Sulla stupidità [o sull’inconscio] di Robert Musil

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11 giugno, 2013 - 09:48

Conferenza tenuta a Vienna l’11 marzo 1937 e ripetuta il 17 marzo 1937 su invito della Österreische Werkbund.

Signore e signori,

chi tenti oggi l’impresa di parlare della stupidità corre il rischio di rimetterci le penne in tanti sensi. La cosa potrebbe interpretarsi come arroganza o addirittura come strappo al progresso contemporaneo. Anni fa io stesso scrissi: “Se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Correva l’anno 1931 e nessuno oserà mettere in dubbio che da allora il mondo non abbia visto progressi e miglioramenti! Così poco per volta la questione: che cos’è veramente la stupidità? è diventata ineludibile.

Non vorrei neppure trascurare il fatto che, da scrittore, da tempo conosco la stupidità.

Potrei addirittura dire che con lei ho più volte avuto rapporti collegiali. Inoltre, appena si aprono gli occhi sulla letteratura, ci si trova confrontati con un’indescrivibile resistenza, apparentemente proteiforme. Può essere resistenza personale, come quella dignitosa del professore di storia della letteratura che, abituato a mirare a distanze incontrollabili, sul presente canna miseramente. Ma possono anche essere forme generalmente evanescenti di trasformazione del giudizio critico, da quando nella suaimperscrutabile bontà Dio ha concesso il linguaggio umano anche ai produttori di film sonori. Ho già descritto in diverse occasioni questi fenomeni. Non è necessario che mi ripeta o completi la lista (impresa manifestamente impossibile con la tendenza oggi ubiquitaria al grandioso). Basti notare un fatto. La costituzione non artistica di un popolo si esprime non solo in tempi cattivi in modo brutale ma anche in tempi buoni in tanti modi, a tal punto che tra la repressione o divieto e laurea ad honorem, tra nomina accademica o assegnazione di un premio ci sono solo differenze di grado.

Ho sempre supposto che in un popolo, che pure si vanta di amare l’arte, la multiforme resistenza contro l’arte e l’esprit de finesse non fosse altro che stupidità. Ci sarebbe una particolare forma di stupidità, magari artistica o sentimentale, che si manifesterebbe in forme tali che quel che chiamiamo bellezza dello spirito è il più delle volte anche una bella stupidità. E oggi non ho proprio molti motivi per cambiare idea.

Naturalmente non si può attribuire a stupidità tutto ciò che sfigura un’aspirazione pienamente umana come l’arte. Come insegnano in particolare le esperienze degli ultimi anni, va lasciato posto anche alle diverse forme di assenza di carattere. Ma non si obietti che allora non c’entra il concetto di stupidità, che si riferirebbe all’intelletto e non al sentimento, da cui invece l’arte dipende. Sarebbe sbagliato. La stessa fruizione estetica è giudizio e sentimento. E vi chiedo il permesso non solo di ricordare questa grande formula, che ho preso in prestito da Kant, il quale parla di capacità di giudizio estetico e di giudizio di gusto, ma anche di riprendere le antinomie a cui porta. Tesi. Il giudizio di gusto non si fonda su concetti, altrimenti su di esso potremmo disputare (arrivando a decidere con prove provate).

Antitesi. Il giudizio di gusto si fonda su concetti, altrimenti su di esso non potremmo neanche litigare (cercando un’intesa).

E ora mi chiedo se un simile giudizio e con le stesse antinomie non sia alla base anche della politica e, in generale, del casino della vita. Non ci aspetteremo di trovare là dove ragione e giudizio sono di casa anche le loro sorelle e sorelline – le diverse forme di stupidità? Tanto basti sulla sua importanza. Nel suo delizioso e a tutt’oggi insuperato Elogio della follia non ha forse scritto Erasmo che, se non fosse stato per certe stupidaggini, l’uomo non sarebbe neppure venuto al mondo?

Sono in tanti a esibire il senso di dominio impudico e violento, che su di noi esercita la stupidità, dimostrandosi tra l’amichevole e il cospiratorio sorpresi, appena avvertono che qualcuno, di loro fiducia, intende evocare il mostro nominandolo. Inizialmente ho potuto farne l’esperienza non solo su di me, constatandone ben presto la validità storica, dopo essermi messo alla ricerca dei predecessori nell’elaborazione della stupidità (dei quali mi ha stupito venire a conoscere l’esiguo numero – a quanto pare i saggi preferendo scrivere intorno alla saggezza) e aver ricevuto da un dotto amico il testo a stampa di una conferenza Sulla stupidità, tenuta nel 1866 da tale Johann Eduard Erdman, allievo di Hegel e professore a Halle, la quale esordisce subito con le risate che ne salutarono l’annuncio. Sapendo che certe cose possono capitare persino a un hegeliano, ritengo che un comportamento del genere verso chi voglia parlare di stupidità sia solo un caso particolare, ma non mi sento molto sicuro, convinto come sono di avere sfidato una forza psicologica potente e profondamente ambigua.

Perciò preferisco riconoscere da subito la debolezza in cui mi ritrovo: io non so cosa la stupidità sia. Non ho scoperto nessuna teoria della stupidità, grazie alla quale potrei accingermi a salvare il mondo. Entro i confini della riservatezza scientifica non ho trovato una sola ricerca che avesse come oggetto la stupidità e neppure una coincidenza che trattando di cose affini riguardasse bene o male il suo concetto.4 Può darsi che sia colpa della mia ignoranza, ma è più probabile che la domanda “cos’è la stupidità” corrisponda alle attuali consuetudini di pensiero meno delle domande sul bene, la bellezza o l’elettricità. Ciononostante non è meno stringente il desiderio di farsene un’idea e di rispondere nel modo più sobrio possibile a questa domanda preliminare a tutta la vita. Così anch’io un giorno sono caduto vittima della domanda su cosa sia “realmente” la stupidità, invece di descriverne le parate, come il mio dovere e le mie capacità professionali richiedevano. Non volendo usufruire dei modi letterari né avendo accesso a quelli scientifici, ho tentato nel modo più ingenuo, ovvio in simili casi, di seguire l’uso della parola “stupido” e derivati, ricercando gli esempi più comuni e tentando di metterli insieme. Simile modo di procedere ha sempre qualcosa della caccia alle cavolaie. Credi di aver visto qualcosa, la segui per un po’ senza perderla di vista, ma zigzagando da tutt’altra direzione arriva un’altra farfalla, del tutto simile alla prima e ben presto non sai più quale stai seguendo. Succede lo stesso con i derivati della stupidità. Non sempre sai distinguere se sono originariamente connessi o se la trattazione porta inavvertitamente dall’uno all’altro in modo affatto esteriore. Non è molto semplice metterli sotto lo stesso cappello in modo da dire: questo è veramente specifico di una testa di legno.

In siffatte circostanze come cominciare è indifferente. Permettetemi, allora, di cominciare in modo qualunque. Va benissimo questa difficoltà iniziale: chiunque voglia parlare o utilmente partecipare al discorso sulla stupidità, deve presupporre di non essere egli stesso stupido. Così facendo, fa vedere che si considera intelligente, anche se fare così è in generale considerato segno di stupidità. Se poi ci si chiede perché sia stupido mostrarsi intelligenti, la prima risposta sa di polvere del municipio dei progenitori. Si pensa che sia più prudente non mostrarsi intelligenti. Può darsi che questa prudenza, profondamente scettica e oggi a tutta prima addirittura incomprensibile, fosse dettata da situazioni in cui per il più debole era realmente più intelligente non essere considerato intelligente, perché la sua intelligenza poteva minacciare l’esistenza del più forte. Per contro la stupidità sopiva la diffidenza. La “disarma”, come si dice oggi. Tracce di questa antica astuzia e furba stupidità si trovano realmente in certe situazioni di dipendenza, dove il rapporto di forza è così asimmetrico che al più debole non resta altro che mostrarsi più stupido di quel che non è. Ne sono esempi la cosiddetta astuzia contadina, i rapporti dei domestici con padroni dotati di qualche vocabolo in più, del soldato con i superiori, dello scolaro con il maestro e del bambino con i genitori. Per il potente il debole che non può è meno provocatorio del debole che non vuole. La stupidità porta il potente addirittura “alla disperazione”, quindi in evidente stato di debolezza!

In perfetta simmetria l’intelligenza mette il padrone sul “chi vive”. Nel subordinato la si apprezza solo insieme a incondizionata devozione. Senza certificato di buona condotta, non si sa se sia a vantaggio del padrone. Allora sempre meno la si chiama intelligenza, più spesso immodestia, insolenza o malizia. Spesso si instaura un rapporto che va contro l’onore e l’autorità del padrone, quand’anche non minacci la sua sicurezza. In campo educativo la stessa cosa si traduce nel trattare l’alunno dotato ma ribelle più duramente di uno che ottusamente resista. In morale ciò ha portato all’idea che la volontà sia tanto più cattiva quanto migliore è il sapere contro cui si adopera.

Persino la giustizia non è rimasta immune da questo pregiudizio personale e giudica sfavorevolmente l’esecuzione intelligente del crimine in quanto “raffinata” e “brutale”.

In politica ognuno può trovare esempi dove vuole. una sorta di ceto medio-basso dello spirito e dell’anima non si vergogna minimamente del proprio bisogno di arroganza, quando prende le difese del partito, della nazione, della setta, della tendenza artistica [o della scuola di psicanalisi], e può dire Noi invece di Io.

Con una riserva tanto ovvia quanto trascurabile, potremmo chiamare questa arroganza anche vanità. Oggi l’anima di molti popoli e di molti stati sembra dominata da sentimenti tra cui la vanità occupa innegabilmente i primi posti in classifica. Da tempo tra stupidità e vanità esiste uno stretto rapporto, che forse può fornirci alcune indicazioni utili. Comunemente lo stupido fa già l’effetto del vanitoso, perché non ha l’intelligenza di nasconderlo. Ma, in verità, non ce n’è neppure bisogno, perché la parentela tra stupidità e vanità è immediata. Il vanitoso dà l’impressione di far di meno di quel che potrebbe. Somiglia alla macchina che perde vapore da un bullone allentato.

Il vecchio detto: “Stupidità e vanità crescono sulla stessa pianta” significa solo che la vanità “abbaglia”. Al concetto di vanità, in realtà, associamo l’attesa di una minore prestazione, poiché il significato della parola “vano” è quasi identico a “invano”. Ci si attende una minore prestazione, dove in effetti c’è prestazione. Non di rado vanità e talento vanno insieme. Allora abbiamo l’impressione che il vanitoso avrebbe potuto fare di più, se non si fosse ostacolato da solo. Questa idea così tenace di diminuita efficienza si ripresenterà in seguito come il nostro modo più generale di pensare la stupidità.

Come è noto, il comportamento vanitoso non viene evitato, perché sarebbe stupido, ma perché non sta bene. “Chi si loda s’imbroda”, dice l’aforisma. Significa che le smargiassate, il parlare troppo di sé vantandosi, non è considerato solo poco intelligente ma anche maleducato. Se non erro, le richieste della buona educazione, così violate, rientrano nelle multiformi prescrizioni del ritegno e del distacco, allo scopo di non urtare l’albagia altrui, da presupporre non minore della nostra. Sono regole per mantenere le distanze. Sono dirette contro l’uso di parole troppo franche, regolano i modi di salutare e di rivolgere la parola, non permettono di contraddire qualcuno senza scusarsi o di cominciare una lettera con “io”. In breve, richiedono l’osservanza di certe regole per non “avvicinarsi troppo” reciprocamente. Hanno il compito di appianare e livellare i rapporti, attenuare l’amor proprio e del prossimo, mantenendo la temperatura del commercio umano a un livello intermedio. Tali prescrizioni si ritrovano in ogni società, nelle primitive addirittura più che in quelle altamente civilizzate, nonché in quelle animali senza parola, come si può facilmente desumere dai loro riti [prossemici].

Secondo le prescrizioni di distanza è interdetto non solo lodare se stessi ma anche gli altri con troppa insistenza. Dire in faccia a qualcuno che è un genio o un santo è altrettanto disdicevole che dirlo di sé. Per la sensibilità attuale imbrattarsi il volto o strapparsi i capelli non è meglio che insultare l’altro. Basti osservare che non siamo né più stupidi né meno bravi degli altri, come già detto.

Evidentemente in situazioni ordinate sono bandite espressioni smodate e indisciplinate. E come prima si parlava della vanità di popoli e partiti che sopravvalutano il proprio stato di illuminazione, ora bisogna aggiungere che, quando si sfoga – proprio come il megalomane che sogna a occhi aperti – la maggioranza si crede non solo l’unica saggia ma anche l’unica virtuosa, coraggiosa, nobile, invincibile, pia e bella. Il mondo ha la peculiare tendenza per cui, quando gli uomini si trovano in tanti, si permettono tutto ciò che è proibito al singolo. I privilegi del Noi ingigantito danno l’impressione che il crescente incivilimento e addomesticamento del singolo vada compensato dal parallelo imbarbarimento degli stati, delle nazioni e delle loro leghe ideologiche. Chiaramente si manifesta un disturbo dell’equilibrio affettivo che in sostanza precede la contrapposizione tra Io e Noi e ogni valutazione morale. Ma tutto ciò, dobbiamo chiederci, è ancora stupidità o ha con la stupidità una qualche connessione?

Egregi ascoltatori! Nessuno ne dubita! Ma prima di rispondere preferiamo prendere un po’ di respiro con un esempio non poco amabile. Tutti noi, ma in prevalenza noi uomini, in particolare noti scrittori, conosciamo la signora che vuole a ogni costo confidarci il romanzo della sua vita. Apparentemente la sua anima si è trovata sempre in circostanze interessanti, senza mai riportare un vero successo, che si aspetta tuttavia solo da noi. È stupida, la signora? Di solito un certo non so che proveniente dal complesso di tutte le impressioni ci sussurra: ma sì, lo è! Ma la cortesia, non meno della giustizia, richiede di concederle che non lo è sempre e comunque. Parla molto di sé, è vero. In generale, parla molto. Dà giudizi precisi su tutto. È vanitosa e immodesta. Spesso sale in cattedra. La sua vita amorosa è disordinata e la vita in generale gli va storta. Ma non ci sono molti altri uomini a cui succedono tutte queste cose o almeno gran parte? Parlare molto, per esempio, è anche una cattiva abitudine degli egoisti, degli irrequieti e di certi depressi. Le stesse cose possiamo riferirle soprattutto ai giovani. Fa parte dei fenomeni dello sviluppo parlare molto di sé, essere vanitosi, saccenti, condurre una vita disordinata, in poche parole, mostrare le stesse deviazioni dell’intelligenza e della buona educazione, senza per questo essere stupidi o almeno non più stupidi di quanto lo richieda la condizione naturale, non avendo avuto abbastanza tempo per diventare intelligenti.

Signore e signori! I giudizi della vita quotidiana e della conoscenza degli uomini per lo più colgono nel segno, ma di solito fanno cilecca, perché non si basano su una teoria giusta, ma rappresentano semplici moti psichici di adesione o difesa. Anche questo esempio ci dimostra solo che uno può essere stupido, ma non è detto che lo sia. Il suo significato cambia con il contesto in cui la cosa si verifica. La stupidità è fittamente intessuta con altro, senza che da qualche parte spunti il filo che sciolga la tessitura.

Persino genialità e stupidità sono indissolubilmente legate. Ci si vieta di parlare molto solo per paura di passare per stupidi. Il divieto di parlare di sé si aggira con un vero e proprio trucco: attraverso lo scrittore. A nome dell’umanità lo scrittore può raccontare che ha mangiato bene e che in cielo c’è il sole, può esporsi in pubblico, propalare segreti, fare confessioni e deposizioni senza riguardi per la persona – almeno molti scrittori ci tengono molto! Tutto ciò ha l’aria dell’eccezione con cui l’umanità si consente ciò che altrimenti le sarebbe vietato. Così, aiutata dagli scrittori, l’umanità parla di se stessa raccontando milioni di volte le stesse esperienze e le stesse storie, appena cambiando le circostanze, senza alcun senso o progresso di sorta. L’uso che lo prescrive alla massa (“Fate”). Non è un paradosso né una contraddizione, ma è la logica dell’inconscio dove la negazione non sempre nega o, più precisamente, non vale l’alternativa  spiritualmente elevato o bello! Per precisare quel “in qualche modo” è importante che l’uso di espressioni concernenti la stupidità sia intimamente pervaso da un secondo uso, che comprende le espressioni altrettanto imperfette relative al volgare e al moralmente riprovevole. Il che ci riporta a quanto già visto a proposito del comune destino dei termini “stupido” e “maleducato”. Infatti, non solo “kitsch”, espressione estetica di origine intellettuale, ma anche termini morali come “merda”, “odioso”, “orrendo”, “morboso”, “sfacciato” sono critiche d’arte e giudizi sulla vita in forma nucleare e non sviluppata. Forse queste espressioni, anche se usate indifferentemente, sono animate dalla tensione spirituale a significare una differenza. Allora, alla fine, al loro posto subentra l’esclamazione quasi senza parole “che volgarità!”, che sostituisce tutte le altre e pretende spartirsi il dominio del mondo con l’altra “che stupidità!”.

Infatti, le cose vanno così: le due espressioni possono di volta in volta prendere il posto delle altre, perché “stupido” veicola il significato generale di “incapace” e “volgare” nel senso di “contro la morale”. Origliando quel che oggi gli uomini dicono l’uno dell’altro, sembra che dalle reciproche foto di gruppo involontarie emerga uno sgradevole autoritratto in bianco e nero dell’umanità.

Forse vale la pena ripensarci. Indubbiamente i due termini rappresentano il gradino più basso di un giudizio incompiuto, di una critica inarticolata, che avverte che qualcosa non va, ma non sa dire cosa. È l’inizio e la fine di una replica, una sorta di “cortocircuito”.

Lo si comprende meglio ricordando che, qualunque significato abbiano, “stupido” e “volgare” sono insulti. Come è noto, il significato di un insulto non sta tanto nel suo contenuto quanto nell’uso. Molti di noi possono amare gli asini, ma si offenderebbero a essere chiamati asini. L’insulto non sta per ciò che rappresenta, ma per un misto di sentimenti, intenzioni e rappresentazioni che l’insulto riesce tutt’al più a segnalare, non a esprimere. Per inciso, lo stesso vale per le parole alla moda o straniere.

Perciò sembrano insostituibili, anche se si possono sostituire benissimo. Per la stessa ragione nell’insulto ricorre qualcosa di inesprimibilmente inquietante, che riguarda l’intenzione, non il contenuto. Tutto ciò è massimamente evidente nelle parole di motteggio dei ragazzi. Uno dice “cespuglioso” o “Maurizio” e l’altro in base a corrispondenze segrete si incazza da bestia.

Quel che si può dire degli insulti, delle canzonature e delle parole alla moda, si può trasferire pari pari alle battute di spirito, alle frasi fatte o d’amore. Ciò che accomuna incostante, frammentato, lasciando intendere che queste caratteristiche rimandano in parte all’intelletto e in parte al sentimento. Non si sbaglierebbe allora a dire che stupidità e intelligenza dipendono sia dall’intelletto sia dal sentimento. Si può lasciare agli addetti ai lavori stabilire se prevalga più l’uno o l’altra, se per esempio, nell’imbecillità ci sia più debolezza di intelligenza o paralisi dei sentimenti, come pretendono alcuni apprezzati rigoristi. Noi dobbiamo cavarcela come possiamo.

Nella vita quotidiana per stupido si intende uno “un po’ debole di testa”. Ma anche diverse deviazioni psichiche e spirituali possono ostacolare, intralciare, e portare all’errore un’intelligenza congenitamente indenne, fino al punto per cui la lingua dispone solo della parola “stupidità”. Questa parola abbraccia, quindi, due situazioni molto diverse: l’autentica e semplice stupidità e la stupidità che un po’ paradossalmente è segno di intelligenza. La prima è dovuta sulla debolezza intellettuale, la seconda su una debolezza intellettuale, che è tale solo rispetto a una cosa qualunque. L’ultima è quella di gran lunga più pericolosa.

La stupidità autentica è un po’ dura di comprendonio, come si dice. È povera di idee e parole, nonché maldestra nell’usarne. Preferisce le cose comuni, che continuamente ripetute le si imprimono bene in testa. Se afferra qualcosa, non se la fa scappare. Non analizza né sottilizza. Sue sono niente di meno che le rosee guance della vita! È vero che pensa in modo vago e basta una nuova esperienza a far tacere il suo pensiero, ma è anche vero che preferisce ciò che si può sperimentare con i sensi o contare sulle dita. In una parola, è la cara “limpida stupidità” che, se non fosse a volte così credulona, confusionaria e addirittura incorreggibile testona, da portare alla disperazione, sarebbe addirittura graziosa.

Non voglio inibirmi il piacere di abbellire questo quadro con esempi, tratti dal manuale di psichiatria di Bleuler, che ne evidenziano altri aspetti. Un imbecille esprime la situazione, che noi liquideremmo con la formula “medico al letto del malato”, con queste parole: “un uome che tiene l’altro per la mano, che è a letto; poi in piedi c’è una suora”. Così si esprime un pittore primitivo! Una domestica un po’ confusa pensa a uno scherzo se le si dice di mettere i suoi risparmi in banca, dove danno interessi. “Nessuno – risponde – sarebbe così stupido da pagare per conservarmi del denaro”! Esprime così una mentalità cavalleresca, un rapporto con il denaro, che da giovane riscontravo in distinti signori anziani. Infine, di un terzo imbecille si registra come sintomtica l’affermazione che un pezzo da due marchi vale meno di un pezzo da un marco e due mezzi. “Infatti – spiega – lo si deve cambiare e allora si ricava di meno”! Spero di non essere l’unico imbecille in questa sala a concordare di cuore con questa teoria del valore per coloro che non sanno stare attenti mentre cambiano denaro.

Ma, per tornare al rapporto con l’arte, la semplice stupidità è spesso una vera artista.

Occasionalmente siamo tutti stupidi. Occasionalmente dobbiamo tutti agire alla cieca, almeno in parte, altrimenti il mondo si fermerebbe. Se, dati i pericoli della stupidità, qualcuno volesse dedurre la regola: “Astieniti dal giudicare e dal decidere su ciò che non comprendi abbastanza”, ci bloccheremmo. Ma questa situazione, che oggi suscita tanto scalpore, è simile a quella cui siamo da tempo avvezzi nella sfera intellettuale. Infatti, il nostro sapere e il nostro potere sono incompleti. In ogni scienza siamo costretti a formulare giudizi fondamentalmente avventati e precipitosi. Ma con sforzo abbiamo imparato a mantenere gli errori entro limiti noti e occasionalmente a migliorare le stime, sino al punto da correggere le nostre azioni. Nulla vieta di trasferire questo modo esatto e orgogliosamente umile di giudicare e di fare ad altri campi. Credo nel principio: “Fai bene quanto puoi e male quanto devi”, sempre consapevole del margine d’errore del tuo fare. Saremmo già a metà strada verso una forma di vita piena di speranze.

Con questi accenni sono giunto già da un pezzo alla fine delle mie considerazioni, che vogliono soltanto essere uno studio preliminare, come ho già detto mettendo le mani avanti. E con il piede sul confine dichiaro di non essere più in grado di proseguire.

Un passo più in là e usciremmo dal dominio della stupidità, che anche dal punto di vista teorico è molto vario, e metteremmo piede nel regno della saggezza, un territorio inospitale e in generale evitato.

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