ha conosciuto fuori dai nostri confini nazionali — non è stata ancora intercettata da un numero sufficientemente ampio di lettori italiani. Perciò riproponiamo nella nostra rubrica alcune pagine di carattere introduttivo che forniscono ai lettori di POL.it un’immagine complessiva di questa fondamentale e insostituibile Storia della Shoah. Abbiamo eliminato le note, per rendere più agile ed essenziale il messaggio ]


 

 

 

Presentazione

 

Negli ultimi due decenni la storiografia internazionale ha collocato la Shoah, la distruzione degli ebrei d’Europa, al centro della storia del Ventesimo secolo, studiandola nei suoi particolari e dettagli, nell’ambito della storia della Germania nazista e soprattutto della Seconda guerra mondiale, e rinnovandone e ampliandone considerevolmente le conoscenze e interpretazioni ben al di là della storia tedesca. La Shoah può essere in effetti considerata oggi come il risultato di una più generale crisi dell’Europa iniziata nel lungo Ottocento, trasformata e accelerata nella Prima guerra mondiale, e divenuta un baratro della politica, della cultura e della società negli anni Venti e Trenta del Novecento, con l’avvento dei fascismi. Nel tempo l’Olocausto è stato infatti gradualmente percepito come uno degli eventi più emblematici del secolo trascorso, oltre che uno dei più efferati e violenti nella storia dell’umanità. Esso può essere inoltre pensato come un prisma in cui leggere alcuni dei principali fenomeni di radicale trasformazione, e vera e propria degenerazione, della politica e della società nel Ventesimo secolo, dentro e fuori l’Europa, anche oltre quell’evento specifico (alcuni aspetti del quale si sono poi ripetuti e propagati — o viceversa sono stati anticipati — in forme diverse, in genocidi, pulizie etniche, razzismi).

 



 

 

È necessaria una precisazione terminologica: in quest’opera i termini genocidio degli ebrei, Olocausto, Shoah, "Soluzione finale" e a volte anche Auschwitz (per antonomasia) sono usati come sinonimi. Ciascuno di essi ha diverse connotazioni e continua a essere oggetto di controversie pubbliche e discussioni scientifiche di cui non sottovalutiamo l’importanza. Il termine Shoah — "catastrofe" in ebraico — con il quale le vittime ebree hanno iniziato a qualificare la politica dei loro persecutori fin dagli anni della guerra, ci è sembrato il più pertinente, anche per sottolineare la specificità del genocidio ebraico. Per questo, oltre che per la sua più recente e vasta diffusione, è stato inserito nel titolo dell’opera. "Soluzione finale" è invece formula coniata dai nazisti: ma la necessità di prendere in considerazione il linguaggio dei persecutori ne spiega il ricorso in molti contributi. Quanto a Olocausto, benché il termine possieda una discutibile connotazione sacrificale, la sua diffusione internazionale specie in ambito storiografico (oltre che nel sistema di catalogazione delle grandi biblioteche occidentali) ne giustifica e ne spiega l’uso frequente. Attraverso un insieme di interpretazioni e rappresentazioni appartenenti a diversi ambiti della cultura, della conoscenza e dell’immaginazione, la Shoah è divenuta dunque, infine, un evento centrale nella coscienza e nella memoria storica dell’Occidente. Quest’opera è perciò dedicata alla documentazione e all’approfondimento di prospettive di analisi ed interpretazione, e ambisce a fornire un quadro il più possibile articolato, attraverso il contributo di alcuni dei massimi specialisti, dello stato delle conoscenze e del dibattito critico e storiografico sull’Olocausto. Nonostante la massa crescente di studi dedicati all’argomento nei suoi molteplici aspetti ci è parso mancasse ancora, e ci auguriamo sia complessivamente riuscito, il tentativo di ricapitolazione complessiva del dibattito, delle ricerche e dei risultati storiografici raggiunti negli ultimi decenni. Riteniamo che alcune linee interpretative di fondo proposte dall’insieme dei volumi possano inoltre contribuire a porre in una luce nuova, in una prospettiva più ampia e in nuove dimensioni critiche l’insieme di questioni, temi e problemi che emergono dallo studio della Shoah. Ciò ci pare possibile grazie all’adozione di una dimensione diacronica (precedente e successiva a quell’evento), di una prospettiva europea (e talora extra-europea, ma certo non solo tedesca), e di un’indagine condotta su diversi livelli epistemologici, quali quelli — collegati ma distinti — della storia, della memoria e delle rappresentazioni dell’Olocausto, oggi particolarmente presenti nella sensibilità degli studiosi anche di fronte a una loro presenza pervasiva nel discorso pubblico (che necessita però, evidentemente, di essere analizzata e discussa).

La Shoah fu certamente un fenomeno di portata europea, non solo per le dimensioni geografiche del suo svolgimento, ma per l’insieme di eventi e fenomeni che ne costituirono le premesse, in alcuni casi gli antefatti e — ad un livello più profondo e complesso — alcune delle radici storiche. A una tale interpretazione e ricostruzione è dedicato il primo volume di quest’opera. Sulla scia di analisi classiche come quelle di Hannah Arendt sulle origini del totalitarismo e di Zygmunt Bauman sui rapporti tra modernità e Olocausto, è possibile sostenere che il genocidio degli ebrei nel corso della Seconda guerra mondiale fu il risultato di una più antica e più lunga crisi dell’Europa e di trasformazioni complessive inerenti anche i processi di modernizzazione della società.

Questa crisi e queste trasformazioni furono preparate e segnate da fenomeni come l’emergere del razzismo, dalla metà almeno dell’Ottocento; le trasformazioni e la diffusione dell’antisemitismo, particolarmente a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo; i massacri coloniali di inizio Novecento; le trasfor- mazioni qualitative e quantitative della violenza nella Prima guerra mondiale; la crisi dei liberalismi e la radicalizzazione dei nazionalismi; l’emergere, infine, dei fascismi nelle forme di regimi totalitari e violenti. Ma contarono anche fenomeni di burocratizzazione degli apparati statali e di serializzazione e industrializzazione della morte; innovazioni scientifiche e tecniche; trasformazioni della condizione umana nelle moderne società tecnologiche e di massa.

Allo stesso tempo l’Olocausto non stava necessariamente inscritto in questi fenomeni e nemmeno nella loro teorica somma, ma fu il frutto di eventi e contingenze specifiche dovuti all’avvento del nazismo nella Germania degli anni Trenta e poi soprattutto allo scoppio e all’evoluzione della Seconda guerra mondiale. Ciò particolarmente nell’ambito del disegno hitleriano e nazista di conquista del continente europeo e di instaurazione di un nuovo ordine, fondato su una gerarchia razziale e sulla supremazia del popolo tedesco, supposta incarnazione della "razza ariana" e portatore della sua apocalittica missione di "redenzione" e soggiogamento dell’umanità. Certamente il progetto della "Soluzione finale" poté e dovette fondarsi su un notevole retroterra storico: politico, culturale e ideologico che ebbe i suoi cardini nella nascita dell’antisemitismo politico, nell’affermazione del nazionalismo völkisch, nell’esplosione e massificazione della violenza nel primo conflitto mondiale, nell’emergere, infine, di una dittatura totalitaria fondata anche sullo scontro radicale con il nemico interno e su una visione dell’uomo e del mondo allucinata e perversa.

Gli eventi bellici, le corresponsabilità dei collaboratori e collaborazionisti, l’inazione di molti protagonisti e testimoni, furono d’altra parte decisivi per il concreto attuarsi in quelle forme e dimensioni del genocidio ebraico.

La storiografia internazionale ha conosciuto, almeno nell’ultimo quindicennio, progressi considerevoli e definitivi nella ricostruzione e nell’interpretazione degli eventi della Shoah, tanto che si potrebbe dire che essi siano ormai conosciuti nella grande maggioranza dei loro più particolari aspetti e dettagli. Il quadro che ne è emerso, delineato nel secondo volume della Storia della Shoah con il contributo dei suoi massimi specialisti, conferma l’ampiezza della persecuzione e del massacro di ebrei, zingari, slavi, oppositori politici, disabili, omosessuali da parte del nazismo, ma consente anche di esaminare quell’insieme di fenomeni ed eventi alla luce della ragione, delle conoscenze scientifiche e di spiegazioni storiche multicausali e complesse. Sono stati da tempo chiamati in causa, in questo senso, oltre a una mole imponente di documenti e testimonianze e alle ricostruzioni storiche tradizionali, il contributo dell’insieme delle scienze sociali dall’antropologia alla psicologia, ma anche la riflessione filosofica su problemi etici (comportamenti, responsabilità, colpe) ed epistemologici (razionalità, contro-razionalità, conoscenza); quella letteraria, estetica e, di nuovo, epistemologica sul problema delle rappresentazioni (storiche, letterarie, artistiche) e dei loro contributi alla conoscenza; ma anche le definizioni giuridiche e, per esempio, le valutazioni economiche di quegli eventi.

Oggi sappiamo, in estrema sintesi, al di là della preparazione culturale e ideologica, e oltre le necessarie premesse nelle legislazioni e persecuzioni antiebraiche di mezza Europa dalla metà degli anni Trenta, che l’Olocausto fu ideato e realizzato nel corso della Seconda guerra mondale per iniziativa di Hitler e di altre diverse personalità e istanze delle gerarchie e delle burocrazie politiche e militari naziste; che fu condotto in forma di massacri in Europa dell’Est, specie nel corso dell’invasione dell’Unione Sovietica; che fu realizzato con trasferimenti, concentrazioni e imprigionamento di popolazioni, il loro sfruttamento e infine la loro eliminazione con camere a gas e forni crematori in campi di sterminio. Sappiamo che le vittime dell’Olocausto — cioè di un piano predeterminato di sterminio ai danni in primo luogo del popolo ebraico — furono tra i cinque e i sei milioni, nel contesto degli oltre cinquanta milioni di morti della Seconda guerra mondiale. Sappiamo che i carnefici furono non solo tedeschi e non solo assassini ideologicamente motivati, ma uomini comuni (per esempio militari e poliziotti, ma anche semplici impiegati della macchina burocratica dello sterminio), con l’ausilio di centinaia di migliaia di complici, collaboratori e collaborazionisti in tutta Europa, inclusa l’Italia. Sappiamo che milioni di europei assistettero inerti, così come non intervennero a fermare il massacro le potenze schierate contro la Germania nazista, le istituzioni internazionali, la Chiesa, e perfino, per quanto avrebbero potuto, ma in sostanza paralizzate, incredule ed impotenti, le comunità ebraiche in America e in Palestina. Per le sue premesse, per le sue molteplici cause e per il concreto Svolgersi degli eventi, sappiamo e constatiamo, dunque, che l’Olocausto fu una Disfatta della intera civiltà occidentale e uno dei peggiori baratri della coscienza dell’umanità in tutta la sua storia.

La percezione e la stessa conoscenza dell’insieme di eventi che va sotto il nome di Shoah sono — come tutti gli eventi storici, ma qui con una portata e con conseguenze eccezionali — il frutto di un insieme articolato e molteplice di rappresentazioni che hanno conosciuto una complessa evoluzione, legata alle trasformazioni della memoria, dei quadri culturali e politici di riferimento, delle espressioni artistiche, dei mezzi di comunicazione. Questi temi e fenomeni stanno al centro degli ultimi due volumi dell’opera che qui presentiamo. Per lungo tempo, negli anni Quaranta e Cinquanta, l’Olocausto scomparve dalla scena e dal dibattito pubblico internazionali e per molti versi anche dall’attenzione degli storici, e fu percepito come un episodio della Seconda guerra mondiale, o comunque come una aberrazione della storia: il tragico ma circoscritto risultato di un’eclissi della ragione. Fu a partire dagli anni Sessanta che la riflessione storiografica e filosofica iniziò ad interrogarsi e a ripensare le reali dimensioni, le origini, i significati e le conseguenze di quegli eventi, grazie al contributo di storici come Raul Hilberg e George Mosse (già preceduti dalle ricerche pioneristiche di Léon Poliakov e Gerhard Reitlinger) e di filosofi come Hannah Arendt e Theodor W. Adorno. Contarono anche eventi poi rivelatisi epocali come il processo e l’esecuzione, consumati a Gerusalemme all’inizio degli anni Sessanta, di Adolf Eichmann, uno degli architetti dello sterminio. Se i carnefici furono uditi e ascoltati fin dai tempi di Norimberga, le voci delle vittime furono a lungo marginalizzate o rimasero per lo più inascoltate secondo le loro stesse peggiori previsioni e i loro incubi ricorrenti. La testimonianza di una figura come Primo Levi dovette attendere gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso — e per molti versi la tragica scomparsa dello scrittore — per essere riconosciuta come irrinunciabile ed essere considerata come una dei più alti e incisivi documenti della peggiore barbarie del Novecento. Le immagini di Auschwitz ebbero a lungo una limitata diffusione e solo con la loro divulgazione e diffusione massiccia, a partire per esempio da interpretazioni filmiche di serie televisive degli anni Settanta, iniziarono ad essere conosciute da un più largo pubblico e da uomini e donne delle giovani generazioni. Con rare eccezioni, soltanto più tardi furono realizzati documentari ma anche, e soprattutto, fiction cinematografiche che segnarono una diffusione di massa della conoscenza e coscienza dell’Olocausto, risultando spesso ben più incisive dell’opera degli storici o dei filosofi. Solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, infine, si registrò una vera e propria esplosione della memoria della Shoah, attraverso musei, raccolte di testimonianze, giornate della memoria: fenomeni che sono parsi aumentare man mano che ci si allontana da quegli eventi e i testimoni diretti vanno scomparendo.

Anche in ambito letterario e artistico la coscienza di Auschwitz faticò ad affermarsi, fu affidata dapprima a vittime e testimoni e fu spesso anche autorevolmente contestata e discussa rispetto alla sua legittimità o addirittura alla stessa possibilità di una sua interpretazione artistica e poetica. Oggi quelle rappresentazioni e interpretazioni che provengono dalla letteratura e dall’arte appartengono a pieno titolo e formano un unico insieme con la conoscenza e coscienza individuale e collettiva della Shoah. Questa coscienza sollevò del resto fin dal principio — e in alcuni casi eccezionali nel corso dello svolgersi stesso degli eventi — brucianti e radicali interrogativi nella riflessione filosofica attorno alla ragione, all’uomo, all’esistenza; o in quella teologica sulla divinità, la colpa e i comportamenti umani.

Le diverse storie e memorie nazionali dell’Olocausto hanno conosciuto anch’esse evoluzioni specifiche legate al ruolo e al grado di coinvolgimento di ciascuna nazione in quegli eventi: che si trattasse o si tratti della Germania, di Israele, di paesi con o senza una presenza ebraica (o in cui quella presenza è stata per sempre cancellata); di nazioni che contribuirono alla realizzazione della "Soluzione finale" o i cui cittadini furono vittime dell’Olocausto in forma minore o maggiore; che si tratti, infine, della memoria dell’intera Europa unificata su principi di pace e tolleranza e di ripudio e perpetua condanna dell’esperienza di Auschwitz.

Nell’insieme crediamo che questa molteplicità di contributi, prospettive e approcci, grazie all’apporto di decine di studiosi di paesi, formazioni, sensibilità e appartenenze diverse, fornisca un quadro articolato e complesso della storia, della memoria e delle rappresentazioni della Shoah come evento centrale della storia europea e mondiale del XX secolo e uno degli eventi più cruenti della storia dell’umanità. Le conoscenze e interpretazioni accumulatesi nel tempo consentono oggi di sottoporre quegli eventi che vanno sotto il nome di Olocausto e la loro portata e violenza a un controllo e a una verifica della ragione storica, di chiamare in causa spiegazioni, di sollevare nuovi interrogativi, ma di fornire anche ricostruzioni certe e adeguate risposte. Ci auguriamo, quindi, che quest’opera possa approfondire e rafforzare la conoscenza storica della Shoah nei suoi molteplici aspetti, possa contribuire a consegnarla stabilmente alla storia del Novecento, possa infine rappresentare anche un monito per le coscienze di tutti, per il presente e per il futuro.

Berna, Siena, Venezia, Parigi

giugno 2005

Marina Cattaruzza

Marcello Flores

Simon Levis Sullam

Enzo Traverso
 

Vol. I La crisi dell’Europa e lo sterminio degli ebrei, pp. XVII+1188, Parte Prima

Introduzione

In questo inizio del XXI secolo, la Shoah appare come un fenomeno storico complesso nel quale si coagulano accadimenti e rappresentazioni del passato, proiezioni della memoria e inquietudini del presente. La parola Shoah condensa diverse temporalità che tendono inevitabilmente a sovrapporsi nella nostra coscienza storica. Vi è la temporalità dell’evento vissuto come trauma: un’improvvisa e fulminea rottura della storia, nel cuore della seconda guerra mondiale, che spezza la continuità di un passato segnato dall’Emancipazione, dall’integrazione socio-economica e dall’assimilazione culturale degli ebrei in Europa. Una rottura che sembra polverizzare i paradigmi di una storiografia "strutturalista" fondata sull’idea di una sedimentazione cumulativa di strati della civiltà (territorio, economia, cultura, mentalità, politica e forme istituzionali) rispetto ai quali le contingenze evenemenziali potrebbero quasi apparire aneddotiche e superficiali (l’effimera "schiuma" della storia secondo la celebre definizione di Fernand Braudel). Non vi è dubbio che l’evento traumatico della Shoah, ormai riconosciuto come spartiacque del mondo moderno, rimette in discussione questa visione della storia. Vi è poi la temporalità della memoria, costruita attraverso un itinerario tortuoso e complesso, fatto di silenzi e rimozioni seguiti da bruschi risvegli, sofferte anamnesi collettive e accese controversie che hanno ampiamente travalicato i confini della storiografia. L’"ossessione commemorativa" di questi ultimi anni rivela la posizione centrale ormai acquisita dall’Olocausto nelle nostre rappresentazioni del passato (di cui questa stessa opera è, a suo modo, un riflesso). Vi è infine la temporalità del processo storico che precede l’evento, costruendo e accumulando, attraverso tappe e svolte che si snodano lungo un secolo, gli elementi che la guerra permetterà di coagulare nello sterminio degli ebrei d’Europa, momento singolare di una crisi più ampia durante la quale l’intero continente rimane sommerso da un’ondata di violenza. A questo processo che "prepara" l’evento inscrivendolo in alcune tendenze di fondo della storia europea – la "lunga durata" braudeliana può qui essere recuperata – è dedicata la prima parte di questo volume della Storia della Shoah, mentre la seconda sarà consacrata all’evento.

Il processo che "prepara" l’evento: le virgolette che accompagnano il verbo di questa frase non sono affatto superflue. In altre parole, questo processo non va inteso in senso teleologico. Il lettore troverà in queste pagine ampia materia di riflessione sulle diverse "cause" della Shoah, ma nessuna di queste potrà essere interpretata in senso deterministico, facendo così dell’evento una conseguenza meccanica, fatale e ineluttabile. La Shoah si inscrive in una dialettica storica in cui, pur risultando vincolato all’insieme delle sue premesse, l’evento possiede la sua autonomia e si configura come fenomeno specifico. Benché valida in larga misura per tutti gli accadimenti del passato, questa messa a punto metodologica è indispensabile nel caso dello sterminio degli ebrei, che prende forma come fenomeno inatteso e sorprendente, fulminante e, per i contemporanei, incomprensibile. Nessuno poteva prevedere, negli anni Trenta, l’esito di una nuova guerra mondiale, ma tutti gli osservatori della scena internazionale riconoscevano la possibilità di un conflitto, allo stesso modo in cui, dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, la Restaurazione costituiva uno degli sbocchi eventuali (e ricercati) della crisi europea, o ancora, a partire dal 1848, l’unificazione italiana sotto l’egida della monarchia piemontese e, dopo Sadova, l’unificazione tedesca sotto l’egemonia prussiana, diventavano delle ipotesi concrete. Difficilmente si potrebbe dire lo stesso per la Shoah, e non solo per la miopia dei contemporanei. Detto in altri termini, essa non era fatalmente implicita nella traiettoria secolare dell’antisemitismo, né nelle convulsioni dell’Europa emersa dalla Grande guerra e neppure nel progetto del nazismo arrivato al potere in Germania nel 1933, benché l’antisemitismo, la guerra e il nazismo ne siano state le indispensabili premesse. Né entità metafisica (come ama definirla un’iperbole retorica oggi diffusa nei media, non esente da derive oscurantiste) né catastrofe annunciata come gli uragani di cui i meteorologi studiano la formazione e lo svolgimento, mettendo in guardia autorità e popolazioni civili, la Shoah prende forma nel contesto della seconda guerra mondiale. Essa nasce da un intreccio complesso di radicalizzazione ideologica, pianificazione militare, innovazione teconologica e improvvisazione strategica nel quale le pulsioni sterminatrici legate a una visione del mondo si fondono a necessità e considerazioni di altra natura, sfociando in una singolare combinazione di razionalità amministrativa e irrazionalità economico-militare. Studiare il processo che "prepara" la Shoah significa quindi, seguendone la formazione e lo sviluppo, individuare le diverse componenti che convergono e si uniscono nell’evento, reso possibile da una costellazione storica del tutto eccezionale. Parafrasando Hannah Arendt, le cui osservazioni meriterebbero di essere più meditate di quanto facciano gli storici abitualmente, potremmo dire che le "origini" della Shoah si configurano a posteriori; esse nascono dall’evento attraverso una ricognizione retrospettiva che ne ricostituisce le premesse, ma non lo contengono come un frutto che naturalmente viene a maturazione. Questo approccio non rimuove ovviamente le aporie della Shoah, insediata al centro delle nostre rappresentazioni del passato come trauma ineludibile e tuttavia privo di senso, impossibile a catalogare come "tappa" della civiltà, alla stregua di altre svolte epocali come le guerre e le rivoluzioni, ma riconoscibile soltanto come rottura di civiltà: la Zivilisationsbruch di cui parla Dan Diner nel suo saggio che apre questo volume. I problemi affrontati dalla sua riflessione attraversano, come un filo rosso, l’insieme dell’opera. Già Primo Levi aveva definito Auschwitz un "buco nero", pur avendo dedicato tutta una vita al tentativo di esplorarlo e "rischiararlo" dall’interno, in nome di una visione della storia (e della sua madre e ancella, la memoria) fondata sul principio – di cui rivendicava con forza la matrice illuministica – della "salvazione del capire". In altre parole, i tentativi di storicizzazione della Shoah proposti in questo volume non ne rimuovono le aporie legate al suo carattere di rottura della storia e della civiltà, ma impediscono di postularla come evento ineffabile e quasi normativamente incomprensibile (secondo una procedura che interiorizza il nomos del campo di sterminio riassunto dalla formula nazista Hier ist kein Warum).

Il tentativo di storicizzazione che si dipana attraverso i contributi di questo primo volume considera la Shoah come un processo, ma non come un processo endogeno, cumulativo e autosufficiente, secondo lo schema elaborato da Raul Hilberg ne La distruzione degli ebrei d’Europa. In quest’opera fondamentale e ormai classica, lo storico americano ricostruisce le tappe del genocidio degli ebrei: la loro definizione razziale codificata dalle leggi di Norimberga (1935), la loro espropriazione messa in atto attraverso le misure di "arianizzazione" dell’economia (1938), la loro concentrazione avviata allo scoppio della guerra con la creazione dei ghetti, infine il loro sterminio a partire dall’autunno del 1941. Quest’ultimo, che rompe con la politica di espulsione perseguita dalla Germania nazista fino all’inizio della guerra, è messo in atto attraverso in due momenti distinti: prima una vasta campagna di annientamento condotta sul fronte orientale dalle unità speciali delle SS (Einsatzgruppen), spalleggiate da polizia ed esercito, poi la deportazione verso campi di sterminio creati appositamente per gli ebrei (due dei quali, Maydanek e Auschwitz, incorporati a un più vasto sistema di campi di concentramento in cui sono deportati anche resistenti, prigionieri sovietici e zingari). Il modello interpretativo proposto da Hilberg è indispensabile per comprendere la struttura e la dinamica della Shoah, ma prescinde largamente dal contesto storico generale, in particolare la guerra e gli obiettivi che in essa persegue il regime nazista, i quali sono invece al centro del processo analizzato in questa Storia della Shoah. Non solo l’Olocausto non può essere ridotto a un contronto unilaterale tra persecutori e vittime, lasciando fuori gli "spettatori" (i bystanders presi in esame dallo stesso Hilberg in un volume successivo, più attento alla contestualizzazione del genocidio), ma persecutori e vittime non possono essere compresi se non inseriti in un quadro storico globale, di cui vanno ricostruite le premesse e nel quale va inscritta la traiettoria di entrambi. Evitare la prospettiva di un confronto unilaterale tra persecutori e vittime significa evitare gli scogli simmetrici di un approccio germanocentrico o ebreocentrico. Persecutori e vittime, nazisti ed ebrei, sono ovviamente gli attori fondamentali di questa tragedia e ad essi è rivolta in questo volume tutta l’attenzione necessaria, ma la Shoah non è interpretata come l’epilogo di una storia esclusivamente tedesca (nella forma di una patologia nazionale o di un Sonderweg che avrebbe scisso la storia della Germania da quella del mondo occidentale) né come sbocco ineluttabile di un antisemitismo secolare che avrebbe così messo in luce una sorta di separazione ontologica tra ebrei e gentili. Senza nulla togliere alle specificità del nazismo (i contributi dei volumi successivi discuteranno la questione complessa del suo rapporto con i fascismi europei) e del suo antisemitismo, questo volume affronta la Shoah come specchio e al contempo espressione parossistica di una crisi europea che nasce dalla Grande guerra e si approfondisce negli anni seguenti fino a culminare in un nuovo conflitto. Di questa crisi europea, Marcello Flores delinea i contorni generali, sottolineando l’intreccio esplosivo creato dal crollo di un vecchio ordine liberale inegualmente consolidato nei diversi paesi – uno dei tratti marcanti della "pace dei cent’anni" descritta da Karl Polanyi –, dalle convulsioni politiche che impediscono la costruzione di un nuovo equilibrio continentale, dalla crisi economica che lo mina ulteriormente, dalla nuova cultura della violenza che emerge da un continente devastato e "brutalizzato" dalla guerra totale. Emilio Gentile riassume questo mutamento profondo in seno all’immaginario europeo negli anni tra le due guerre attraverso una metafora: il passaggio dall’"Apocalisse della modernità", già annunciata, temuta o invocata fin dalla fine dell’Ottocento, all’"Apocalisse totalitaria" che prende forma dopo il conflitto mondiale, gettando le basi di regimi che, a partire da prospettive diverse, vogliono rigenerare il mondo e la civiltà, forgiare un "uomo nuovo" e, nel caso del nazismo, rimodellare biologicamente la carta dell’Europa.

Vediamo quindi quali sono le diverse premesse della Shoah che sfoceranno durante la guerra in una sola tendenza sterminatrice. Di natura sia materiale che culturale e ideologica, esse possono essere enumerate secondo un ordine argomentativo né gerarchico né strettamente cronologico. La prima, trattandosi del fattore scatenante della crisi europea, è la guerra totale. Il nazismo è un prodotto della prima guerra mondiale, la vera esperienza fondatrice del Novecento. In essa vanno ricercate le radici dello sterminio industriale, della morte anonima di massa e della riorganizzazione autoritaria delle società europee negli anni tra le due guerre. I genocidi del XX secolo nascono da questa fusione tra una nuova soglia della violenza varcata dalla guerra meccanica, industriale, e la radicalizzazione di antichi odî nazionalistici che prendono forme nuove nel contesto della mobilitazione patriottica, della crociata contro il nemico e i suoi sostenitori "interni". Nel suo saggio, Jay Winter mostra che questo binomio infernale di guerra totale e genocidio si delinea già durante la prima guerra mondiale, facendo dello sterminio degli armeni, benché in forme più primitive, una sorta di archetipo della Shoah. Esso viene messo in atto attraverso una campagna di deportazione verso l’Anatolia profonda, accompagnata dalla creazione di improvvisati campi di concentramento. La guerra costituisce un momento decisivo per la diffusione del sistema concentrazionario in Europa, dopo i primi esperimenti a Cuba, nel 1898, e nel Sudafrica, due anni dopo, durante la guerra anglo-boera. Come mette in luce Annette Becker, a partire dal 1914 non ne sono più vittime soltanto i prigionieri di guerra, perché i campi di concentramento sono rapidamente estesi a settori delle popolazioni civili che vengono così sottomesse a forme di umiliazione collettiva e di lavoro forzato.

Il fascismo sorge dalle guerre civili che, fra il 1918 e il 1923, lacerano diversi paesi europei, dalla Russia alla Germania, dall’Ungheria all’Italia. Sotto questo aspetto, esso appare indubbiamente come un erede della contro-rivoluzione che aveva accompagnato il "lungo" Ottocento, dalla coalizione antigiacobina del 1792 ai massacri della Comune. Ma la controrivoluzione del XX secolo non è più conservatrice né puramente "reazionaria"; essa si configura piuttosto come una sorta di "rivoluzione contro la rivoluzione". I fascismi non guardano più al passato ma vogliono edificare un mondo nuovo. I loro capi non provengono dalle élites tradizionali – con le quali trovano un accordo soltanto al momento di accedere al potere – ma dalle scorie di un ordine sociale e politico in decomposizione. Sono "plebei", demagoghi e nazionalisti che hanno rinnegato la sinistra socialista, come Mussolini, o elementi declassati come Hitler che hanno scoperto una vocazione politica di tribuni e agitatori nel clima incandescente della sconfitta tedesca. Si rivolgono alle masse, forgiando una comunità carismatica che si mobilita attorno ai miti nazionalisti e si nutre di promesse millenaristiche. L’esperienza della guerra spinge i nazisti ad amalgamare alcuni valori ereditati dal contro-illuminismo (il rifiuto dei principi del 1789) non solo con il razzismo scientista e biologico, ma anche con il culto della tecnica, dell’industria e della forza meccanica. Nei loro contributi, Jeffrey Herf e Anson Rabinbach sottolineano la miscela sui generis di romanticismo anticapitalistico e di razionalismo tecnocratico che caratterizza il nazismo come una forma di "modernismo reazionario".

Altra premessa essenziale del genocidio, di natura al contempo ideologica, sociale e politica, è ovviamente l’antisemitismo. Il nazismo emerge dal magma ideologico-politico del nazionalismo tedesco, una costellazione nella quale si mescolano, alla vigilia della Grande guerra, un insieme di correnti multiformi: l’antropologia razziale ossessionata dall’idea di un dominio "ariano", il darwinismo sociale fondato sul concetto di "selezione naturale" dei più forti e l’eugenismo, le cui correnti più radicali inseguono il progetto utopico di fabbricare artificialmente una specie superiore. Queste diverse sensibilità coabitano in seno al nazionalismo völkisch, la matrice comune dell’estrema destra tedesca, dalla quale si stacca nel dopoguerra il nazionalsocialismo. Un certo "pluralismo" – Stefan Breuer parla in proposito di "aggregato" – continuerà del resto ad esprimersi in seno al regime nazista, nel quale Hitler svolge un ruolo di cemento unificante, grazie alla sua autorità carismatica, più che di custode dell’ortodossia ideologica. I teorici di un mitico Männerbund del futuro (Alfred Rosenberg), i fautori di una Volksgemeinschaft modellata da un’élite "germano-nordica" (Heinrich Himmler) e i difensori di una nuova aristocrazia agraria del sangue e del suolo (Walther Darré) hanno bisogno di Hitler, riconosciuto come capo incontestato dai nazionalisti religiosi a quelli anticlericali, dai romantici ai modernisti, dagli esteti nazionalisti ai "rivoluzionari conservatori". Anson Rabinbach coglie questo aspetto, sottolineando che il pensiero völkisch di Hitler non aveva ambizioni filosofiche né scientifiche ma si presentava piuttosto come "un atto di fede politico", facendo leva sul "sentire" (Gesinnung) più che sui dogmi dell’ideologia. In altri termini, il nazismo prendeva i tratti di una "religione politica", vale a dire una dottrina secolarizzata, se non addirittura pagana, che suscitava tuttavia un’adesione di tipo religioso, fondata sulla fede anziché sulla ragione. Queste interpretazioni fanno tesoro delle intuizioni di George Mosse – uno dei primi ad aver dedicato attenzione alla parola e non solo alla lettera del nazismo – di cui propongono un brillante approfondimento.

Il saggio di David Bidussa e Simon Levis Sullam mette a fuoco la nascita dell’antisemitismo moderno. Essi ne ripercorrono le tappe fino alla sua metamorfosi, negli anni tra le guerre, in una nuova forma radicale di odio antiebraico di cui, sulla scorta di Saul Friedländer e Philippe Burrin, sottolineano il carattere "redentore" o "apocalittico". L’antisemitismo ottocentesco post-emancipatorio, che accompagna l’avvento del capitalismo e si sovrappone alla vecchia giudeofobia di matrice religiosa, si dispiega come una sorta di "codice culturale" (il concetto appartiene originariamente a Clifford Geertz), permettendo di definire negativamente un’identità nazionale fragile e incerta, attraverso l’opposizione a un archetipo ebraico costruito come deposito di tutti i valori antinazionali. La sua dimensione è europea, precisano Bidussa e Levis Sullam, ricordando che la prima sintesi di antigiudaismo cristiano, antisemitismo socio-economico e razzismo scientista trova una formulazione compiuta in Francia, alla fine del XIX secolo, grazie all’opera di Édouard Drumont (per conoscere in seguito un’ampia diffusione sulla scia dell’Affaire Dreyfus). Ma è in Germania, nell’immediato dopoguerra, che appare l’antisemitismo "redentore" nazista, il quale concepisce la lotta contro gli ebrei come una autentica crociata contro un nemico nascosto in seno alla comunità nazionale, ostacolo permanente ai suoi progetti di riscatto. La distruzione di questo nemico assume i tratti di una lotta di emancipazione nazionale e razziale. Risultato di un lungo percorso che si snoda da Richard Wagner a Wilhelm Marr, da Houston Stewart Chamberlain ai padri spirituali del nazismo (Dietrich Eckart, Theodor Fritsch e Arthur Dinter), questa variante radicale di antisemitismo non ha equivalenti in Europa, ma gli ingredienti che ne sono alla base non sono un monopolio esclusivamente tedesco. L’antropologia razziale è ben rappresentata nei paesi latini (Cesare Lombroso, Georges Vacher de Lapouge), il darwinismo sociale è nato in Gran Bretagna (Alfred Russell Wallace), l’eugenismo ha trovato ampia diffusione negli Stati Uniti (Francis Galton), l’antisemitismo sembra, alla fine dell’Ottocento, una deprecabile e arcaica pratica russa e, almeno sul piano letterario, una specialità soprattutto francese (Édouard Drumont, Maurice Barrès, Charles Maurras, Léon Bloy).

Il nazionalismo esacerbato e il razzismo biologico nazisti sono inoltre organicamente legati a una cultura e a una pratica dell’imperialismo che da secoli impregnano l’Europa e assumono forme nuove e moderne, tipiche della società di masse, nel corso del XIX secolo. In questo campo, lungi dall’occupare una posizione centrale, la Germania appariva come un parvenu, modesto allievo di Inghilterra e Francia, le due principali potenze coloniali. L’idea di una supremazia naturale dei bianchi, con il suo corollario della "missione civilizzatrice" dell’Occidente in Africa e in Asia; la visione del mondo extraeuropeo come un immenso spazio colonizzabile; la concezione delle guerre coloniali come conflitti nei quali il nemico non è un esercito ma la popolazione civile dei paesi da conquistare; la teoria dell’"estinzione delle razze inferiori" come conseguenza ineluttabile della marcia del Progresso: ecco una serie di luoghi comuni della cultura europea dell’Ottocento che ritroviamo al cuore dell’ideologia e della politica naziste. Il progetto hitleriano di conquista dello "spazio vitale" (Lebensraum) per la razza tedesca in Europa centro-orientale, nell’immenso mondo slavo, non è altro che la trasposizione nel vecchio mondo di un modello di dominio coloniale già sperimentato da oltre un secolo in Asia e in Africa. Hitler non nascondeva del resto la sua ammirazione per l’impero britannico: il suo sogno era di trasformare il mondo slavo in una sorta di "India germanica". Questo progetto, ereditato dal pangermanismo di fine ottocento e teorizzato da geografi, demografi e specialisti di diritto internazionale, sarà "naturalmente" innestato sul tronco del nazionalismo völkisch dopo la conferenza di Versailles che priva la Germania del suo impero coloniale, facendo così della Mitteleuropa un mito sostitutivo della Mittelafrika, nel quale convergono pulsioni imperiali e chimere romantiche di ritorno alla natura. Preoccupato di evitare assimilazioni abusive e letture schematiche, Nicola Labanca introduce le necessarie distinzioni tra colonialismo e nazismo, ricordando la complessità del primo, le cui pratiche non si riducevano alla distruzione e allo sterminio, e soprattutto sottolineando il carattere "preterintenzionale" dei genocidi coloniali, sottoprodotto di una politica la cui finalità non era lo sterminio ma la conquista di territori e l’appropriazione di risorse naturali ed umane. Da questo punto di vista, la violenza coloniale costituisce un antecedente della conquista nazista del Lebensraum – con il suo corteo di vittime slave, dai polacchi ai diversi popoli sovietici – ma non della Shoah. Tuttavia, come suggerisce Isabel V. Hull, il genocidio degli herero ad opera dell’esercito guglielmino, nell’Africa sud-occidentale tedesca del 1904, si configura come una vera e propria "Soluzione finale" che trascende la logica di una violenza strumentale. Il nazismo eredita dall’imperialismo guglielmino un linguaggio teso a disumanizzare il nemico (ridotto a Untermenschentum) e una pratica di annientamento (il famigerato Vernichtungsbefehl del generale von Trotha) che conferiscono a questo passato coloniale un carattere paradigmatico. Non si tratta affatto di occultare le differenze che lo separano dalla violenza nazista ma di cogliervi una delle sue molteplici matrici.

Nella visione del mondo hitleriana, la conquista dello "spazio vitale" in Europa orientale è indissociabile dalla distruzione dell’Unione sovietica di cui gli ebrei sarebbero il gruppo dirigente. La colonizzazione tedesca del mondo slavo – visto come la coalizione di una massa "subumana" sottoposta al controllo di un cervello semita – coincide quindi con l’annientamento del comunismo e lo sterminio degli ebrei. Per questo la guerra contro l’URSS è concepita come una guerra coloniale trasferita in Europa, nel cuore del Novecento, condotta con i mezzi di distruzione di una grande potenza industriale, tecnologica e militare. Razza nemica, "bacillo" bolscevico ed élite statale sovietica convergono in un solo nemico contro il quale il nazismo decide di scatenare un’offensiva di dimensioni apocalittiche. La fenomenologia della Shoah rivela del resto la sua stretta connessione con la politica globale del nazismo. Basti pensare ai campi di sterminio, che nascono dal tronco del sistema concentrazionario, di cui sono una derivazione, per diventare in seguito un dispositivo autonomo. O ancora alle Einsatzgruppen, le unità speciali delle SS che accompagnano l’avanzata della Wehrmacht sul territorio sovietico, alle quali è stata affidata una duplice missione: eliminare gli ebrei e i commissari politici dell’Armata rossa. Dipanando i diversi fili che collegano il nazismo alla cultura del razzismo europeo, Michele Nani coglie nel "razzismo di classe" – ereditato anch’esso dall’Ottocento, quando il massacro dei comunardi francesi veniva giustificato come misura di profilassi antropologica e sociale, poi risorto durante le guerre civili degli anni 1918-1921, quando in Germania, in Russia, in Ungheria e nei Paesi baltici prendeva forma il mito del "giudeobolscevismo" – un’altra matrice della sua violenza. Non la sua matrice esclusiva – così si rischierebbe di cadere nell’interpretazione monocausale di Ernst Nolte che riduce l’antisemitismo hitleriano a una semplice derivazione dell’anticomunismo – ma sicuramente una delle sue ragioni d’essere e una chiave indispensabile per comprendere l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania.

Nel corso della guerra, il nazismo trasforma lo sterminio degli ebrei in un obiettivo a se stante, per il quale vengono creati organi specifici di annientamento e di cui viene progressivamente allargato l’orizzonte su scala europea. Decisa nel fuoco della guerra sul fronte orientale, la "Soluzione finale" tocca infine tutti gli ebrei, dalla Francia all’Olanda, dall’Italia ai Balcani. Se la Shoah si è rapidamente estesa su tutta l’Europa sottoposta all’occupazione tedesca, ciò è potuto avvenire non soltanto grazie al sostegno dei movimenti e dei regimi collaborazionisti (la cui analisi sarà affrontata nel secondo volume dell’opera) ma anche in virtù di legislazioni discriminatorie o apertamente antisemite largamente diffuse nel corso degli anni Trenta, ben prima dello scoppio della guerra, non solo nella Germania nazista, ma anche in Italia, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Slovacchia. Nella stessa Francia, lo "statut des juifs" dell’ottobre 1940 è preceduto, sul finire degli anni Trenta, da una legislazione xenofoba che predispone l’opinione pubblica ad accogliere le leggi antirepubblicane di Vichy (e il maresciallo Pétain riceve i pieni poteri dai resti di un’Assemblea nazionale eletta sotto la Terza Repubblica). Marie-Anne Matard-Bonucci focalizza per questo l’attenzione sulla conferenza di Evian del 1938 dedicata al problema dei profughi, facendone uno specchio del carattere drammatico assunto dalla "questione ebraica" nel vecchio mondo. Già prima della conflagrazione mondiale, gli ebrei sono ridotti in molti paesi a una massa di "paria", non solo senza status sociale o simbolico ma soprattutto senza Stato, ossia senza protezione giuridica, una massa di "paria" fragile e in balia delle nubi minacciose che si stanno addensando all’orizzonte. Anche questa, senza esserne una causa, si configura a posteriori come una premessa della "Soluzione finale". Ne Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt lo riconosceva lucidamente indicando che "prima di mettere in funzione le camere a gas, i nazisti avevano studiato attentamente la situazione e scoperto soddisfatti che nessun paese avrebbe difeso quella gente. Il fatto è che una situazione di completa privazione dei diritti era stata creata prima che il diritto alla vita venisse messo in discussione". In fondo, la conferenza di Evian non faceva che prendere atto di una degradazione progressiva della condizione ebraica il cui punto di avvio, in larga parte d'Europa, era stato il passaggio dagli imperi multinazionali dell’Ottocento alla nuova architettura politico-istituzionale disegnata a Versailles, fatta di improbabili Stati-nazione eterogenei sul piano etnico, culturale, linguistico e religioso. Come sottolinea Hans Lemberg, gli ebrei risultavano spesso un corpo estraneo in seno alle comunità nazionali emerse da questa ridefinizione delle frontiere, diventando così la "minoranza per eccellenza". Si potrebbe qui ricordare, a complemento della sua analisi, la diagnosi di István Bibó, che vedeva nella nascita dei piccoli Stati centro-europei la fonte di un’"isteria politica collettiva" da cui avevano tratto alimento la xenofobia, il nazionalismo e l’antisemitismo.

Se tutte queste premesse prendono dei contorni chiari a uno sguardo retrospettivo, quasi nessuno, probabilmente neppure i futuri responsabili della "Soluzione finale", aveva piena coscienza del potenziale di violenza che si andava accumulando e che la guerra avrebbe scatenato contro questa minoranza indifesa. Tracciando una vasta panoramica delle comunità ebraiche in Europa alla fine degli anni Trenta, Michael Brenner ne mette in luce il carattere estremamente variegato, che va dagli ebrei assimilati (ma spesso discriminati e privati del loro statuto di cittadini) dei paesi occidentali alle minoranze nazionali di lingua yiddish dei paesi centro-orientali. Al fine di evitare una lettura anacronistica del passato, Brenner introduce una precisazione importante: nel corso degli anni Trenta, il nazismo appariva a tutti come un simbolo di persecuzione, ma ben pochi si sentivano minacciati di sterminio, e certo nessuno poteva pensare a uno sterminio su scala europea, dalla Grecia alla Norvegia, dai Pirenei al Caucaso. In fondo, sarà il nazismo a fare degli ebrei una comunità di destino, ridisegnandone l’identità.

La "genealogia" della Shoah che emerge dai contributi di questo volume non scioglie nodi interpretativi destinati a rimanere aperti ancora a lungo, dai quali sorgeranno in futuro nuove controversie storiografiche. Essi fissano tuttavia l’orizzonte attuale della ricerca e della riflessione. Ne emerge, mi sembra, un’acquisizione: la Shoah nasce dalle viscere sociali e culturali dell’Europa, non è né un incidente di percorso né una "malattia" e neppure il risultato dell’irruzione di forze "irrazionali" nel cuore della civiltà. Figlia dell’Europa, la Shoah ne rimette in discussione la storia e la civiltà. In questo senso, essa continua a interrogare il nostro presente.



Enzo Traverso
 

Vol. II La memoria del XX secolo, pp. 932, Parte Prima

Introduzione

Una delle più note riflessioni di Marc Bloch sulla Prima guerra mondiale riguarda il diffondersi di "false notizie". Sulla base della propria esperienza personale e dei propri ricordi, Bloch notò come nel corso del conflitto nascessero e si diffondessero "voci" e "notizie" che riguardavano l’andamento dei combattimenti, il comportamento dei nemici, la disponibilità o la carenza di rifornimenti e vettovaglie. In particolare lo storico francese si soffermò sulla diffusione di "false notizie" che riguardavano le "atrocità" commesse dai nemici e che si rivelavano in un secondo tempo, nella maggior parte dei casi, esagerazioni o vere e proprie invenzioni. È possibile suggerire oggi, invece, che durante la Seconda guerra mondiale, a proposito dell’Olocausto, "false notizie" furono spesso considerate le informazioni veridiche e corrette che trapelavano sull’orrore dei campi o sui massacri sul fronte orientale. Attraverso un meccanismo capovolto rispetto a quello studiato da Bloch, fu la realtà a essere considerata irreale, e le "false notizie" consistettero piuttosto nelle diminuzioni, falsificazioni o negazioni (durante e dopo l’Olocausto) di avvenimenti realmente accaduti. Questi opposti fenomeni avevano in comune un fatto — notato da Bloch nel caso della Grande guerra: "L’errore si propaga, si amplia […]. In esso gli uomini esprimono inconsapevolmente i propri pregiudizi, gli odi, le paure, tutte le proprie forti emozioni". Si potrebbe sostenere che le dimensioni e la natura della Shoah condussero gli uomini a sminuire, falsificare o negare quegli eventi per l’incredulità, la paura e l’orrore che essi suscitarono nei contemporanei e nei posteri.

Questo confronto può gettare luce sulla frattura epistemologica segnata dall’Olocausto rispetto alle possibilità dell’immaginazione, della comprensione e del ricordo. Di ciò furono consapevoli fin da principio sia i carnefici, che sostennero con tracotanza che la storia dello sterminio degli ebrei mai sarebbe stata scritta e sarebbe comunque risultata incredibile, sia le vittime, che temettero di non essere credute e nemmeno ascoltate. Il linguaggio stesso dei nazisti era stato elaborato anche allo scopo di mantenere la segretezza su quanto si stava compiendo ed essi si preoccuparono costantemente di cancellare ogni traccia dei loro delitti, distruggendo anche gli strumenti dello sterminio

poco prima dell’abbandono dei campi di fronte all’avanzata degli Alleati. Anche per questo è stato detto: "l’oblio del genocidio fa parte del genocidio". In risposta a ciò e di fronte alle mostruose dimensioni e alla natura di quanto era avvenuto, l’Olocausto ha fin da principio richiesto i maggiori sforzi collettivi dell’immaginazione, della memoria e della rappresentazione, rispetto forse a ogni altro evento storico. A questi sforzi e a questi processi — che riguardano ogni evento storico, ma si sono dimostrati centrali e straordinariamente sviluppati in questo caso — sono dedicate le riflessioni e le ricostruzioni sia storiche sia teoriche raccolte in questo volume.

Diversi interpreti hanno sottolineato l’apparente paradosso per cui man mano che l’evento storico dell’Olocausto si è allontanato nel tempo, sono cresciuti lo spazio che esso ha nella coscienza collettiva e la presenza e il peso della sua memoria. La centralità e le dimensioni della memoria dell’Olocausto — evento spartiacque, collocato alla metà del secolo — si è estesa fino a caratterizzare, quasi a inglobare, l’intero Novecento: illuminando di una luce sinistra o gettando un’ombra oscura non solo sugli eventi successivi, ma anche su quelli precedenti la Shoah. Alla fine del XX secolo si poteva sostenere con fondamento che Auschwitz fosse divenuto il simbolo del secolo intero e che esso avesse trasformato, o perlomeno profondamente segnato, le concezioni dell’uomo, della morale, del diritto, della politica e della storia nell’Occidente. Questo sviluppo non era tuttavia scontato: ha conosciuto una lunga evoluzione attraversando fasi diverse, ha coinvolto ambiti di riflessione ed elaborazione differenti, ha conosciuto contrasti, resistenze, conflitti, tipici della memoria individuale e collettiva in genere — e tanto più influenti per eventi radicali e traumatici come l’Olocausto.

Con il trascorrere del tempo pare oggi necessaria una mappatura e una storicizzazione di questi processi che attraversi i diversi ambiti della conoscenza, dell’interpretazione e della rappresentazione che hanno contribuito a "costruire" nella coscienza collettiva l’Olocausto, al di là della sua dimensione puramente fattuale. Testimoni, storici, filosofi, scienziati sociali, teologi; ma anche tribunali, istituzioni pubbliche e private (governi, musei, monumenti, commissioni storiche); letterature, arti, film, fotografie, hanno costituito nel tempo l’insieme di eventi che chiamiamo, spesso in modo equivalente e intercambiabile, Olocausto, Shoah, Genocidio degli ebrei, attraverso ricordi, interpretazioni, rappresentazioni, variamente intrecciate e reciprocamente influenti.

Ne hanno formato un racconto, ne hanno cercato spiegazioni, proposto rappresentazioni reali o fittizie, prodotto e diffuso simboli. Un tale insieme di elaborazioni ha costituito non solo una memoria di quegli eventi, ma quella che è stata chiamata una "post-memoria" e che può essere pensata anche come una condensazione ulteriore di proiezioni e rappresentazioni sempre più slegate dagli eventi specifici e dal loro ricordo diretto, e talora trasformate in meri simboli, per quanto universali. "Divenendo storico", è stato notato, "il fenomeno ha assunto un significato sovrastorico". D’altra parte questa riduzione, o sublimazione, dell’Olocausto in un simbolo — ad esempio il cancello di Auschwitz o la cifra dei sei milioni di vittime (senza nulla togliere alla loro tragica concretezza storica) — pare per certi versi necessaria nella rappresentazione e memoria della Shoah, a sostituire o compensare "la narrazione appropriata, che manca all’evento stesso". La costruzione di metafore e simboli è un processo tipico della coscienza collettiva: ciò che ha colpito alcuni interpreti di questi fenomeni sono state quelle rappresentazioni estetizzanti e banalizzanti degli eventi dell’Olocausto, che hanno talora suscitato una contemplazione compiaciuta e morbosa del nazismo, o hanno trivializzato e svuotato la violenza del genocidio. L’estetizzazione della violenza è un fenomeno che non riguarda, del resto, solo le rappresentazioni del genocidio ebraico e così anche la sua banalizzazione. Per le dimensioni e la natura dell’Olocausto è possibile che siano tuttavia all’opera ulteriori meccanismi di distanziamento e di rifiuto psicologico degli eventi.

La massificazione dei simboli dell’Olocausto ha reso sì immediatamente riconoscibili quelle che sono divenute vere e proprie "icone dell’atrocità", d’altra parte essa le ha anche svuotate del loro significato storico e in un certo senso della loro effettiva referenzialità e pregnanza. D’altra parte, per apparente paradosso, almeno negli anni più recenti sono stati soprattutto prodotti dell’industria culturale, sui quali il giudizio è stato del resto spesso divergente, che hanno segnato una sempre maggiore presa di coscienza degli eventi della Shoah e delle loro implicazioni e conseguenze: pensiamo ad esempio al telefilm americano della fine degli anni Settanta Holocaust o al film hollywoodiano degli anni Novanta Schindler’s List. E prima ancora veri e propri fenomeni letterari come la pubblicazione e diffusione, alla fine degli anni Cinquanta, del Diario di Anna Frank: una rappresentazione certo non banale o banalizzante dell’Olocausto, ma che è innanzitutto la riflessione di una ragazzina sulla vita, la guerra, le persecuzioni — ma non lo sterminio: che segnò tragicamente il suo destino, ma che Frank non poté testimoniare. Il suo successo, attraverso rappresentazioni teatrali e cinematografiche, fu dovuto anche alla possibilità di universalizzarne la figura (annebbiando ad esempio le sue caratteristiche ebraiche) e, per certi versi, di rimuoverne la fine violenta, che non poteva essere presente nel libro.

Altro aspetto di grande rilievo delle vicissitudini della memoria dell’Olocausto è stata la sua graduale istituzionalizzazione, che ha raggiunto l’apice nel corso degli anni Novanta del secolo scorso. Si è trattato del graduale affermarsi di ciò che è stato chiamato il "dovere del ricordo", una tendenza che — contrariamente a quanto si potrebbe ritenere — non ha caratterizzato l’insieme dei decenni seguiti alla Seconda guerra mondiale, ma è emersa da una lunga stagione di eclissi della memoria, durata certamente per gli ultimi anni Quaranta e gran parte degli anni Cinquanta. In quel periodo tacquero buona parte degli storici e le testimonianze dei superstiti, anche di pregio letterario, vennero marginalizzate se non rifiutate (celebre il caso della prima sfortuna di Se questo è un uomo di Levi; ma anche la fredda accoglienza e le difficoltà incontrate da Raul Hilberg al principio della sua fondamentale ricerca sulla Distruzione degli ebrei d’Europa). La prima svolta nella storia della memoria e della sua diffusione fu segnata, com’è noto, dal processo Eichmann a Gerusalemme nel 1961.

Questa tendenza ha condotto nel tempo a una monumentalizzazione della memoria dell’Olocausto, che ha avuto il pregio di fissare in forme concrete e riconosciute il ricordo pubblico di quanto era avvenuto — fino a farne una sorta di "religione civile". Essa ha però prodotto da un lato il distacco e il distanziamento tipico del passaggio dall’"era della memoria" all’"era della commemorazione", dall’altro una diffusione pervasiva della memoria, che ha condotto sempre più spesso a una generale confusione — e sostituzione — della storia con la memoria. È invece evidentemente fondamentale continuare a distinguere la storia, ricostruita sui "documenti", e la memoria, costruita sui "monumenti": anche se alcuni storici hanno avvertito l’esigenza, se non la necessità, di includere la voce delle vittime e dei testimoni della ricostruzione storica.

I motivi che hanno fatto degli anni Novanta un momento di svolta nella coscienza e istituzionalizzazione della Shoah sono molteplici e non è facile stabilire quale abbia avuto maggiore influenza o si sia manifestato prima e con più forza. Quasi tutti i saggi del presente volume e del quarto periodizzano le fasi di oblio, recupero e piena affermazione della memoria della Shoah in forme che, seppure non omogenee, sembrano rispondere a spinte condivise e caratteristiche comuni.

La mancata diffusione — dopo i primi tentativi compiuti dagli angloamericani con la popolazione tedesca e presto abbandonati — delle immagini della liberazione dei campi e dei cadaveri e dei resti delle vittime, nonché del modo in cui erano raccolti i beni sottratti loro e ai loro corpi, ha certamente seguito le fasi "politiche" della guerra fredda, ma anche la sensibilità per le immagini sempre più dominata dalle reti televisive: ed è in questo contesto e in questa cornice che gli sforzi di fare conoscere gli eventi e imporre una riflessione più approfondita da parte di storici e filosofi, scrittori e artisti si è potuta dispiegare trovando spazi sempre più ampi.

Anche il tormentato rapporto tra lo scrittore e il testimone — di cui sono stati protagonisti Primo Levi, Jean Améry e, in modo diverso, Elie Wiesel (si veda il saggio di Alberto Caviglion nel quarto volume) — ha trovato successivamente una sua evoluzione; inserendo il proprio destino nell’ambito più largo della storia europea e non solo in quella del genocidio, come ricorda Catherine Coquio a proposito dell’autobiografia di Ruth Klüger. Certamente la presenza, qualitativa ma anche quantitativa, delle memorie dei bambini sopravvissuti alla Shoah o dei figli dei "sommersi e salvati", ha contribuito non poco a trasformare negli anni Ottanta e Novanta il panorama che già la storiografia aveva radicalmente modificato e che aveva permesso di portare a livello di massa (nelle scuole e nei mass media) un tema precedentemente circoscritto. Così come non va sottovalutato il ruolo svolto da alcuni processi (Papon, Touvier, Demianiuk, Barbie) e la nuova direzione intrapresa dal diritto internazionale nel confronto con i nuovi genocidi e crimini contro l’umanità soprattutto nel decennio che segue la caduta del Muro di Berlino.

È stato notato, d’altra parte, che, ironicamente, la monumentalizzazione (attraverso memoriali, monumenti, musei) rappresenta anche un disimpegno dall’obbligo di ricordare, un sollevarsi dal peso della memoria: "l’impulso iniziale alla memorializzazione [to memorialize] di eventi come l’Olocausto deriva forse, in effetti, da un desiderio speculare ed opposto di dimenticare". In questo processo di "memorializzazione" si è infine potuti giungere al principio del XXI secolo all’imposizione del ricordo dell’Olocausto attraverso leggi dello Stato nei principali paesi europei (1997-2000), o alla sua sanzione da parte di organismi internazionali quali l’ONU (2005).

Uno degli aspetti che sono al centro dell’istituzionalizzione della memoria, della sua dilagante presenza, del suo successo, ma anche dell’incipiente senso di saturazione ed estraniamento che questi processi hanno iniziato a produrre, è la questione della vittimizzazione, come caratteristica centrale della memoria dell’Olocausto. La celebrazione del ruolo delle vittime — senza voler affatto diminuire qui la tragedia, l’orrore e l’indiscutibile realtà dello sterminio — si è accentuata nel tempo, è stata uno dei canali di affermazione della memoria: ne ha garantito il crescente successo grazie ai meccanismi di identificazione e personalizzazione, ma ha suscitato anche reazioni di ambivalenza, se non di rigetto, di quella memoria. L’identificazione con le vittime può infatti offrire sensazioni piacevoli, ma suscita anche disagio e provoca desiderio di estraniamento: tanto più se le vittime appartengono prevalentemente a un gruppo specifico — gli ebrei —, mentre la coscienza collettiva richiede o reclama narrazioni e simboli di sofferenza universale. Certamente la fondamentale centralità dell’aspetto della vittimizzazione nella memoria dell’Olocausto — come in fondo lo stesso affermarsi e diffondersi in genere di questa memoria in tempi recenti — è stato anche il frutto del declino delle narrazioni eroiche, antagonistiche e militanti dell’era post-ideologica. Così, ad esempio in Italia, il Giorno della memoria ha potuto affiancare o addirittura prendere il sopravvento, nelle celebrazioni pubbliche ma anche nel calendario dell’educazione scolastica e in genere nella partecipazione collettiva, sul 25 aprile, festa della Liberazione. La produzione di immagini dell’Olocausto, sia artistiche sia fotografiche, iniziò nel corso dell’Olocausto stesso con propositi diversi sia da parte delle vittime sia (nel secondo caso) da parte dei carnefici. Ma la rappresentazione in genere, ad esempio quella letteraria, comportò e comporta qui la sfida artistica ed epistemologica dell’intepretazione e riproduzione di vicende ed esperienze che si collocano ai limiti dell’immaginazione. Alcune voci autorevoli si espressero contro la possibilità di un’interpretazione poetica o finzionale di Auschwitz; altri ritennero che soltanto l’immaginazione artistica potesse condurre se non a una comprensione, almeno ad avvicinarsi alla realtà dello sterminio e al destino delle vittime che — "sommerse" — non potevano più testimoniare l’orrore. È stato scritto, tuttavia, a proposito dell’Olocausto: "Per sapere occorre immaginare […]. Per ricordare occorre immaginare".

Questo tema complesso si è riproposto all’attenzione con lo scandalo che ha accompagnato la scoperta che l’autore di una delle più acclamate memorie di fine secolo — Binjamin Wilkomirski — si era inventato un’identità e aveva costruito efficacemente la propria immagine di bambino sopravvissuto e immerso nel silenzio e nella rimozione del dopo-Shoah. Non si trattava solo di una caso moralmente riprovevole d’inganno e falsità, come per lo più si è voluto interpretare; ma della testimonianza inoppugnabile di come alla fine del XX secolo la conoscenza (fattuale ma anche emotiva e psicologica) della Shoah rendeva possibile l’invenzione stessa della memoria; e di come l’abitudine e l’attenzione alla memoria da parte di un pubblico sempre più vasto forniva legittimità all’invenzione e verosimiglianza a una lettura che s’inseriva in una produzione ormai sterminata.

Il confine tra autenticità e verità, nel caso della Shoah, è stato paradossalmente reso più ambiguo e sottile dalla sua presenza massiccia e continua soprattutto negli ultimi quindici anni. Nel film del regista polacco Dariusz Jablonski — Fotoamator (Il fotografo) — un sopravvissuto del ghetto di Lódz, che accompagna con i suoi ricordi l’intero film, parlando delle foto scattate da un "ordinario" nazista, preoccupato solamente del risultato cromatico dei propri scatti, sosteneva che "erano reali, ma non mostravano la verità". Il rapporto dell’autenticità del documento con la verità di chi si fa interprete e giudice dei fatti e degli eventi storici accompagna, del resto, tutto il dibattito storiografico e non solamente quello, più recente, legato alle vicende del postmodernismo.

L’immaginazione, malgrado le manipolazioni che si possono costruire attorno a essa, costituisce un elemento necessario della conoscenza e del ricordo.

Pochi anni dopo la fine dell’Olocausto, Hannah Arendt scriveva: "Solo l’immaginazione ci permette di vedere le cose nella giusta prospettiva […] Ci dà la generosità per colmare gli abissi che ci separano da ciò che è troppo lontano da noi […] Senza questo genere di immaginazione, in cui effettivamente consiste la comprensione, non saremmo mai capaci di orientarci nel mondo".

È possibile quindi che, accanto e assieme alle voci dei testimoni, alle ricostruzioni degli storici, allo sforzo e all’impegno della memoria — e in buona parte a fondamento di ciascuna di queste attività — la risposta dell’uomo di fronte alla negazione dell’umanità nell’Olocausto sia la prosecuzione e la perpetuazione dell’immaginazione come luogo di fondamento della dignità e libertà umana, che accoglie, garantisce continuità e trasforma la testimonianza, il ricordo, la storia.

Marcello Flores

Simon Levis Sullam

 

 

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