Il Poppante Saggio
Blog ferencziano
di Gianni Guasto

VIA DELLA VERITA'

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26 maggio, 2013 - 06:39
di Gianni Guasto
VIA DELLA VERITA'
Sandra viene in supervisione con l’aria di chi deve confessarmi qualcosa. “Ho una notizia da darti. Ho finalmente scelto una scuola di psicoterapia. A Milano”.
“Direi che questa è una buona notizia”, commento.
“Aspetta a dirlo” aggiunge con imbarazzata ironia. “Quella che ho scelto non è propriamente una scuola psicoanalitica”.
Capisco che l’imbarazzo è dovuto al timore di una mia disapprovazione. Io, in realtà, non so nulla della scuola che Sandra dopo un po’ si decide a nominare, e so abbastanza poco anche della teoria che sottende l’indirizzo da lei scelto.
“Lo sai” mi dice, “io sono in analisi da tanto tempo e sono proprio contenta di aver scelto X come analista, perché mi ha sempre lasciato una libertà totale” (per quel poco che conosco il Collega X, non sono per niente stupito da questa affermazione), “ma sai”, aggiunge, “c’è qualcosa in tutto questo che non mi appartiene. Durante la formazione che ho avuto finora, mi sono imbattuta in troppi divieti, mentre io, quando sono con i pazienti, mi sento spinta a fare cose che i miei maestri disapproverebbero. E poi il corporeo … non posso farne a meno”.
Mentre Sandra parla, a me torna in mente un’immagine: Freud seduto per terra con una paziente isterica.
C’è un passo del Diario Clinico (o è in una lettera indirizzata a Groddeck che l’ho letto?), in cui Ferenczi dice, più o meno testualmente: "una volta Freud era capace di rimanere molte ore seduto per terra ad ascoltare una paziente isterica. Adesso non più". Ma quante cose ha fatto Ferenczi sfidando le proibizioni? Quanto tempo passava con le pazienti più gravi? E che cosa è veramente accaduto nelle sedute di analisi reciproca? Di tutto questo abbiamo per lo più notizie imprecise. Ma da tutta questa somma di errori è scaturita un’eredità che non cessa ancora di fruttificare.
Quindi: che cosa della psicoanalisi continua a germogliare e che cosa è destinato a trasformarsi o a scomparire? Che cosa è scorza –per dirla con Abraham e Torok-, e che cosa nocciolo? Tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma, e, da questo punto di vista l’enfasi sul rispetto dell’ortodossia è stata piuttosto la difesa di un oggetto morto, un cadavre éxquis, nascosto dietro una cortina d’interdizioni. Certo: la relazione, il transfert, il controtransfert sono beni preziosi e irrinunciabili. E anche il setting. Ma, del setting, che cosa è vitale e che cosa è rituale? Per quante volte potremo lasciar sprofondare il paziente in nome della nostra fede nei Comandamenti?
Mentre Sandra parla, questi pensieri tornano per la centesima volta ad affollare la mia mente.
E mi rivedo, giovanotto, tentare inutilmente di affogare i miei dubbi come gattini ciechi. Anche allora avevo intravisto (proprio come oggi fa la coraggiosa Sandra) la via della “mia” verità, in mezzo a una nebbia non illuminata da alcun Maestro. E fu proprio quella solitudine a spaventarmi, togliendomi il coraggio di guardare fino in fondo a quegli interrogativi come a fili da dipanare.
“Perché si interessa di queste cose?” mi fu chiesto. Era la risposta a una mia domanda semplice semplice: quale differenza c’è fra l’analisi personale e l’analisi didattica? perché l’analisi del futuro analista deve necessariamente essere condotta da un didatta? Non basta un analista “autentico”, o “sincero”? Magari “capace”? O addirittura “simpatico” al suo paziente?
Queste domande furono giudicate in vario modo: nevrosi, inautenticità, eccessiva ambivalenza, voglia di barare, incapacità di stare al gioco, e qualcuno si prese persino la briga di citarmi un articolo di Eugenio Gaddini, nel quale si parlava dell’”impostore”, colui cioè che imbroglia le carte per diventare analista, dissimulando i propri conflitti per raggiungere una posizione professionalmente e socialmente prestigiosa. Non fui in grado allora, di spiegare ai miei illustri interlocutori che ciò che volevo era semplicemente la “verità”. E soltanto molti anni più tardi mi resi conto che quelle domande rimaste senza risposta conducevano molto lontano, sulle vie della scoperta di una degenerazione clericale che aveva imbrigliato la psicoanalisi e che rischiava di soffocarla.
Bisognava puntare alla libertà di pensiero, un bene non proprio estraneo alla psicoanalisi. Un bene per il quale vale la pena di spendere la vita. E libertà di pensiero significa anche libertà di ricercare, con tutti i rischi che ne conseguono. Perché l’errore, in fondo, è umano, mentre la scomunica è del Maligno.
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