GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Agosto 2013 I - Psicoanalisi: pensata, praticata, rappresentata, raccontata
Freud tra pensiero e pratica di scrittura
di Aurelio Molaro, ilsole24ore.com, 2 agosto 2013
È ancora possibile “pensare con Freud”? La riflessione psicoanalitica del secondo Novecento, così carica di un intrinseco pluralismo che sembra molto spesso aver quasi dimenticato l’insegnamento originario del maestro, sembrerebbe per certi aspetti contraddire questa ancora oggi così rivoluzionaria possibilità. Senza dubbio, nella sua lunga attività di ricerca Freud è stato uno straordinario maestro di pensiero che ha saputo (ma non sempre in maniera soddisfacente) incarnare ed intrecciare inappellabili istanze di scientificità con la strenua volontà di andare “al di là del fenomeno”, per addentrarsi negli indeterminabili territori metapsicologici dell’inconscio.
A ciò si aggiunge, come un naturale e ancora una volta indiscutibile corollario, una straordinaria capacità di scrittura e di divulgazione teorica. Insieme alla parola parlata, discussa e ragionata, la scrittura rappresenta infatti la cifra più alta della riflessione psicoanalitica freudiana. D’altra parte, la stessa attività di scrittura, che «istituisce uno “spazio sospeso” tra la linearità del racconto e l’emergere variegato di nuove associazioni e nuove idee», sembra manifestare in una forma affatto secondaria la questione (problematica) del soggetto scrivente. Come affermano Laura Ambrosiano ed il compianto Eugenio Gaburri nel loro variegato testo – intitolato per l’appunto Pensare con Freud (Raffaello Cortina Editore, XX-132 pp.) – riecheggiando il tormento di un “fantasma senza pace” vissuto da Freud nel periodo della stesura del suo lavoro su Mosè, «ogni scritto è come un fantasma che spinge per essere realizzato, che inquieta, interroga, urge. La spinta a scrivere è, in parte, vissuta come qualcosa di estraneo, che, da dentro, fa pressione, come qualcosa di indipendente dall’autore stesso.
Apparentemente l’Io scrive, è attivo, ma in realtà l’Io vive una buona quota di passività, perché è l’Es che preme per essere messo in parole». Ciò implicherebbe, con tutta probabilità, che nella dinamica della scrittura sia il fantasma pulsionale dell’Es a dettare, nel contesto di una “passività ricettiva” dell’Io, le regole al pensiero razionale ed organizzato. Ecco perché, nonostante la necessità di una nostra più o meno solida capacità ordinativa, «lo scrivere sospende le antitesi secche con cui siamo abituati a ragionare», consegnandoci di conseguenza una forma di pensiero «non lineare» che «ci invita ad accogliere la nostra attività insieme con la nostra passività: vale a dire la bisessualità inconscia». Ciò implica, di fatto, la considerazione dell’attività della scrittura – e con essa quella del pensiero razionale – come il frutto della nostra capacità di sublimazione, da Freud a suo tempo intesa come un meccanismo di trasformazione della meta pulsionale alla base di ogni processo creativo e di ogni progresso civile. Ed è proprio la riconsiderazione del grande tema freudiano della sublimazione – in un costante e fertile dialogo con istanze di ordine tanto letterario quanto filosofico – il nucleo centrale della densa argomentazione di Ambrosiano e Gaburri.
Ripercorrendo le figure antropologiche (ovvero “archetipiche”) della personalità, del desiderio cannibalico, del destino, dell’impersonalità, della morte e della fantasia, gli autori giungono a riconoscere nell’azione sublimatoria una particolare funzione terapeutica, «un tentativo di autocura della fragilità e dei limiti della nostra presenza in un mondo che non controlliamo, dell’impatto con la morte, il dolore, la piccolezza delle nostre risorse conoscitive». Su questa base, la capacità di sublimare diviene lo strumento necessario in vista dell’organizzazione di un senso, della rappresentazione della vita e della morte, della crudezza dell’esistenza e della condivisione con la comunità: come «interesse per la propria vita, nonostante il dolore», la sublimazione permette così di sperimentare la soddisfazione «non più sessuale della conoscenza realizzata, dell’opera creata, dell’incontro riuscito» come cifra della contemplazione del «granello di verità» che l’individuo riesce a catturare e a condividere con la comunità (la “pubblicazione” bioniana). Ciò delineerebbe, con buona pace di chi avrebbe sempre visto la psicoanalisi come una “cura del passato”, la possibilità di un autentico “recupero del futuro” in senso terapeutico, nella costante «ricerca delle possibili prospettive di sviluppo del singolo individuo e del gruppo». Prima ancora che semplice o complessa teoria dell’uomo e sull’uomo, la psicoanalisi è dunque pratica, pratica della scrittura ovvero pratica della cura.
L. Ambrosiano – E. Gaburri, Pensare con Freud, Raffaello Cortina, Milano 2013, XX-132 pp. € 15,50
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-07-25/pensare-con-Freud-101933.shtml?uuid=AbrNTKHI
Stefano Bolognini difende l’importanza della psicoanalisi. Abuso di farmaci contro il dolore. Per l’esperto Bolognini, però, è meglio la terapia del maestro
di Bruno Giurato, lettera43.it, 4 agosto 2013
C’era una volta un re, e si chiama Sigmund Freud. Per tutto il 900 il padre della psicoanalisi è stato il punto di riferimento per una cultura europea in cerca di un nuovo fondamento, oltre la millenaria religiosità, e oltre un razionalismo arido. Io, superIo ed Es sono stati gli attori di una nuova mitologia, e perfino i regnanti di un dominio culturale che si estendeva dalla letteratura alla medicina.
LA CRISI DELLA PISCOANALISI. Da qualche decennio a questa parte l’influenza culturale di Freud e della psicoanalisi si è ridotta. E qualcuno ha azzardato l’ipotesi che il maestro di Totem e Tabù sia, appunto, nient’altro che un totem da mettere in soffitta. E con Freud sarebbero da rottamare l’analista, il lettino rituale, le domande sull’interpretazione dei sogni, l’Acheronte chiamato Inconscio.
«IL MITO DELLA FESTA CONTINUA». «Nella nostra società attuale c’è un attacco costante al pensiero e al sentimento», dice a Lettera43.it Stefano Bolognini, psicoanalista freudiano, da pochi giorni presidente dell’International Psichoanalytic Association (Ipa), fondata da Freud in persona a Norimberga nel 1910. «Il cinema, la tivù, le tendenze sembrano indicare che la vita deve essere una specie di festa continua», aggiunge. «Anche il sovraccarico di informazioni che usa lo stesso meccanismo della nevrosi ossessiva, cioè tenere la mente occupata da cose per non pensare, va nella stessa direzione». Anche per questo Bolognini non ci sta a farsi rottamare. Rivendica per la psicoanalisi una funzione di contravveleno ai mali della società attuale. E disegna un panorama culturale vario e stimolante.
DOMANDA. Come «sta» la psicoanalisi nel mondo?
RISPOSTA. Sta in maniere diverse a seconda delle aree geografiche. Sino a 20 anni fa il paradiso della psicoanalisi erano gli Usa, andare in analisi era estremenente trendy: gli attori, i politici, tutti lo facevano…
D. Un po’ come nei film di Woody Allen?
R. Sì, ma, ecco, in questo momento in Usa non dico che si vivacchi, ma non c’è quel boom degli anni a cavallo della Seconda Guerra mondiale.
D. E altrove?
R. E strano, ma c’è una situazione a macchia di leopardo. In Francia la psicoanalisi va fortissimo, anche senza contributi del servizio sanitario nazionale. In Centro e Nord Europa c’è uno sviluppo fiorentissimo perché lo Stato contribuisce alle spese del paziente. In Germania, addirittura, si ha diritto a due anni di analisi gratis.
D. In Italia invece?
R. C’è una fioritura di interesse: il conto dei pazienti è molto difficile da fare, ma nel nostro Paese ci sono 950 analisti, più circa 300 in formazione. il pubblico è ricettivo, anche senza alcun contributo dello Stato.
D. L’analisi freudiana è un processo lento. È armonizzabile coi ritmi della vita di oggi?
R. Oggi gli ostacoli maggiori all’analisi sono di due tipi. Ci sono i problemi concreti, come la mancanza di danaro. Ma ci sono anche ostacoli interni alla persona…
D. Quali ostacoli?
R. Un tempo le inibizioni e la paura tenevano spesso il paziente lontano dallo specialista. Le persone si sentivano intimidite. Oggi invece sono le patologie narcisistiche a far evitare l’analisi. Ci si ritira su se stessi, si hanno difficoltà relazionali, e si rigetta l’idea di dipendere da qualcun altro. La relazione continuativa, intensa. con qualcuno, spaventa: viene vista come una dipendenza.
D. E non lo è?
R. In una certa misura sì, ed è normale. Ma temporanea, e controllata.
D. Insomma, il nostro «sé grandioso» di narcisisti ci rende allergici a un rapporto vero anche con l’analista?
R. In un’epoca in cui i legami non sono più sentiti come fondamentali, vincolanti e in cui il matrimionio è in crisi, ci si mette in gioco di meno.
D. Dunque ci si rivolge a terapie più veloci o ai farmaci…
R. È proprio quello il punto. Oggi una delle difficoltà per l’analista non è tanto decifrare il significato di un sogno, ma riuscire a costruire una situazione di lavoro duraturo con il paziente. C’è la tendenza a fare tutto in fretta. Ma la psicologia non è un fast food.
D. In più oggi molti ne mettono in dubbio il fondamento stesso: l’opera di Freud…
R. È sempre stato fatto: una volta si diceva che Freud sessualizzasse tutto. Ora di questo presunto problema non si parla più: ormai sono ben altre le fonti della sessualizzazione del mondo, dalla televisione al cinema.
D. E oggi invece qual è la critica che vi viene rivolta?
R. Molti sognano un farmaco che risolva i problemi psicologici velocemente. Poi molti contestano il fato che la teoria di Freud non è evidence based, cioè sperimentalmente dimostrabile, in laboratorio…
D. Cosa risponde a queste critiche?
R. In realtà tutta la clinica, in particolare la clinica medica, non è evidence based. Le scienze cosiddette «dure» sono davvero poche: la chimica, la fisica e poco altro. Tutte le altre sono contestabili con grande facilità. D’altra parte la maggior parte delle ricerche dei neuroscenziati non squalificano la psicoanalisi.
D. Anche in Italia?
R. Lo stesso Vittorio Gallese, che studia i neuroni-specchio insieme con Giacomo Rizzolati, conosce bene la psicoanalisi. Il fatto è che spesso le critiche alla psicoanalisi sono solo competizioni interne tra scuole diverse di psicologia.
D. Per esempio?
R. I comportamentisti sono più accreditati di noi presso le strutture mediche, anche perché promettono cure più brevi, dunque meno costose.
D. A proposito di costi, si dice che la nuova edizione del Dsm, il manuale-bibbia per i disturbi mentali, abbia ampliato il numero di patologie per favorire la case farmaceutiche.
R. Sono abbastanza d’accordo. Il Dsm è diventato molto generico, una margherita con fin troppi petali. Si sospetta che favorisca trattamenti farmacologici spicci e di massa.
D. Il Dsm viene usato anche dai giudici per stabilire, per esempio, se un bambino debba essere curato con psicofarmaci. Le sembra normale?
R. Sono procedure che assumono un alone di scientificità che autorizza in molti casi il medico di base o il pediatra a usare psicofarmaci in situazioni in cui si potrebbe, e si dovrebbe, lavorare anche su altri livelli, o solo su altri livelli. È un passepartout che permette di mettersi la coscienza a posto dietro parametri apparentemente molto scientifici.
D. In quali casi i farmaci vengono usati a sproposito?
R. Per esempio per eliminare un dolore quando sperimentare la sofferenza sarebbe la risposta sana del soggetto. Non a caso il congresso dell’Ipa, che si tiene a Praga fino al 3 agosto, si intitola Facing the pain, affrontare il dolore.
D. In quali situazioni per esempio è giusto soffrire?
R. Nei lutti, o nelle separazioni. A volte sperimentare un certo dolore fa parte del processo di lutto fisiologico, sano. Invece spesso in quelle situazioni molte persone vengono imbottite di antidepressivi. Questo impedisce l’elaborazione del lutto.
D. Se non si passa atraverso il dolore non si cresce?
R. Non è una questione di masochismo. Ma in certi casi sperimentare il dolore fa parte del processo di guarigione: se non si soffre non si guarisce. Certo, ci sono situazioni in cui il dolore non è sano, perché c’è una componente maniacale, di eccitamento per evitare la tristezza, come succede appunto nel sado-masochismo. Ma in molti casi la capacità di sentire il dolore implica che la persona è a contatto con se stessa, quindi può provare il piacere, la gioia, la speranza. La soluzione non è l’anestesia.
http://www.lettera43.it/benessere/stefano-bolognini-difende-l-importanza-della-psicoanalisi_43675104130.htm
Saverio Costanzo: “Lo ammetto, Limonov mi ha cambiato”. Il regista del fenomeno televisivo In treatment ha un progetto ancora più forte: portare sullo schermo la vita dell’attivista russo celebrato dal libro-caso di Carrère
di Stefania Berbenni, panorama.it, 5 agosto 2013
È stretto fra due uomini Saverio Costanzo. Tre se si considera il padre (Maurizio), troppo noto per non essere ingombrante per il figlio artista, regista di talento. Il primo uomo è un cinquantenne in piena crisi di mezza età, alle prese con le fila della vita che d’improvviso si ingarbugliano: Giovanni Mari fatica a rapportarsi con la figlia, si è allontanato dalla moglie, non è sicuro di rispondere alle aspettative dei suoi pazienti, sente pulsioni destabilizzanti e le riconosce subito perché di lavoro fa lo psicoanalista. È il protagonista di In treatment, serie raffinata ideata in Israele, diventata caso in America (con Gabriel Byrne nel ruolo principale) ed esplosa in Italia generando un terremoto nel genere, con gruppi d’ascolto, interventi, Twitter, febbre collettiva (la manda in onda Sky Cinema). L’altro uomo è un gigante del bene e del male, Eduard Limonov, il mondo lo conosce per prodezze e nefandezze arrivate in prima pagina, e se ne è innamorato perché uno scrittore giornalista di fascinazione certa, Emmanuel Carrère, ne ha raccontato la vita da romanzo facendone un bestseller internazionale, Limonov. Di In treatment Saverio Costanzo è stato regista, di Limonov lo sarà, avendo i diritti del libro, pubblicato in Italia dalla Adelphi.
Perché In treatment ha rotto il muro del suono di critica e pubblico?
Ha un prologo, un primo, secondo, terzo atto e un epilogo. Ha cioè una scrittura drammaturgica classica. E ci sono snodi narrativi, e un racconto dei personaggi sublime. Difficile perdere l’attenzione o non identificarsi con uno dei pazienti.
Il successo non dipende dalla fame disperata di perché e di profondità?
Raramente si ragiona sui sentimenti, le contraddizioni, le pulsioni. In treatment si fa ascoltare molto bene. È una tv viva.
La psicoanalisi lo è, o è morta, come alcuni sostengono?
Se uno se la può permettere, è un modo per imparare cose di te sommerse. Il famoso inconscio è una grandezza incredibile.
«In treatment» è stato ospite pochi giorni fa a Tavolara a «Una notte in Italia», rassegna di cinema. Una promozione?
Ha un impianto teatrale e il cinema interviene col suo linguaggio di campi e controcampi. Però è anche pura televisione, perché sembra che la seduta accada nel momento in cui stai guardando, e nello stesso tempo è pura finzione. C’è il sublime della tv che è racconto della realtà e il sublime del cinema che è finzione assoluta.
L’ha definito «prodotto estremo». Perché?
Si parla solo.
State lavorando alla seconda serie? Sarà anche questa sulla falsariga di quella americana?
Non so ancora bene i tempi, quello che è certo è che c’è stata una «italianizzazione» nella prima e ci sarà in futuro. Israele, America, Italia non sono paesi molto diversi, sono società occidentali. E la psicoanalisi è radicata nell’Occidente.
Quando scrive?
Non ho metodo, posso scrivere una sceneggiatura in una settimana come in due anni. Devo sentire la necessità. Le mie giornate si muovono intorno ai miei figli, 4 e 6 anni. Senza sforzo. Io sono molto papà.
Il suo invece disse: «Hanno sbagliato sala», quando sua sorella gli telefonò per dirgli che il pubblico era in piedi ad applaudire «Private», il primo film… La nota ironia di Maurizio Costanzo o altro?
Noi abbiamo una forma di rapporto strana, mi sono sentito molto poco «figlio di Costanzo». Una volta ero in banca e dietro di me qualcuno diceva: «Costanzo ha otto figli da otto mogli diverse». Mi sono voltato e stavo per dire: «Ma davvero? Gli altri sette dove sono?».
Come è arrivato a Limonov?
Attraverso Carrère. Un incontro forte, che mi ha colpito.
In che senso?
La sua è stata una vita avventurosa per liberarsi di sé. È veramente un eroe romantico negativo, positivo, tutto e niente. Per arrivare al niente riempie la vita. Io ho imparato moltissimo da lui.
Che cosa?
Bisogna liberarsi da ego e narcisismo.
A che punto è della scrittura?
Ci metterò tantissimo. Serve la forza del cinema per raccontare una vita che straborda da tutte le parti.
Carrère le ha dato suggerimenti?
Mi ha detto che è una storia molto semplice.
Beh, non proprio…
Limonov è un uomo che subisce l’ingiustizia di avere genitori anaffettivi. Tutta la sua vita è uno sforzo per mettere la divisa del padre, per onorarne l’impegno politico. E per togliersi di dosso il senso di colpa nei confronti della madre.
Scusi, ma perché?
Per colpa di un suo capriccio furono cacciati fuori da una cantina-rifugio durante un bombardamento in Ucraina. Non se l’è perdonato. Ha sempre avuto una tensione verso il basso e infatti il periodo più felice della sua vita è stato quello della prigionia.
In che senso?
Era finalmente nel luogo più basso con la divisa da carcerato. Tutto torna.
Lo sa che questa è una lettura fortemente psicoanalitica?
Ma è tutto psicoanalisi, anche la Bibbia lo è. Tutto viene dai genitori. La vita è un tentativo di curare le ferite di essere nati.
http://cultura.panorama.it/serie-tv/in-treatment-saverio-costanzo-limonov
NUOVA ALLEANZA FRA PADRI E FIGLI. Il padre-eroe non esiste più. Oggi ha senso solo un padre-testimone. Nel quale il figlio riconoscerà che la felicità non può prescindere dal limite. Intervista allo psicanalista autore di Il complesso di Telemaco
di Paolo Perazzolo, famigliacristiana.it, 5 agosto 2013
L’ALFABETO DELL’ETICA - 9. Padri La riflessione di Massimo Recalcati sul significato dell’essere-padri continua la serie “L’alfabeto dell’etica”, un’indagine sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione con Laura Boella sull’immaginazione come facoltà morale ed è continuata con l’intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del Dalai Lama sull’”egoismo saggio” e l’intervista a Marc Augé, che identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell’uomo. Edgar Morin ha indagato il significato di sviluppo; Roberto Mordacci quello di rispetto; Gabriella Turnaturi quello di vergogna. Gianfranco Marrone aveva infine svolto uno studio non scontato sulla stupidità.
(Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco)
Dunque, il padre è morto. Lo hanno proclamato in diverse forme la filosofia, la letteratura, la psicanalisi; soprattutto, lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle nella vita individuale e sociale, quando ci siamo trovati orfani di una stella polare, di un punto di riferimento, di una Legge condivisa e condivisibile, capace di orientare il nostro agire. È un fatto a tal punto conclamato, l’evaporazione del padre, che ci siamo finalmente messi in cammino per capire che cosa fare in sua assenza, come riempire il vuoto. Siamo entrati nell’epoca post morte del padre. Anche perché abbiamo sperimentato nelle nostre esistenze e, in scala maggiore, nei grandi fenomeni mondiali che determinano il destino delle nazioni che la ribellione, la trasgressione edipica contro il Padre e la Legge non hanno prodotto nulla di durevole, lasciandoci più soli e smarriti che mai. Come pure non ha risolto i nostri problemi la chiusura narcisistica in noi stessi, in una sorta di autismo che, negli ultimi anni, ha preso la forma dell’immersione nei social network (Facebook e affini).
Da tempo lo psicanalista Massimo Recalcati studia e, attraverso l’incontro con i pazienti, ascolta le voci del disagio, di quel male di vivere che si è impossessato di noi orfani, ormai disillusi rispetto all’efficacia della trasgressione e già stanchi di specchiarci in noi stessi. In Cosa resta del padre?, del 2011, veniva analizzato a fondo il fenomeno dell’evaporazione del padre, con tutte le sue implicazioni e i suoi risvolti. Ora si fa interprete di questo desiderio di andare oltre, di cercare una vita possibile e sensata nell’epoca del tramonto della Legge con un testo stimolante: Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre (Feltrinelli).
L’idea di fondo è che Telemaco, il figlio di Ulisse che resta in attesa del padre per ristabilire la legge sull’isola di Itaca, usurpata dai proci – come racconta l’Odissea – possa suggerire un nuovo modo di essere figli, e quindi di essere uomini nell’epoca della morte del padre. Se Edipo definiva la sua essenza nella volontà di uccidere il Padre, Telemaco è in attesa del suo ritorno: esprime cioè una radicale invocazione del Padre, scaturita dalla presa di coscienza che senza Legge non c’è Senso, non c’è felicità.Certo, il padre atteso e invocato da Telemaco non potrà più essere il padre padrone, il padre-eroe, il padre-dio: l’epoca del padre come Legge assoluta è finita, per sempre e per fortuna, considerate le ricadute negative che ha generato. È un padre nuovo quello di cui siamo alla ricerca: un padre Testimone, non più in grado – come la storia si è incaricata di dimostrare – di incarnare il Senso, la Legge, la Verità, bensì di testimoniare con la propria vita e le proprie scelte un Senso possibile, una Legge possibile, una Verità possibile. E di far intuire al figlio che desiderio (cioè felicità) e legge non sono incompatibili: al contrario, sono l’uno essenziale all’altro, mentre la pretesa di un godimento illimitato, senza freni, senza legge né castrazione, si rivela effimero e ci lascia vuoti. All’inedita figura paterna dovrà corrispondere un’inedita figura di figlio: non più l’Edipo che non riconosce limiti ed elimina chiunque li rammenti, né il Narciso che crede di bastare a se stesso. È Telemaco a insegnarci chi è, oggi, il figlio autentico, l’erede giusto, perché sa riconoscere il debito insuperabile che lo lega ai genitori, trovandovi il germe del limite che, se rispettato, dà senso alla vita.
È significativo che il saggio di Recalcati si apra con una dedica ai figli («Ai miei figli, Tommaso e Camilla, ai loro regni») e si chiuda con un toccante ricordo dei suoi genitori: solo l’alleanza fra i primi (figli che riconoscono il debito originario, quindi si aprono all’Altro) e i secondi (padri che, smesse le vesti degli eroi, si fanno testimoni di un senso possibile) traghetterà le nostre vite e il nostro futuro verso un’epoca nuova.Un ultimo punto merita di essere sottolineato, prima di dare spazio alle parole di Recalcati: il padre-testimone di cui siamo alla ricerca, di cui abbiamo bisogno potranno naturalmente essere i genitori che ci hanno messo al mondo, ma anche un professore, uno zio, un amico, un’esperienza di conoscenza che abbiamo incontrato. Il padre-testimone può essere anche un padre adottivo, non essendo il sangue, bensì la capacità di mostrare il legame fra legge e desiderio, la sua qualità essenziale. Recalcati, le chiedo anzitutto di fare un passo indietro, a beneficio di chi ci legge. Lei è fra coloro che meglio hanno saputo raccontare l’”evaporazione del padre”. Che cosa significa questa espressione e quali implicazioni ha per la vita dell’individuo e della società? Nell’Introduzione al Complesso di Telemaco, lei puntualizza che sarebbe sbagliato pensare all’eclissi del padre come a un fatto provvisorio, effimero, trattandosi al contrario di un fatto strutturale, insuperabile…
“Sì, l’onda della morte del padre è un’onda che viene da lontano. Essa prende corpo nell’annuncio nicciano relativo alla morte di Dio e conosce nella storia più recente i suoi tornanti fondamentali nelle contestazioni giovanili del 1968 e del 1977. Quest’onda demolisce la figura del padre-padrone, del padre-Dio, del padre che pretende di avere l’ultima parola sul senso della vita, del padre autoritario, del padre del bastone. In questo senso il tempo del pater familias è un tempo strutturalmente esaurito, ma il fatto che quella rappresentazione disciplinare del padre sia definitivamente tramontata non significa affatto fare a meno del padre. In fondo anche nel Nuovo Testamento la parola di Gesù corregge e completa una certa versione inflessibile della paternità che si incarnava nel Dio del Vecchio Testamento, introducendo la figura del padre attraverso il dono, attraverso l’amore più che il bastone”.Resta dunque viva e pressante la domanda di padre, l’invocazione della Legge, quasi una nostalgia di essi. L’uomo non può vivere senza Legge? Anche in altri suoi testi lei ha chiarito che l’esperienza del limite (castrazione) è fondamentale prima per la formazione dell’identità di una persona e poi per la sua felicità. Sempre a beneficio di chi legge, può ritornare su questo punto e mostrare come la Legge sia fondamentale per la nascita del desiderio?
“La vita umana per umanizzarsi deve poter incontrare lo spigolo duro del limite. Il padre è il simbolo della Legge perché rappresenta proprio l’incontro beneficamente traumatico con questo spigolo. D’altra parte l’esperienza del limite non ha come finalità quella di mortificare la vita. Un padre non è un domatore di leoni, piuttosto l’esperienza del limite rende possibile l’esperienza del gioco del desiderio. Senza limite non c’è possibilità di giocare, lo sanno bene i bambini. Il desiderio sorge dall’incontro con una soglia”.Tuttavia – lei chiarisce – non del padre portatore di dogmi, modelli, Verità assolute, insomma, non del padre-dio o del padre-eroe, dell’Ideale, che è da una lato evaporato e dall’altro non “interessa” più ai giovani. Di quale tipo di padre, allora?
“Se il nostro tempo è il tempo della morte del padre-padrone, bisogna ripensare, come scrivo, il padre non più a partire dall’autorità simbolica conferitagli dalla tradizione, ma dai suoi atti, dall’atto della testimonianza. Si tratta di un padre che sa generare rispetto non al suo Nome, ma al suo atto”.
E veniamo così all’idea di testimonianza, uno dei concetti chiave, mi sembra, del suo nuovo saggio. Il padre, oggi, proprio perché non è più un dio o un eroe, non è più la Legge, può e deve trasmettere non il senso della vita, ma che c’è un senso possibile della vita. Tale trasmissione può avvenire solo nella forma della testimonianza?
“La testimonianza di un padre non pretende mai di essere esemplare, ideale, compiuta. Sono i figli che devono riconoscere negli atti dei loro genitori il valore di una testimonianza; questo avviene nel tempo, retroattivamente. Io posso pensare alla vita silenziosa, operaia, ai ritmi sempre uguali di questa vita, della vita di mio padre e di mia madre, adesso che ho cinquant’anni, come la vita di due testimoni che mi hanno insegnato come unire il desiderio alla Legge, come cioè poter dare senso alla vita sebbene la vita non sia in nostro possesso, non sia governabile, sebbene io non sia il fondamento della mia vita”.
http://www.famigliacristiana.it/articolo/recalcati.aspx
The Rolling Stone Interview: Christian Raimo incontra Walter Siti. Una lunghissima intervista di uno dei rubrichisti di punta di RS al magnifico scrittore recente Premio Strega. Mettetevi comodi.
di Christian Raimo, rollingstonemagazine.it, 6 agosto 2013
Allora, scusami c’è del rumore, perché sta arrivando il monsone qui a Roma.
“Sento un bambino”.
No, è una povera gatta che ha paura dei tuoni. Io partirei più che da una domanda, da una meta-domanda. Questa sarà l’ennesima intervista che subisci prima dello Strega, dopo lo Strega… Ti chiedevo se non hai paura di diventare banale. Probabilmente in quest’ultimo mese hai rilasciato una quantità di interviste che ti basteranno per dieci anni. Io stesso ne ho lette molte. E sicuramente quello che non ti manca è un deficit di consapevolezza sul perché scrivi, su come scrivi, quali sono i tuoi temi, etc… Una delle cose che ho notato, anche, è che – come molto spesso capita – quando bisogna fare un’intervista a una persona la cui opera non si può riassumere in un gesto, in una sintesi da titolo, vengono fuori domande un po’ vaghe.
“Il problema è che il grosso delle interviste sono per la radio o la televisione, dove uno è assolutamente sicuro di dire delle banalità perché ti chiedono di rispondere in 50 secondi a cose che richiederebbero molto più di tempo, dove dialoghi con persone che non sanno minimamente che cos’è la letteratura, a cui importa – semmai, se va bene – giusto dei temi di cui parli nel tuo libro. E da una parte ti dispiace di scontentare degli sconosciuti, quindi finisci per dare delle risposte banalissime e anche troppo perbene. Io queste interviste cercherei cercherei proprio di evitarle, ma la casa editrice alle volte mi dice: ‘È meglio che tu vada’, e io non sono abbastanza bravo a dire di no”.
Però tu sei anche molto bravo a semplificare senza banalizzare: lo dico perché ti ho sentito parlare in televisione…
“Beh, sono della scuola di pensiero di Hitler, che sosteneva che bisogna dire poche cose e ripeterle spesso. È una ricetta del Mein kampf che può tornare utile…”.
Ah, ok, va bene, allora la questione dei modelli e dei tuoi riferimenti politici la esaurirei qui… Scherzi a parte, partiamo invece da una domanda verticale seria. La tua teodicea. Perché c’è il male? Alla fine di Resistere non serve a niente tu confessi la tua fascinazione per il male. Ti sarai fatto molte volte questa domanda: a che tipo di giustificazione filosofica, letteraria ti rivolgi? Mi sembra che ci sia, soprattutto negli ultimi tuoi libri, una forma di gnosticismo: i personaggi devono passare per la conoscenza del bene e del male, devono mangiare l’albero della vita per trasformarsi. È così?
“Io proverei a metterla giù in quest’altro modo. Fin dal primo romanzo, Scuola di nudo, parlavo esplicitamente di gnosticismo. Però, anche all’interno dello gnosticismo, non è che davvero penso quello che pensavano gli gnostici: è una specie di metafora. La verità è che non riesco a staccarmi da un materialismo molto tenace. Continuo a essere convinto che il mondo non abbia senso e che l’uomo sia un animale venuto male, con un’anomalia nel cervello, per cui si fa delle domande che gli altri animali non si fanno. Però, dentro a questa anomalia pare che la mente umana non riesca a fare a meno dell’assoluto, dell’infinito. È successo sempre, in tutti i secoli. Solo che questo assoluto non sappiamo bene che cos’è, si riesce a immaginarlo solo in negativo, non è mai convincente. Quindi, se tu rovesci il ragionamento, ecco che vien fuori lo gnosticismo. Ossia, siccome l’assoluto non sai mai com’è fatto, ti sembra che visto dall’assoluto – come dire – sia questo mondo a non andar bene, a essere una specie di brutta copia di una cosa che, forse, sta lassù. Ma siccome quest’assoluto non sai com’è, non ti riesce di arredarlo in alcun modo. O almeno io non ci riesco, perché i vari paradisi di tutte le religioni sono tutti piuttosto kitsch. Quindi, rovesciando il punto di vista, nasce l’idea del demiurgo, ossia di uno che ha provato a fare la copia di un mondo venuto bene, e gli è venuto male: che è l’idea fondamentale dello gnosticismo. Direi che è una specie di gnosticismo rovesciato, per cui il male a me interessa e mi piace perché è la rivelazione del trucco: il male che c’è in questo mondo ti fa vedere come il demiurgo abbia scassato un sacco di cose, è come l’impronta digitale del cattivo demiurgo. Se fosse stato bravo non avrebbe lasciato traccia delle proprie malefatte, invece le ha lasciate, eccome, e sono per l’appunto il male nel mondo.
Il male quindi è alla base della conoscenza di cosa siamo. Non riesco a immaginare una conoscenza che non parta dalla conoscenza del male.
Semmai la cosa che manca in tutto il filone dello gnosticismo – e io lo seguo proprio alla ricerca di qualcosa di assoluto, di perfetto – quello che manca completamente è la pietà. La miseria, che è anche l’unica cosa che noi possediamo e che ci rende fratelli. Lì valgono tutte le obiezioni che faceva Tertulliano allo gnosticismo. Diceva: ‘Loro ragionano bene, però – quando ci perseguitano – loro se ne vanno in giro come al solito, e noi veniamo appiccati alle croci’. Quello che manca è che è un discorso intellettuale che si dimentica della miseria creaturale”.
Mi vengono da fare almeno altre due domande che forse sono intrecciate. Una è se questo materialismo, da cui tu dici di fare fatica a distaccarti, è qualcosa che hai maturato a un certo punto. Se cioé c’è stata una conversione a questo materialismo, una dialettica…
“No, in realtà ho come l’impressione che ci sia più un’impotenza. Non riesco proprio a immaginare che i bisogni della mente abbiano un corrispettivo metafisico. Ci ho provato, eh. Io provengo da una famiglia totalmente areligiosa: poi,intorno ai 18 anni, ho avuto due, tre anni di crisi, per cui mi ero avvicinato a tutti i teologi possibili e immaginabili.
Ho letto moltissimo, ho pure provato ad avvicinarmi alla Chiesa. Anche se poi nascevano problemi di bassa cucina: cioè, andavo a confessarmi e dicevo: ‘Ho pensato al ragazzo tal de’ tali, al calciatore tal de’ tali’, e il prete mi diceva: ‘Ti dò l’assoluzione se prometti di non pensarci più’, e io rispondevo: ‘Guardi, non glielo posso promettere, perché lo so che domani mi risuccede’, e quindi lui concludeva: ‘Non ti posso assolvere’, e tutte le volte me ne andavo senza fare la comunione perché non mi aveva assolto.
E alla fine mi sembrava una pantomima, e ho deciso di smettere”.
È “bassa cucina”, dici, ma è una questione nodale.
“Beh, sì: nell’esperienza di tutti i giorni conta, perché quando tutti andavano a fare la comunione io – che non mi ci potevo avvicinare – mi sentivo un escluso. Ma a parte questo, mi rendo conto che non sono mai riuscito a fare il salto. Quando dicono che la fede è un dono, è una cosa che capisco bene, e purtroppo sento di non averlo ricevuto. La fede riesco a immaginarla solo come allegoria, come modo di dire. Come quando nel ’68 il mio amico Fortini diceva: ‘Ci siamo, sta partendo la Rivoluzione. Sta partendo dalla Francia, dalla Germania!’. Io lo lasciavo parlare, però pensavo: ‘È solo un modo di dire. Non è che per davvero i borghesi abbiano i mesi contati. Lo stesso mi succede quando mi parlano di Dio, della Madonna, dei santi: mi sembrano modi di dire. Non ci arrivo, diciamo così: è come se fossi ancorato al materialismo e non riuscissi a muovermi da lì”.
Questo materialismo però, in Troppi paradisi o Scuola di nudo, era declinato secondo una prospettiva di trasformazione. C’era un umanesimo molto forte, che poi – nella seconda parte del Contagio, in Autopsia dell’ossessione e in Resistere non serve a niente – si è dileguato fino a quasi a scomparire. Per me il libro più duro da leggere è stato Il contagio: forse perché lì sentivo una forma di delusione. Nell’ultimo non hai creato nemmeno un’illusione. Da subito raccontavi una terra guasta, e dicevi: “Dò per assodato che questa forma di speranza di trasformazione sia nullificata, non fingo neanche per raccontarla”. A cosa è dovuto secondo te, questo?
“Un po’ a una dimensione di vitalità legata, probabilmente, all’età. Ossia al fatto che ciò che mi teneva in qualche modo alto come adrenalina era l’ossessione sessuale. Ossessione dalla quale – anche per ragioni di legittima difesa, di un cimento che è venuto meno – adesso mi sto allontanando. Il libro a cui sto lavorando adesso è proprio l’addio a tutto ciò. Per cui, venendo meno quest’ossessione, è venuto meno anche un tasso di vitalità notevole. C’era Daniele Giglioli che un giorno, chiacchierando, scherzando mi disse: ‘Quando la scriverai la tua Ginestra?’. Beh, se c’è una strada – anche perché mi è chiaro che quei mondi lì, chiusi, senza speranza, di desiderio che assomiglia a una pulsione di morte, non li si può frequentare a lungo – l’unica strada per me per uscirne è proprio quella. Quella di Giacomo Leopardi. Sì, oggi non si riuscirebbe più a parlare della Natura come faceva lui… ma in fondo questa specie di inconsapevolezza della tecnologia – che sembra andare avanti per conto suo, senza che ci sia nessuno che la diriga, come fosse essa stessa diventata una sorta di Natura – e allo stesso modo l’economia, che pare essersi trasformata in una specie di gioco d’azzardo internazionale, è come se si fossero rese forme indipendenti rispetto a chi le aveva create, diventando una specie di nuova Natura: indifferente, crudele come quella di cui Leopardi parlava nella Ginestra. Di fronte a ciò, l’unico atteggiamento possibile è quello appunto suggerito da Leopardi: tenere gli occhi lucidi, stare svegli, non sognare niente. Essere consapevoli di quanto siamo umiliati da tutto ciò e incapaci di costruire un’ipotesi di felicità interumana, ma proprio partendo da questo provare a ritrovare un principio di solidarietà”.
Questa fascinazione del non-umano, dell’inorganico, del non senziente… in realtà tu ce l’hai molto. Ce l’hai ad esempio quando parli del fascino per lo zapping, per la televisione. Sembra quasi che tu stia cercando una forma di anestesia, forse un paradiso artificiale. Una forma di trascendenza nel non umano…
“Sì, penso che ci sia in atto un processo di cui ci si renderà conto nel tempo, una sostituzione delle relazioni con qualcosa che non ha più a che fare con le relazioni, ma con le “cose”. Lo vedi, ad esempio, nei corpi che diventano sempre più uguali tra loro – cose, appunto – unificati dalla chirurgia estetica, nel nome di una molto intrigante forma di spettacolarizzazione di massa guidata dalla riproduzione sempre delle stesse immagini stereotipate. Questo processo secondo me è già in atto, e quello che sto cercando di capire è se il constatarlo attivi in me una risposta per così dire di amara soddisfazione, come a dire: ‘Beh, allora ci siete arrivati anche voi, finalmente’. Io ho sempre avuto molte difficoltà con le relazioni, e adesso il mondo mi dà ragione. L’altra possibilità è che sia arrivato anche io a una saturazione. Considera che gran parte degli anni della mia vita li ho passati correndo come un cane intorno a una catena, sempre in tondo (tra l’altro, questa è proprio una definizione che qualcuno ha dato del cinismo), per cui sono io per primo stufo, e comincerei a volerne uscire. Non so però se la scrittura mi seguirebbe in questo. Ossia: non so se sarei in grado di trovare delle fascinazioni “alternative” nella relazione, che siano l’equivalente per me del fascino dell’inorganico”.
L’hai pronunciata tu la parola cinismo… Probabilmente l’abbiamo sfiorata senza pronunciarla, forse perché nella sua versione di vulgata è una semplificazione. Però pensavo questo: tu sei stato un esordiente tardivo. Scuola di nudo, se non sbaglio, l’hai pubblicato che avevi 47 anni.
“Ho cominciato a scriverlo che ne avevo 35, c’ho messo 12 anni, per cui sì: l’ho pubblicato sì che ne avevo 47”.
Per inciso: un libro incredibile, esemplare, modello…
“Era un libro che non sapevo se sarei riuscito a scrivere. Perché non ero uno scrittore, non sapevo da che parte si cominciava, sostanzialmente non avevo modelli. Per questo c’ho messo tutti quegli anni: per questo e perché, ovviamente, non ci potevo lavorare a tempo pieno perché avevo il mio lavoro di professore, se no non mangiavo… È stato un libro che mi ha proprio messo alla prova, tant’è vero che se Einaudi mi avesse detto di no non avrei mai più scritto una riga: l’avrei preso come un segno che non era una cosa che era destino che facessi. È stato veramente una specie di salto nel vuoto”.
Però questa fiducia che tu ribadisci nei confronti della letteratura forse in parte ti ha salvato. Poco fa parlavi di Fortini, e raccontavi che gli opponevi un disincanto nei confronti dell’ideologia che forse sarebbe stato difficile opporgli 30, 40 anni fa, molto di più quanto lo sia adesso, come fai ad esempio in Resistere non serve a niente. Immagino del resto che tu sia vissuto in un mondo molto ideologizzato, che credeva nell’efficacia della critica alla società, nella rivoluzione. Ciò che non riesco a capire è se c’è stato un momento in cui sei “diventato” disincantato, che magari ha coinciso in parte con il desiderio di scrivere un romanzo così privato come Scuola di nudo anziché fare il critico militante, o il rivoluzionario, o il comunista…
“Io sono entrato alla Scuola Normale di Pisa alla fine del ’66, quando cominciavano le occupazioni e il clima era totalmente orientato a sinistra. Marx e Freud erano i due numi tutelari quotidiani: i nostri professori erano marxisti, o freudiani, o tutt’e due. Era anche il periodo della nuova critica che arrivava dalla Francia. Però erano solo Marx e Freud che sembravano in grado di fornirci quegli elementi per arrivare a una lettura totale del mondo. Questo è l’ambiente in cui sono venuto su, anche se c’era una cosa che sin dall’inizio non riuscivo a condividere di Marx e Freud, e non era tanto la loro capacità interpretativa – che ancora oggi mi sembra buona – ma l’esito finale, che per Marx doveva essere necessariamente di speranza”.
Anche per Freud il cammino è un cammino terapeutico…
“Sì, anche per Freud, certo. C’è la guarigione, anche se è una guarigione sub judice: lui parla di una cura infinita. Freud in un certo senso è meno millenaristico. Però questa storia del sol dell’avvenire e della rivoluzione, come dire, non mi andava giù. Perché mi sembrava non ci fossero le condizioni. Anche oggi, vediamo molte situazioni che sembrerebbero promettere un radicale cambiamento di sistema, ma anche in questi casi i poveri hanno comunque qualcosa da perdere – da un effettivo, radicale cambiamento – che la rivoluzione mi sembra non abbia voglia di farla nessuno. Del resto, questo tipo di atteggiamento l’ho vissuto con molte riserve già negli anni ’70, solo che nei saggi non potevo espormi troppo, perché i miei capi non la pensavano così, quindi dovevo sempre mettermi un po’ in maschera. L’ho anche scritto, all’inizio di Scuola di nudo. Ed è la ragione per cui poi, alla fine, occuparmi di una cosa così assurda e per loro così inspiegabile come il nudo maschile mi è sembrata una liberazione. Adesso lasciate andare il mio pensiero dove dico io e non dove dite voi”.
Va bene, hai liquidato questi 150 anni marxiani così. Invece per liquidare Freud c’hai messo un po’ di più, o di meno?
“No, c’ho messo di più, e non so nemmeno se l’ho davvero liquidato. Anche perché ho fatto per ben due riprese delle cure analitiche abbastanza approfondite, che fra l’altro m’hanno salvato la vita, quindi è chiaro che poi – se non altro per gratitudine – questo filone ho continuato a coltivarlo, a seguirlo, ho letto molti psicanalisti, anche dopo, e ancora adesso mi sembra tutto sommato una delle forme euristiche più efficienti che ci siano. Non sono del tutto sicuro che alcune categorie non abbiano una forma con una matrice fortemente ottocentesca, perché c’è come dire un’immagine della famiglia molto legata a un’idea papà-mamma-figlioli che ovviamente adesso sta andando a scatafascio, per cui in seguito lessi i vari Antiedipo pensai che non avessero poi tutti i torti. Insomma, è una cosa che è rimasta nei miei interessi”.
Quindi non c’è rischio che a un certo punto diventerai un nostalgico?
“Nostalgico di cosa?”.
Beh, ognuno ha i suoi feticci. Adesso, mentre stavi parlando, pensavo a quest’idea della famiglia. Io sono di una generazione – probabilmente l’ultima – che ha vissuto il cambio di paradigma: è cresciuta nel ’900 con la Chiesa, la Famiglia, il Comunismo, la Politica, l’Ideologia… tutta quella roba là, poi ha visto che erano a rischio esplosione, e sono esplose o implose nel giro di poco. E in fondo, nonostante questa tua capacità di essere mimetico con lo spirito dei tempi, sei una persona del ’900, come anche io mi sento.
“Certo, non c’è dubbio”.
E questo ’900 in te lo si intuisce non in un senso nostalgico pasoliniano, ma dalle categorie che usi: anche nella fede nella letteratura stessa, nella fede nei confronti dell’ermeneutica.
“Beh, una cosa che io considero novecentesca sopra ogni altra è la mia tendenza a pensare che esista una dimensione della profondità. Cioè che la letteratura vale se ha vari spessori, che la conoscenza dev’essere una conoscenza che va giù, in profondità. Questa dimensione si è un po’ persa, oggi, privilegiandone un’altra che è più orizzontale, più rizomatica, più legata a dei link. Rispetto a questo, sì, mi sento uno che appartiene al vecchio mondo. Non riesco ad aggiornarmi. Mentre su tutto quello che riguarda la famiglia eccetera, probabilmente il fatto di essere omosessuale mi dà un piccolo privilegio, permettendomi di sperimentare forme che in passato non avevano modelli. Per esempio: adesso, a 66 anni, in una relazione con una persona che ne ha 25 meno di me, ho capito cos’è nel profondo un desiderio di tipo gerontofilo che pensavo non esistesse: lo leggevo solo sui libri, pensavo fosse una malformazione molto rara. Quindi sperimento dei modi di stare insieme, di ascoltare dei desideri altrui, che non erano previsti dai nostri altari novecenteschi. E poi – essendomi sempre sentito un drop-out, uno che per varie ragioni veniva sempre lasciato fuori da tutte le chiese, da tutti gli uffici pubblici (mia madre per tutta la vita ha pensato che, data la mia diversità, non mi avrebbero dato la cattedra all’università…) – ovviamente mi ero abituato a guardare il mondo da fuori, e quindi ho una grande curiosità connaturata di sapere quel che succederà. Domani, dopodomani, o alle generazioni nuove. Non sono un nativo digitale o un nativo orizzontale, però sono molto curioso. Ovviamente non mi verrebbe mai in mente di dire: ‘Che nostalgia dell’autoritarismo!’. Sono quelle le cose che mi hanno rovinato la vita, figurati se posso rimpiangerle”.
L’altro giorno mi dicevi che stavi leggendo il mio libro-intervista a Massimo Recalcati. Ora, a parte il mio libro, mi interessava la sua prospettiva, il suo tentativo di tenere il bambino degli ideali con l’acqua – però ripulita, come dire – di una nuova libertà. Ti convince?
“Ho letto diversi suoi libri, da L’uomo senza inconscio a quelli sul padre. In realtà mi convince, sì, però qui mi fermo: non riesco a capirlo fino in fondo. Lo capisco con la testa, ma non con il corpo – che è come si dovrebbero capire le cose – quando lui fa la distinzione tra desiderio e godimento, e ti dice appunto che il desiderio potrebbe assumere forme costruttive: desiderio di un ideale, desiderio di una nuova forma di una società… Io sono talmente abituato a dare al desiderio una forma immediatamente erotica che quelle altre cose lì non riesco a qualificarle con la parola desiderio. Mi viene sempre in mente Leopardi quando parla di illusione. Non riesco a entrare in questa forma ricostruttiva che lui invece ha. Non so se sia un cristiano o no, ma mi sembra abbastanza vicino a delle forme religiose che io non riesco a adottare dentro di me”.
Del ’900, di quel mondo di grandi ideali, un’altra cosa che conservi è l’amore verso i poveri. Mi sbaglio?
“Io sono nato povero. Non emarginato. Dignitosamente povero. Quindi, più che l’amore per i poveri, la cosa che ho provato intensamente anche in modo passionale è stato l’odio per i ricchi. Nel senso che li avrei proprio volentieri spazzati via dalla faccia della terra. Ancora adesso mi fanno molta rabbia, perché mi sembra che non abbiano problemi nella vita. Naturalmente ho conosciuto un sacco di ricchi infelici, e quindi a livello cosciente la questione è risolta – però rimane in me un odio di classe molto forte, già quando andavo al liceo. Questi qui che avevano i genitori colti, che avevano la casa piena di libri, che potevano parlare coi genitori di qualunque cosa, mentre io non potevo parlare di niente perché non avrebbero capito di cosa stavo parlando… Da una parte ho sempre avuto l’impressione che i poveri arrivassero prima al punto, indossando meno pretesti – rispetto ai ricchi – per fare vedere qual è il loro stato: come certi paesini poveri che ti danno l’impressione di essere rimasti più belli solo perché ci hanno costruito di meno.
Pensa a un villaggio dell’India, e poi per contro all’hinterland tra Milano e la Brianza: ti guardi in giro e hai la netta impressione che quella bruttezza caotica che vedi sia come una manifestazione della ricchezza, che spinge gli abitanti a fare di tutto. Anche psicologicamente, ho l’impressione che un ricco, prima di dirti chi è, debba fare un percorso enorme, mentre un povero invece te lo dice dopo cinque minuti. Non so se si tratti di un’idealizzazione, però, perché oggi anche i poveri vanno in giro molto mascherati…
Ed è una posizione ambigua, lo so, perché per conoscere è meglio essere ricchi. Se vuoi sapere come va il mondo, da povero hai davvero poche possibilità. Io come amici preferisco i poveri, però se voglio imparare qualcosa devo frequentare i ricchi”.
Quindi anche quel dispositivo cognitivo pasoliniano non funziona più?
“No. No. Quello secondo me non funzionava nemmeno per Pasolini. E lui se n’è accorto, alla fine, quando ha scritto l’abiura della Trilogia della vita”.
Parlavi di odio di classe, rabbia… Mi sembra però che questi sentimenti negativi – e ci metto anche l’invidia – siano sentimenti molto fecondi…
“L’80% dei miei libri è su quello”.
…Fecondi dico anche da un punto di vista della conoscenza. Quando, alla presentazione di Milano, raccontavi che il primo impatto avuto con la Scuola Normale di Pisa era stato conflittuale – tu, povero provinciale contro un mondo di fighetti, figli di papà arricchiti – dicevi che questo ti aveva anche permesso di sviluppare una rabbia che ti sei portato dietro. Una rabbia che tu attribuisci sistematicamente ai tuoi personaggi, dal Walter Siti di Troppi paradisi al Tommaso Aricò di Resistere non serve a niente.
“Certamente è qualcosa che ti dà una grinta enorme. Perché, quando pensi da dove sei partito, anche nei piccoli successi un po’ di soddisfazione ce l’hai. Quando mi confronto con alcuni scrittori ricchi che conosco – che ne so: Alessandro Piperno, o Chiara Gamberale – vedo che, rispetto a loro, io sono felice anche già solo di poter fare un viaggio lussuoso, o di parlare con persone che hanno ruoli importanti nel mondo. O anche fare una vita piccolo borghese. Per me la piccola borghesia è stata un’enorme conquista, visto da dove venivo. Certo: quella rabbia ti dà vitalità, voglia di macinare chilometri, che è una cosa benedetta da Dio. Contemporaneamente però, a 66 anni, quasi 67, quella cosa lì non ha più tutta ’sta spinta propulsiva. Uno capisce di aver voglia di sedersi, di fare pace col mondo. Così come ho fatto pace con mio padre, un giorno, andandolo a trovare al cimitero. A questa rabbia si sta dunque sostituendo un altro sentimento del tipo: ‘Vorrei prendere il mio posto. Ditemi qual è, ditemi dove sto seduto, e io ci vado’. Penso che l’ultimo libro in cui ho sfogato quella rabbia è proprio Resistere non serve a niente. Lì lo potevo fare anche perché lo attribuivo a un alter ego. Sia nell’ultimo che nel penultimo, con la scusa degli alter ego ho potuto sfogare molte irrisolutezze. In questo una specie di voglia di criminalità, nell’altro un esplicito sadomasochismo, che in prima persona non avrei probabilmente mai sperimentato”.
Bella questa cosa. Io vengo da una famiglia in cui i nonni erano poveri. Io sono, diciamo, il primo borghese nativo. Mi veniva in mente mio padre, che nasce da una famiglia povera. Mio padre nel ’68 diceva, scherzando: “Dite che bisogna abbattere la borghesia, e va bene, ma proprio adesso che io sono diventato borghese io?”.
“Ah!”
Però io ti volevo fare qualche domanda sulla scrittura… Ad esempio: quando ho letto Scuola di nudo, qualche anno fa, come ti dicevo l’ho trovato un libro modello. Sono pochi, secondo me, i libri italiani da cui imparare. In Scuola di nudo invece c’erano, per esempio nei dialoghi, dei modelli perfetti da cui “copiare”. Probabilmente te l’hanno già detto che sei uno migliori dialoghisti italiani, che sai usare come pochi il discorso indiretto libero, che fai un uso meraviglioso delle incidentali, delle parentesi…
“Probabilmente è un processo incosciente, non è che uno se ne rende conto. Io solo adesso realizzo che ci sono modi di scrittura che mi vengono più naturali – o immediati, o rapidi – di altri, e oggi anzi devo anche fare resistenza per non scrivere troppo “alla Siti”… All’inizio ovviamente ho dovuto fare l’operazione contraria, quella cioè di conquistarmi uno stile. Uno dei primi obiettivi fu togliermi di dosso lo stile da saggista, da cui l’abbondanza metaforica che molti hanno notato nei miei primi libri: siccome i saggisti non si possono permettere metafore, adesso che ero passato alla narrativa potevo sfogarmi. Poi, avendo studiato per una vita la lirica, la metrica eccetera, avevo nelle orecchie molto più i poeti che i prosatori: Montale, Sereni, Penna… ma anche alcuni stranieri come Baudelaire, Mandelstam, e ho l’impressione che abbiano influito molto di più loro di prosatori italiani come Moravia o Calvino. Un insegnamento grosso è venuto pure da Celine: quelle frasi sospese, i puntini… Anche se non l’ho mai fatto in modo didascalico. E nell’orecchio, insieme a Celine, credo mi sia rimasto anche Proust: tutta quell’abbondanza di aggettivi sempre diversi, quel modo di ragionare per ipotesi successive con frasi tipo “a meno che”, “nonostante che”… Per quanto riguarda i dialoghi, invece, credo sia una cosa davvero solo mia: questo bisogno che ho deltrompe l’oeil, che la gente leggendo si convinca che sia tutto vero… È un’altra versione dell’onnipotenza creativa: gli scrittori in genere pensano di imitare Dio, io invece voglio imitare il demiurgo che imitava Dio. Il demiurgo costruisce una copia del mondo e ti dice che è la realtà; io faccio lo stesso, provo a ingannare il lettore. Anche sfruttando una specie di orecchio: se io sento parlare le persone, a me viene immediatamente da riprodurlo, quel dialogo. Lo stesso con i dialetti. Probabilmente ho utilizzato questa dote nativa per perpetrare un inganno, essere “disonesto” nella scrittura. È esattamente ciò che dico ne Il realismo è l’impossibile.
Adesso per esempio stanno traducendo dei miei libri in francese, e ovviamente li traducono come possono, ossia senza i dialetti, in una specie di lingua letteraria neutra, e quando io dico: ‘Ma questo dialogo non si può cercare di farlo più fedele?’, la traduttrice all’inizio mi diceva: ‘Mais c’est la langue de la literature’. Ma io la langue de la literature non so che cazzo sia! Non mi verrebbe mai in mente di usare la langue de la literature per far parlare due persone… Sennò lo sai da subito che stai leggendo un libro… Sì, lo sai perché il libro l’hai comprato. Ma per me vale l’idea che a un certo punto si possa essere ingannati e dimenticarsi che si sta leggendo un libro.
Beh, questa cosa forse è un talento proprio tuo: un talento mimetico.
“Sì, esatto è quella roba lì. Non riesco a capire se derivi da qualche abilità infantile innata. È possibile. Qualche tempo fa eravamo in India – io, Alfonso Berardinelli e Goffredo Fofi: una bella combriccola, sì – spediti a un qualche festival a Calcutta, e con noi c’era pure Irene Bignardi, che è una signora molto impostata, che parlava un fluidissimo inglese, molto meglio del nostro, e vestiva in un modo molto elegante, ma sempre un po’ estroso… Io a un certo punto mi ero fissato che volevo descriverla, quindi avevo provato a partire dall’abbigliamento, a partire dai capelli, a partire dai gesti… però non mi veniva. Poi una sera eravamo a cena, lei è arrivata un po’ seccata e ha detto: ‘Uffa, mi prendono sempre tutti per una maharani’… E io allora ho detto: ‘Cazzo, ma questa frase qui basta e avanza! Se prendo questa frase la metto tra virgolette, c’è già tutta lei’”.
C’era un’altra piccola questione in sospeso rispetto alla lingua. Tu guardi tantissimo la televisione, le serie tv… Evidentemente hai fame di una lingua che produca questo effetto di realtà…
“Sì”.
…E comunque leggi ancora tantissima letteratura italiana contemporanea, nonostante i critici dicano che non si scrive più niente, che la letteratura è morta.
“I Ferroni, dici? La letteratura postuma, questa roba qui?”.
Sì, gli apocalittici. Tu invece leggi tantissimi esordienti, persone che hanno 30 o anche 20 anni. Che cosa invidi loro? Cosa ci trovi? Cosa non ci trovi? Io per esempio a 38 anni provo un certo timore che arrivi un 20enne che riesca a fare con la scrittura delle cose migliori di me con una qualità che io magari ho impiegato 20 anni ad affinare.
“Sì, ma è così che vanno le cose. Se a un certo punto arriva un Rimbaud, uno ci deve stare. A questo comunque in genere non ci penso. Un 30enne con uno stile che lo fa sembrare già maturo – tipo suo papà o suo nonno, quindi in definitiva già vecchio – quello mi interessa poco. Però, sì, ogni tanto leggo delle cose che fanno sentire me vecchio, che mi sembra vengano da un altro pianeta… Ad esempio, ho da poco finito di leggere questo libro di Aurélien Bélanger, La teorié de l’information, un romanzo dove lui racconta la vita immaginaria di un tycoon del digital francese, pare però modellato in parte su un tizio reale che possiede una compagnia telefonica in Francia. Lì per lì ci sono cascato: non essendo molto addentro all’attualità francese, pensavo si trattasse di un personaggio esistente, tipo Limonov per Carrère, e invece è completamente inventato. Ma soprattutto, è un romanzo di 350 pagine dove non esiste più la psicologia. Dove la psicologia è sostituita da atti, statistiche, progressi di carriera. C’è pure una storia d’amore che è perfino romantica, alla fine – si capisce che lui ha una specie di amor fou per una prostituta – però senza che venga mai usata una singola parola sentimentale. Per cui, leggendolo ho avuto l’impressione che stavo toccando una pelle, una materia, che un po’ mi respingeva, ma al tempo stesso era “nuova”, una roba che io non sarei riuscito a fare. E questo sì che mi interessa”.
Beh, ovviamente anche a me. Capisco quello che dici se penso alla prima volta che ho letto Camus, o visto quello che faceva Bret Easton Ellis, o come trattava i sentimenti Houelleubecq… Oggi rispetto a quella freddezza ognuno ha sviluppato dei propri enzimi per elaborarla. Altre volte in cui ti è capitata? Con la poesia magari?
“Per esempio quella cosa tua che ho letto su Genova, il racconto Tutte queste domande: lì c’è una forma come di spostamento che ho trovato interessante. Come se la cosa principale non venisse mai raccontata, ma ci si soffermasse solo su quello che accade a fianco. E questa è una tecnica che, se mi ci metto, potrei anche fare mia, forse però non sarei riuscito a parlare di Genova prendendo subito una posizione di quel tipo. Proprio per la cosa che ti dicevo prima su Marx e Freud, sul fatto che la prima cosa che mi viene da chiedere a uno che scrive è: ‘Dimmi come è il mondo’. E invece questo modo di guardarlo di taglio, spostato – ecco – questa è una cosa che non mi appartiene, ma che trovo interessante della letteratura giovane”.
Scusami se insisto, ma la poesia? Quanto ancora ti forma, ti nutre?
Sulla poesia sono un po’ carente. L’ho seguita molto fino a una decina di anni fa: leggevo anche quelli della mia età, sono arrivato fino a De Angelis, a Cavalli. Dopo ho perso il filo. Anche perché mi sembrava che la poesia si fosse chiusa in una riserva molto autoreferenziale: se la cantano e se la suonano.
Poi c’era stata tutta quella fase di recupero del citazionismo, per cui rifacevano i sonetti, le sestine, che mi rompeva enormemente i coglioni. E dopo me ne sono disinteressato, per cui se ti dovessi citare adesso dei poeti che hanno meno di 30 anni, mi troverei in difficoltà a farlo”.
Quindi da dove lo prendi il ritmo? Io sono ammirato dal ritmo della tua prosa. Vedo la metrica interna, la riconosco.
“Penso sia una specie di vendetta sul fatto che non capisco la musica. Ho sempre avuto questa specie di rimpianto riguardo alla musica: mentre l’arte figurativa la capisco bene, ed è stato quasi il mio secondo mestiere – non avessi insegnato letteratura italiana contemporanea avrei insegnato storia dell’arte, posso passare mezze giornate in un museo, posso riconoscere un autore del ’700 anche solo da un dettaglio – sono totalmente sordo alla musica. Ci ho provato, alle volte, ma è proprio che mi stanca: la musica impone dei ritmi, e io questa cosa non la sopporto. Ho una specie di bisogno di un mio ritmo interiore, e quello lo esprimo scrivendo. Quella lì è la mia musica. Non quella che mi vogliono far sentire gli altri. Ho dentro una specie di metronomo: un sacco di volta cambio delle frasi, anche alterando un po’ il significato, perché il ritmo non era quello giusto. Lì ci sarebbe bisogno di un trisillabo, ma la parola che avevo pensato ne ha solo due, allora cambio proprio il ritmo della frase, perché sento che la cadenza dev’essere così. Per un romanziere, forse è un po’ una follia”.
Però si sente. Forse in questo modo riesci a costruire proprio un modello.
“Per esempio mi danno un’enorme fastidio le rime se non ci devono essere. Se ci sono delle parole a distanza di poche righe che fanno rima e io non l’ho voluta, cambio tutto. Perché non voglio che la scelgano loro, le parole, la loro musica. Quello mi dà proprio fastidio. Un’altra cosa che fa regolarmente impazzire il mio editor è la mia esigenza che in una pagina – una videata, saranno 22, 23 righe – non ci deve essere nessuna parola ripetuta, se non da me fortemente calcolata per ragioni espressive. E quindi dico: ‘Guarda, questa parola c’è anche 16 righe sopra’. E lui: ‘E chi se ne frega?’. Invece a me me ne frega. Da questo punto di vista sono un po’ maniaco, sì”.
E la punteggiatura? Dài, ti chiedo quest’ultima cosa, che per una rivista di musica e cultura pop come Rolling Stone, forse non è la domanda più frequente in una intervista…
“Beh, per esempio sono abbastanza fiero di aver trovato questa cosa del trattino che a un certo punto mi funziona come cosa di punteggiatura – leggermente sopra il punto e virgola, e leggermente sotto al punto – per cui mi sono combinato una partituta di punteggiatura di cui sono abbastanza geloso.
Mi ricordo che per il secondo libro, Un dolore normale, a Einaudi mi affidarono a una editor – credo venisse dalla scuola Holden, non mi ricordo più come si chiamava – che a un certo punto si era messa a cambiarmi tutta la punteggiatura, e io mi sono incazzato, le ho detto: ‘Scusi, ma se lo scriva lei un romanzo se lo vuole fare con questa punteggiatura qua!’. Evidementemente seguiva delle regole che le avevano insegnato a scuola, ma non erano le mie.
Poi uno dice: chi se ne frega di una virgola. Ma io su queste cose, invece…”.
Beh, io una tecnica ritmica data dalla punteggiatura che ammiro molto l’ho trovata in te e in Saul Bellow. Ossia il riuscire a trovare delle parentesi che siano significanti. Per esempio Saul Bellow spesso alla fine della frase mette un punto e virgola e poi un aggettivo, una parola che sta da sola alla fine della frase, prima del punto, che però riesce a fare una sintesi perfetta e ad avere una dialettica completa con tutta la frase che precede il punto e virgola. Tu col tuo trattino hai trovato una specie di semibiscroma in più.
“Sì, è come se ci fosse una possibilità di rilancio, che poi è anche un rilancio del pensiero in genere. Come quando c’è una correzione, o un’autocorrezione del pensiero: hai questa risorsa stilistica che ti permette di farlo, senza ricominciare da capo con un punto e una maiuscola”.
Okay, io ho finito le cose semi-intelligenti da dire.
“Sì, abbiamo parlato per un’ora e mezza. Va bene così direi”.
Christian Raimo è traduttore (Bukowski e Foster Wallace fra gli altri) e autore (l’ultimo romanzo è “Il peso della grazia”, uscito lo scorso anno per Einaudi). Su “RS” scrive da ormai quasi tre anni – in condominio con Marco Mancassola – la rubrica “Italia, Amore”.
http://www.rollingstonemagazine.it/cultura/interviste-cultura/rolling-stone-interview-christian-raimo-incontra-walter-siti/
Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com