GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Dicembre 2013 II - Donne, racconti e film

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18 dicembre, 2013 - 17:57
di Luca Ribolini

MAILER: IO & FREUD. MA QUANTO È TRISTE QUESTA PSICOANALISI

di Norman Mailer, la Repubblica, 8 dicembre 2013
 
Per Freud era inconcepibile che non ci fosse una civiltà — a prescindere da quanto alto fosse il prezzo da pagare in termini di sofferenza individuale, di nevrosi, di allontanamento dell’individuo dai propri istinti. L’alternativa — un ritorno alla barbarie e allo stato primitivo — era semplicemente estranea al concetto culturale di Freud della vita. Poiché apparteneva alla bassa classe media ed era un ebreo mitteleuropeo affermatosi nella società borghese, Freud non fu soltanto lo specchio, ma in definitiva l’essenza stessa della cultura tedesca. Si potrebbe sostenere che la natura degli ebrei, il significato dell’ebraismo, non consista tanto nel sentirsi un popolo, bensì nel ricreare al loro interno, quasi fossero opere d’arte, i modelli di una cultura a loro sempre estranea. È dunque possibile che soltanto un estraneo riesca ad afferrare e comprendere meglio le consuetudini, le snobberie, il potere o anche la stabilità borghese, e che egli non prenda mai per scontati questi valori, ma li debba acquisire tramite un esercizio immaginativo della volontà, del talento e del coraggio sociale. Freud non era predestinato per nascita a diventare a quarant’anni un giovane e rispettato neurologo (sic) della società medica viennese: gli occorsero l’applicazione della sua precoce ambizione e la sottomissione di buona parte dei suoi istinti più ribelli per fare suoi la formazione, gli usi e gli atteggiamenti del medico viennese. Non sorprende quindi se, al momento di dedicarsi alla sua seconda carriera, con quel lungo ardimentoso passaggio nelle correnti sommerse del sogno, al termine del quale avrebbe creato niente meno che la religione imperante del Ventesimo secolo, l’etica cupamente razionale della psicanalisi, era già molto pretendere che si adoperasse a trasformare i presupposti stessi della società occidentale in una nuova visione di matrimonio, di famiglia e di uomo. Difficilmente gli si sarebbe potuto chiedere di più: che la visione fosse rivoluzionaria e che la ricerca non si concentrasse sui presupposti, ma sulle dinamiche. Pur di salvare quel mondo, Freud fu pronto a mettere in pericolo la sua stessa incolumità nel mondo borghese (del quale era entrato a far parte). Il suo amore non dichiarato fu sempre per la classe media, ma non era semplicemente nelle possibilità di un unico intrepido provocare due sovvertimenti di pensiero. La società era malata, Freud se ne rendeva conto, ma la risposta inevitabile per lui era ridefinire la natura dell’uomo in modo tale da mantenere integra la società e così pure Freud nel suo studio e nella stanza dove riceveva. Se la civiltà era troppo pesante ai vertici e quindi instabile nelle sue strutture e istituzioni, e di conseguenza l’istinto era intaccato nella sua espressione e in grado di pervenire alla bellezza (la bellezza melanconica, sia chiaro) soltanto tramite la sublimazione, così doveva essere. L’uomo, per qualsiasi ragione, e la ragione ultima era misteriosa — Freud non aveva propensione alcuna per il misticismo —, doveva accettarsi per quello che era, un essere corrotto che può diventare un po’ meno corrotto senza mai riuscire a essere perfetto —, e in cambio la sua civiltà si sarebbe probabilmente evoluta e sarebbe diventata meno tragica. Ma questa era una visione rigida. In cambio dell’austerità, e la psicanalisi pura era austera, severa, inesorabile (in contrapposizione a varietà più amabili e amichevoli che oggi abbondano in un’America che ama il piacere), all’uomo sarebbe stata concessa quanto meno la dignità di conservare la propria civiltà. Non si può certo esagerare dicendo quanto ciò sia tipicamente da classe media e profondamente ebraico. Parte dell’elemento paradossale presente nell’atteggiamento mentale di Freud è che egli fu capace delle più fini distinzioni intellettuali e delle più sottili analisi del punto di vista contrario del dibattito, e tuttavia non possedette quasi nessuna autentica capacità come filosofo. A un livello molto alto, egli è si è elevato fino a diventare la quintessenza dell’uomo d’affari ebreo (con tanto di sigaro), e la totalità della sua filosofia in uno stato depresso poteva in definitiva essere quantificata come non molto di più di un profondo lamento, del tipo: «Non ho mai vissuto un periodo particolarmente positivo in vita mia, e il mondo è tutto un lupo mangia lupo, ma io ho creato una famiglia e l’ho tirata su prendendomi cura di lei, e chissà, i figli non danno mai retta ai genitori in ogni caso, ma forse costruiranno un mondo migliore, quantunque io ne dubiti. La cosa più importante è fare il proprio dovere, perché in caso contrario tutto diventerebbe caos. Quel che intendo dire, insomma, è dove finiremmo se tutti se ne andassero in giro a fare tutto ciò che vogliono?».
Questa cupa visione riuscì ad affermarsi al tempo di Freud, quanto meno fino alla Prima guerra mondiale. In seguito la percezione freudiana del possibile si incupì maggiormente, e la sua punta speculativa si avventurò nelle nuove acque profonde del misticismo, all’Eros si aggiunse Thanatos, la pulsione di morte si impegnò dialetticamente con la libido. Ma il misticismo è il boia dell’etica della classe media. La stabilità della borghesia è sempre dipesa da una separazione schizofrenica (sic) del potere della religione intesa come istituzione dalla religione intesa come rivelazione personale di Paradiso, Inferno, Eternità, anima, Dio, e destino dell’Uomo. Il misticismo ha la spiacevole facoltà di fondere insieme vita pubblica e privata del singolo, presenta come sua ultima minaccia la subordinazione all’istinto della ragione, anche se la società domina l’istinto con la ragione. Freud è stato l’ultimo genio della società del Ventesimo secolo, e dopo di lui ci sono stati soltanto i suoi emuli. Alla sua morte, avvenuta nel 1939, la rovina del suo mondo gli appariva ormai chiara. Proprio mentre scivolava in quell’oscura notte, sulla quale si era rifiutato di fare congetture, l’ultimo ideatore della civiltà sentì abbattere tutte le paratie.
Ed effettivamente calò una notte oscura, perché la guerra all’istinto che era stata il presupposto logico progressista del XIX secolo, il prodotto del periodo vittoriano — per così tanto tempo da sembrare vincente — , fu travolta e degenerò al punto da non essere più riconoscibile nei campi di concentramento e nella bomba atomica. La diga della civiltà esplose al cospetto dei flussi soffocati dell’istinto, e perfino quando le palizzate furono travolte dalle forti ondate, rimase una paralizzante ironia, le macerie della civiltà si dissolsero nell’istinto e ne alterarono il linguaggio; gli uomini non furono assassinati a milioni ma sterminati, le scorie atomiche non furono una lenta fatalità ma un fall-out. Forse sarebbe meglio ricorrere all’immagine di Freud del cavaliere e del cavallo, della ragione che controlla l’istinto, del super-ego che tiene le redini, dell’id che è il cavallo, e del cavaliere che è l’ego che incoraggia o reprime le diverse irruenze dell’animale. Secondo quell’immagine, selvaticità del cavallo è controllata a spese della fatica del cavaliere, ma uno va dove desidera andare, quantunque non sempre al passo desiderato. Questa era l’immagine centrale della psicologia di Freud, una civiltà che montava un nobile animale selvatico, ma con risultati imprevisti. Perché l’animale non era controllato troppo poco, ma di gran lunga un po’ troppo, e avvicinandosi alla sua morte il cavallo si imbizzarrì e si avviò verso un dirupo. Anche il cavaliere però era impazzito, la sua fatica altrettanto immane. Cavallo e cavaliere non erano mai stati fatti l’uno per l’altro, e al galoppo verso il dirupo il cavaliere utilizzò i suoi speroni, non le redini, e in questo preciso momento corrono il rischio di saltare insieme, ciascuno di essi avvelenato e folle di frustrazione. (…) Non varrebbe la pena ricordare che Freud aveva un rispetto viscerale per i significati di ansia e paura, se non fosse che i suoi seguaci hanno ridotto questi concetti a campanelli d’allarme, al segnale di un malfunzionamento della mente. Ansia e paura sono trattati da loro come dati di fatto, come uno scontro di ingranaggi in un gesto nevrotico. La comprensione primitiva della paura — da cui si era colti parlando con gli dei, i demoni e gli spiriti, così da essere naturalmente consumati dallo sgomento, dal turbamento e dal terrore — è tutt’altro che dimenticata. Ci insegnano che proviamo ansia perché siamo sollecitati da impulsi inconsci ritenuti inaccettabili a livello sociale. Ci dicono che la paura è il ripetersi di esperienze di inermità assoluta vissute nella prima infanzia. È indotta in noi da situazioni che ricordano al nostro inconscio lo svezzamento e altre privazioni nella prima parte della nostra vita. Ciò che non si esamina mai è l’eventualità che noi si possa provare ansia perché corriamo il rischio di perdere una parte o una certa qualità della nostra anima a meno di agire, e quindi agiamo pericolosamente. O anche la probabilità che noi si possa provare paura quando le minacce di morte ci ispirano un terrore spropositato, uno spavento dovuto non soltanto al fatto che moriremo, ma, al contrario, al fatto che moriremo male, patendo qualche insopportabile costrizione per l’eternità. Queste spiegazioni sono nell’insieme estranee a ciò su cui si concentrano le scienze psicologiche nel Ventesimo secolo. No, il nostro secolo, quanto meno il nostro secolo americano, è una casa di convalescenza per veterani feriti nel corso di una guerra bimillenaria, l’immane lotta all’interno del cristianesimo per affrancare o distruggere la visione dell’uomo.
Messi di fronte al nostro fallimento (perché sembrerebbe quasi che la guerra sia stata contro di noi), gli indagatori della mente umana hanno iniziato a presentarsi nelle vesti di tranquillizzatori intellettuali. A dominare la filosofia anglo-americana sono il Positivismo Logico, gli esperti di logica, gli analisti del linguaggio, non gli esistenzialisti. A predominare in psicoanalisi sono i Freudiani, non i Reichiani o gli Junghiani. E più dell’arte, è il giornalismo a dare forma alla coscienza apatica della nostra epoca. Così, parimenti, è la politica più della moralità a improntare l’attenzione morale della nostra epoca. Poi, però, la politica, come il giornalismo, è concepita per tenerci nascosto l’abisso esistenziale della paura, il terrore che sta dietro al nostro essere calmi. Oggi un politico di successo non è un uomo che lotta con l’ingiustizia, ma è al contrario uno specialista in comunicazioni di massa, che può quantificare il proprio successo in base alla pratica di un rituale e di un lessico politico che ci distoglie temporaneamente dalla paura, dall’ansia, dallo specchio del sogno, da ciascuno di quei profondi stati emotivi che la politica è progettata per nascondere.
A New York tra due membri del Junior Jet Set ho avuto modo di ascoltare la seguente conversazione: «Non so che cosa fare. L’ultima volta che ho avuto bisogno di soldi ho scritto ai miei genitori e ho detto loro che dovevo abortire. Ma sono passati soltanto tre mesi. Mi chiedo se non sia troppo presto per dire loro che ho bisogno di un altro aborto».
«Di’ loro che questa volta si tratta di un negro».
«Buona idea».
Molti anni fa, facendo visita a un amico malato, venni a conoscenza del suo passatempo. Si dà il caso che fosse un attore, ma la sua indole non era dissimile da quella di un gioielliere o di un collezionista. Raccoglieva citazioni. Ogni volta che in un libro o in un poema si imbatteva in un’espressione che gli piaceva in modo particolare, la annotava in un taccuino che teneva per questo scopo, uno splendido taccuino di ottima carta rilegata in pelle rossa. La sua idea, naturalmente, non era nuova. La maggior parte di noi ha iniziato più di una volta a tenere un taccuino di questo genere. A distinguere la sua raccolta da quella di chiunque altro è che egli la coltivò per anni, e ne fece uso…
(Traduzione di Anna Bissanti)
http://foglianuova.wordpress.com/2013/12/08/domenica-8-dicembre-2013-repubblica/
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/08/mailer-freud.html?ref=search

 

UN TESTO NATO AL TELEFONO

di Gabriele Pantucci, repubblica.it, 8 dicembre 2013
 
Ci fu un periodo in cui Norman Mailer sfogava le sue frustrazioni in lunghe e quotidiane conversazioni telefoniche con uno psicanalista, Robert Lindner. Non erano sedute d’ analisi. Norman aveva letto Prescription for Rebellion e scritto al suo autore, il dottor Lindner. S’ erano incontrati a New York e avevano scoperto che entrambi erano disgustati da McCarthy, che entrambi avevano in antipatia Eisenhower, che entrambi riconoscevano il genio di Freud e che erano entrambi irritati da repressione e rinunce che lo schema freudiano imponeva a beneficio della civiltà. Quanto bastava per diventare amici e consentire a Mailer, anni dopo, di poter affermare con orgoglio di non essere mai stato in analisi. Ora J. Michael Lennon – autore della più importante biografia dello scrittore, Norman Mailer. A Double Life, appena uscita negli Usa per Simon&Schuster – ci spiega che alla base del saggio (incompleto) che qui pubblichiamo c’ è proprio questa intensa relazione telefonica. Il testo, scritto intorno al 1956, quasi dieci anni dopo il successo ineguagliato de Il nudo e il morto, è rimasto inedito fino al mese scorso. Lo ha appena pubblicato la casa editrice Random House come primo di cinquanta saggi raccolti in Mind of an Outlaw.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/08/un-testo-nato-al-telefono.html?ref=search

 

 

AL CINEMA CON FREUD E JUNG IN SALA. PER LASCIARSI SORPRENDERE DAI SOGNI

di Paolo Beltramin, Il Corriere della Sera, 9 dicembre 2013
 
Perché l’anziana madre di Norman Bates, la spietata assassina di Psycho, è proprio così cattiva? Perché in Manhattan le coppie si fanno e si disfano, attraversando le strade più romantiche del mondo, senza trovare mai un equilibrio? E perché Jeb Rand, il cowboy protagonista di Notte senza fine, sogna ossessivamente un paio di speroni che vanno e vengono davanti ai suoi occhi? Anche i più fieri avversari della psicoanalisi devono riconoscere la sua utilità fondamentale, almeno nella storia del cinema. Da Ingmar Bergman e Federico Fellini fino agli sceneggiatori pagati a cottimo per inventarsi film di serie B nell’epoca d’oro di Hollywood, schiere di artisti e artigiani hanno scopiazzato a piene mani dalle pagine di Sigmund Freud. E il più delle volte lo hanno fatto, come era inevitabile, del tutto inconsciamente. Nel saggio La lingua sognata della realtà (Antigone edizioni), la psichiatra Rossella Valdrè in fondo compie il percorso inverso: parte dal cinema per arrivare alla psicoanalisi del reale. Trentatré film dell’ultimo decennio vengono idealmente proiettati sul lettino dell’analista, per indagare «l’uomo di oggi, il soggetto della contemporaneità». Sempre mettendosi «di fianco allo spettatore e non al di sopra», come osserva Stefano Bolognini nella prefazione. Senza mai cedere alla recensione valutativa, ma senza nemmeno nascondere una passione sconfinata per l’oggetto del suo studio.
Opere come Il nastro bianco e Funny Games di Michael Haneke, Match Point e Sogni e delitti del suo adorato Woody Allen ci raccontano l’evoluzione della perversione umana: viviamo «non un’età della follia, come fu, se si vuole, l’epoca dell’isteria di Freud, ma un periodo storico dove il tratto psichico dominante è, da parte di molti soggetti, la manipolazione psicopatica di ansie psicotiche». Perduto ogni possibile senso di colpa, i protagonisti compiono il male come una cosa assolutamente naturale, come una delle tante opzioni possibili. Un altro gruppo di film, dalla Solitudine dei numeri primi a Revolutionary Road, indaga invece il mutamento del rapporto tra maschile e femminile, sempre più ambiguo, minato dalla tentazione dell’onnipotenza e insieme da uno strano senso di fragilità: «Una fragilità particolare, tutta moderna, che si palesa nella richiesta continua di conferme amorose, nel bisogno assoluto di corrispondere all’ideale, di assecondare le aspettative altrui e il conformismo sociale per non provare il dolore della differenza, dell’unicità, della separatezza».
In un tempo di visioni sempre più frammentate, di scene cliccate su YouTube e subito cancellate da altre scene, fermarsi a ragionare su un film accanto a una psicanalista può avere effetti imprevisti. Forse può perfino svelare qualcosa di nascosto, nell’opera e in chi la sta guardando. «I film sono come i sogni, soggetti alla stessa, incontrollabile dinamica — ha scritto David Cronenberg —. E viceversa, i sogni sono come i nostri film. Oggi forse il cinema ha cambiato il modo di sognare. I nostri sogni sono debitori delle componenti oniriche del grande schermo: montaggi, effetti speciali… Il mio? È di sognare una sceneggiatura perfetta, pari pari, una volta sveglio, in un film». Il cinema come un passaggio segreto, tra il sogno e la realtà. «Questo stato mentale fortunato, così prezioso, così raro, che la contemporaneità fa di tutto per svilire», aggiunge la Valdrè. «Come quando in seduta col mio paziente si crea l’ambiente giusto, di ascolto empatico ma non saturante, di partecipazione senza intrusione, di libertà associativa, di comprensione umana, senza pedagogia: allora, come nel buio della sala, tutte le porticine aperte, apribili, dentro di me, mi lascio sorprendere». Torna alla mente il titolo del film di David Cronenberg su Freud e Jung, A Dangerous Method. Un metodo pericoloso, certo, ma estremamente affascinante.
Il libro di Rossella Valdrè,  La lingua sognata della realtà, Antigone, pagine 224, e 24 Euro
http://archiviostorico.corriere.it/2013/dicembre/09/cinema_con_Freud_Jung_sala_co_0_20131209_37b7641c-609b-11e3-afe2-c4a2bdc28d50.shtml
 
 

TORNIAMO A DARE VALORE ALL’IMPORTANZA DI ESSERE “FEMMINE”. Pubblichiamo l’intervento della neuropsichiatra Mariolina Ceriotti Migliarese, protagonista insieme a molte altre dell’edizione 2013 di TEDxWomen Milano, tenutasi lo scorso 5 dicembre 2013
di Mariolina Ceriotti Migliarese, 27esimaora.corriere.it, 10 dicembre 2013
 
Quando ero bambina pensavo che avrei preferito nascere maschio, perché i maschi possono fare quello che vogliono nello studio, nel lavoro, nella vita. Dopo tante battaglie le ragazze di oggi sono fortunatamente diverse, molto più sicure del proprio sesso; eppure la loro vita è spesso affannata, sempre tesa a rincorrere qualcosa, in bilico tra affetti e lavoro, troppe volte opaca. Perché non siamo contente? Perché la parità di ruolo non ci basta? Perché questa vita piena di cose ci lascia troppo spesso sfiancate e talvolta persino vuote? Lo psicoanalista D. Winnicott scriveva che la persona felice è la persona creativa e che la creatività dipende dalla ricchezza del nostro mondo interiore e dalla capacità di mettere qualcosa di noi nel mondo esterno: se mettiamo in ciò che facciamo qualcosa che è propriamente nostro e dunque è unico e originale, tutto prende senso e si accende. Avere un buon contatto con se stessi e conoscere la propria specificità è perciò importante e la differenza ha un valore, perché è segno della nostra identità: tanto più ciascuno di noi diventa se stesso infatti, tanto più è unico e diverso da ogni altro e contribuisce creativamente all’infinita ricchezza e varietà dell’umano.
Ma parlare di specificità ci obbliga a pensare alla più irriducibile delle differenze, quella tra il maschile e il femminile: una differenza inscritta in modo incancellabile in ogni nostra singola cellula, che orienta in modo diverso la costruzione del nostro corpo e informa in modo segreto e ricchissimo anche la costruzione del nostro pensiero, del nostro modo di sentire, del nostro modo di essere nel mondo. Abbiamo lottato per la parità dei ruoli, ma forse abbiamo perso il senso della nostra specificità e il senso del valore irrinunciabile della nostra differenza, che invece continua malgrado tutto ad esistere nel profondo del nostro essere e a renderci inquiete, dando così segno di sé…
Ma in cosa consiste, in cosa si esprime il senso ultimo di questa differenza? La grande filosofa di origine ebraica Edith Stein dice che il cuore della nostra specificità è “l’orientamento alla persona”. La donna è in primo luogo profondamente coinvolta da «…tutto ciò che è vivo e personale» e tutto ciò che non ha vita «la cosa… la interessa solo in quanto serve al vivente e alla persona». Detto in altre parole: ci interessa ciò che è vivo, ciò che è umano, ciò che è relazione e serve alla relazione; anche quando ci occupiamo di fisica, di management o di formule matematiche, quando dirigiamo un’azienda o ci occupiamo di politica, dietro il nostro agire c’è sempre la tensione di una domanda inespressa: il desiderio che ciò che facciamo, che scopriamo, che pensiamo, possa servire a qualcuno. Questo ci rende concrete, questo fa sì che sentiamo l’esigenza di tenere insieme il pensare e l’agire. Per noi la vita con la sua realtà e la sua evidenza è più forte e più importante di ogni cosa e di ogni parola. Per noi il tempo è per l’uomo e non l’uomo per il tempo, e nessuno più di noi conosce o almeno potrebbe conoscere il valore vero del tempo.
Questo particolare, spesso inconsapevole orientamento del femminile spiega tante cose, anche piccole e quotidiane; ecco ad esempio svelato perché le nostre auto sono spesso disordinate e piene di cose: per noi non si tratta di oggetti fine a se stessi, ma di spazi vitali, mezzi per trasportare figli o amiche, e che devono perciò contenere tutto ciò che serve. Ecco perché sul luogo di lavoro ci piace coltivare il rapporto con i colleghi, magari anche parlando di cose personali: per noi la relazione e un buon clima umano danno senso e valore aggiunto alle ore passate in ufficio. Ecco ancora perché mentre stiamo lavorando, e lavorando bene, non riusciamo a toglierci del tutto dalla testa i nostri figli a casa con le loro esigenze e i loro problemi: sappiamo che hanno bisogno di essere contenuti nel nostro pensiero e che hanno bisogno di noi. Il mondo di oggi però ci fa sentire obbligate ad una faticosa omologazione: ci racchiude in tempi, modi e obiettivi che sono “al maschile”, facendoci pensare che malgrado ogni sforzo non siamo mai abbastanza brave. Forse, semplicemente, non siamo mai abbastanza maschili?
Eppure le donne, come dice sempre Lacan, si contano “una per una”, nell’unicità che le costituisce: ogni donna è davvero un mondo a sé e ogni donna, per stare bene, dovrebbe poter avere la libertà di modellare su di sé il proprio progetto, i propri tempi e modi di vita, secondo ciò che la sua realtà concreta e personale le suggerisce. Non esiste un abito che sta bene a tutte ed è forse arrivato il momento che autorizziamo noi stesse a pensarlo, per dare il via ad una vera rivoluzione dal basso. Noi possiamo arricchire il lavoro e la vita se ci riconosciamo il diritto/dovere di viverla al femminile. Io credo che questo ci permetterà anche di apprezzare e valorizzare in modo nuovo il maschile, aiutandoci a vedere l’uomo come differente e complementare, capace di dare al mondo un apporto altrettanto ricco e necessario proprio nella sua diversità. Il mondo ha bisogno che possa finalmente emergere una buona, paritaria alleanza tra i sessi: possiamo farci avanti per prime, per essere, nel lavoro come nella vita, amiche e compagne dell’uomo.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/torniamo-a-dare-valoreallimportanza-di-essere-femmine/
 
 
«Sarò il diavolo custode ma soltanto per ridere»
di Ferruccio Gattuso, ilgiornale.it, 10 dicembre 2013
 
Sono tempi di crisi, quindi non è il caso di fare i difficili. E se ti capita a domicilio un «diavolo custode» al posto del più classico angelo, bé, come si dice a Milano: prendi e porta a casa. Che poi non è detto che Belzebù - se è un buon diavolo come quello interpretato da Vincenzo Salemme nella nuova commedia da lui scritta e diretta - non ti sappia consigliare bene. In cartellone al Teatro Manzoni da questa sera al 31 dicembre (ore 20.45, domenica ore 15.30, ingresso 32-22 euro, info 02.76.36.901), Il Diavolo Custode segna il ritorno sulla piazza milanese del mattatore napoletano.
Vincenzo Salemme, a un napoletano non bisognerebbe mai dirlo ma che fa, mette le corna?
«No, quello no: sul palcoscenico non ho corna sulla testa, e poi non porto nemmeno cornetti scaramantici addosso. Anche se proprio non posso dire di non essere superstizioso. Forse lo sono un po' meno di molti miei colleghi, però».
Se lei fa il diavolo, qualcuno di tentato dovrà pure esserci...
«Sì, c'è e si chiama Gustavo (interpretato da Domenico Aria, sul palco insieme ad altri sei attori, ndr): è un uomo medio che si è costruito attorno una vita che forse non voleva. Coperto dai debiti e non compreso dalla famiglia, si trova di fronte alla propria coscienza. Io mi diverto a vestire questa sua coscienza con gli abiti simbolici di un diavolo custode. Un diavolo che cerca di farlo riflettere, dicendogli: vuoi veramente ricominciare daccapo? Sei sicuro che ne valga la pena? Tanta gente si chiude in vite che poi non sente proprie».
Più che il mito del Faust, sembra un perfetto caso di psicanalisi...
«Infatti questo testo e quello precedente, L'astice al veleno, l'ho scritto nei cinque anni in cui ho fatto analisi. Ci ero andato per problemi di sensi di colpa, che sono una cosa ben diversa, attenzione, dall'aver commesso colpe. L'analisi non deve giustificare le colpe commesse, deve spiegare perché ti senti inspiegabilmente in colpa».
E da una situazione del genere, lei ha partorito due storie da ridere?
«Ognuno scrive secondo le proprie corde: da ragazzino capii che potevo fare il comico perché, anche quando facevo una riflessione seria, gli amici ridevano. Il Diavolo Custode è una commedia in lingua napoletana italianizzata. Ma in fondo il napoletano è la lingua del teatro, il perfetto punto d'incontro tra comicità e tristezza».
Lo spettacolo è in un atto unico: qual è il motivo di questa scelta?
«Tutto in un tempo di un'ora e 45 minuti, senza intervallo. Come un film. Perché se veramente si vuole attirare un pubblico più giovane in teatro ritengo che qualche regola vada cambiata. Bisogna finalmente convincere i giovani che il teatro non è una chiesa».
http://www.ilgiornale.it/news/milano/sar-diavolo-custode-soltanto-ridere-974572.html
 

DIFFERENZE CREATIVE

di Annamaria Testa, internazionale.it, 10 dicembre 2013
 
“Tutti noi cerchiamo costantemente di ricavare un senso dal mondo in cui viviamo e la sfida di riuscirci è tanto maggiore quanto più sono complesse le nostre esperienze. Sta in questa sfida la chiave della creatività”, scrive Nigel Barber su Psychology Today. Barber prosegue spiegando che proprio nella molteplicità di prospettive acquisite attraverso esperienze diverse dalla norma sta, per esempio, il motivo per cui negli Stati Uniti gli immigrati sembrano avere sette volte più possibilità di eccellere in campi creativi di quante ne abbiano individui le cui famiglie risiedono in America da generazioni. Lo stesso schema che unisce creatività e differenza si applica a chiunque abbia una “dimensione di alterità” che lo allontana dalle categorie sociali mainstream. Barber conclude che qualsiasi punto di diversità (etnica, culturale, di genere, di orientamento sessuale) sviluppa una potenzialità creativa.
Ha un effetto analogo anche qualsiasi accidente esterno o situazione complicata che l’individuo sperimenta: è noto – uno dei primi ad accorgersene è stato Dean Simonton – che le persone eminenti hanno avuto in percentuale molto superiore alla mediainfanzie difficili e, a volte, traumatiche. La regola che dice “prospettive diverse = creatività maggiore” vale non solo per i singoli individui ma anche per i gruppi. Così, per esempio, è dimostrato che gruppi etnicamente eterogenei producono idee più efficaci e fattibili di quelle messe a punto da gruppi omogenei. E perfino gruppi messi insieme a caso trovano soluzioni migliori di gruppi omogenei di esperti che, proprio perché condividono una stessa formazione, la pensano tutti alla stessa maniera. Insomma, se necessity is the mother of invention, potete star certi che diversity is the mother of creativity. S’intitola proprio così un lungo appello a importare la diversità in azienda, mettendo insieme persone diverse da reparti diversi, cambiando luoghi e processi e magari introducendo un po’ di diversità anche nella vita dei manager.
La regola vale anche per l’educazione: in Il codice dell’anima, il grande psicoanalista James Hillman scrive che, con i bambini, “ciò che conta è la passione, e la passione può avere un valore predittivo del talento e diventare una forza motivazionale più efficace di altri più consueti parametri non esiste un cibo giusto e un cibo sbagliato”, (per l’anima e la crescita), “basta che soddisfi l’appetito, e che l’appetito trovi un cibo che lo soddisfa”. “Esistono però”, continua Hillman, “nella dieta capace di risvegliare l’immaginazione alcuni ingredienti indispensabili. Tra i molti requisiti preliminari, ne elencherei almeno tre: primo, che i genitori o altri adulti intimi abbiano una qualche fantasia sul loro bambino; secondo, che nell’orizzonte del bambino siano compresi tipi eccentrici e vecchie signore un po’ strambe; e, terzo, che si trattino con rispetto le attività ossessive”. E certo: gestire la diversità è molto più complesso che gestire gruppi omogenei, sia a scuola, sia in azienda. Pensate solo alle quantità di equivoci che possono sorgere a causa di incomprensioni linguistiche, criteri di giudizio disallineati, priorità differenti, sensibilità e codici di cortesia non condivisi, preparazione e sfere di competenza eterogenee. È necessaria una dose maggiore di curiosità, flessibilità e rispetto.
Se volete capire quanto siete avanti (o indietro) nella capacità di interagire tenendo conto delle differenze culturali, potete guardarvi la scala di Bennett, che comprende sei stadi: negazione della differenza, difesa, minimizzazione, accettazione, adattamento, integrazione. Bennett indica anche i cinque passaggi necessari per arrivare all’integrazione: diventare consapevoli delle differenze, depolarizzare i pregiudizi negativi e riconoscere le somiglianze tra culture, afferrare l’importanza delle differenze interculturali, esplorarle e imparare a conoscerle, sviluppare empatia.
http://www.internazionale.it/opinioni/annamaria-testa/2013/12/10/differenze-creative/
 
 

ADDIO A LUCIANA SICA, CRONISTA DELLA PSICHE
di Simonetta Fiori, la Repubblica, 14 dicembre 2013
 
«Ma dai, non sarà niente, ora mi passa». La falcata scalpitante, e quella chioma da leonessa. Così tre mesi fa Luciana Sica aveva accolto il “clandestino” improvvisamente atterrato sul collo: da combattente, estranea a ogni forma di piagnisteo o autocommiserazione. Era l’inizio del suo viaggio terminale, concluso nella notte tra giovedì e venerdì. Una malattia vissuta con lo stesso stile con cui aveva riempito la sua esistenza: fino alla fine desiderosa di letture, di film, di cene conviviali, di affetti e di amicizia, talvolta ritrovati con l’intensità che solo il dolore vero può dare. Profonda e imprevedibile, ancora capace di allegria, i grandi occhi luminosi che ti scrutano dentro, la risata improvvisa. «Nuvola, dove vai?»: a casa aveva ancora la vignetta che le aveva dedicato Angese, lei leggera e soffice come un pezzo di cielo che fugge lontano.
Era arrivata in piazza Indipendenza nell’Ottantanove, una data storica che per Luciana significò anche una nuova vita professionale. In passato s’era occupata di cronaca politica, per tanti anni a Paese Sera, più tardi un passaggio alla Nuova Sardegna. Ma a Repubblica poté tradurre in passione professionale una curiosità che l’aveva accompagnata nel suo privato, ossia l’attenzione per i temi legati alla psicoanalisi e alla psichiatria. I libri, gli autori, le controversie, i punti di luce, soprattutto il rapporto con la vita.
Si muoveva su quel terreno con singolare sensibilità, nel tentativo costante di aprirlo al mondo. Diventò in poco tempo la “cronista della psiche”, genere poco praticato dalla stampa quotidiana. Non c’era un’idea o un dibattito che non animasse la sua curiosità. Intervistò i più grandi, tra gli italiani. Ed anche personalità di rilievo internazionale come Matte Blanco, André Green, Janine Chasseguet- Smirgel, Salomon Resnik, René Kaës, Luc Ciompi. Un lavoro di divulgazione che però non si limitava a tradurre per il grande pubblico le formule scolastiche della cittadella psicoanalitica, ma si sforzava di farla dialogare con la complessità della realtà sociale. «Finché c’è analisi c’è speranza», diceva spesso, riprendendo una battuta di Bernardo Bertolucci.
Non era solo una cronista. Nel tentativo di rianimare una disciplina sofferente, l’anno scorso pubblicò sul giornale Un manifesto in difesa della psicoanalisi, che avrebbe dato vita a “una nuova primavera” e poi al volume einaudiano Salvate il dottor Freud. Il suo sguardo lucido e anche libero le fece vincere il premio Musatti, riconoscimento in precedenza assegnato a personalità come Sanguineti, Bodei, lo stesso Bertolucci. Fu scelta dalla Società psicoanalitica italiana proprio per l’ostinazione con cui si sforzava a tenere in vita «la speranza dell’analisi». Lei andò a ritirare il premio alla sua maniera, zoppicante per una caduta dal motorino e senza alcun timore reverenziale. Disse che svolgeva il suo lavoro con una passione che non era solo intellettuale — «e a chi di mestiere fa l’analista», aggiunse, «sicuramente questo elemento non sarà sfuggito». E poi, con la consueta franchezza: «Basta con quella obiezione che sento da una vita e rischia di diventare uno stornello paralizzante: la psicoanalisi non sarebbe in nessun caso dicibile. Certo non è facile da dirsi e neppure averne dimestichezza. Ma il mio lavoro dimostra che non è impossibile intendersi, se alla base c’è un sentimento di considerazione reciproca, un po’ di coraggio, un po’ di umiltà, e se mi passate l’espressione: un qualche desiderio di compromissione con la vita». Compromissione con il disordine della vita, un’attitudine che certo non le mancava.
Vitalità pura, a tratti caotica e travolgente, Luciana non conosceva mediazioni. Per questo più esposta alle ferite dell’esistenza, rispetto alle quali non si preoccupava di cercare riparo. Piglio energico, talvolta brusco, negli ultimi tempi aveva riscoperto la tenerezza. È lei stessa a rivelarci la chiave di questo suo percorso, in un articolo scritto poche settimane fa a proposito del nuovo saggio di Eugenio Borgna. Una riflessione sul dolore e sulla malattia che sembrava tagliata sulla sua condizione. La malattia le aveva permesso di esternare quella sua ricca interiorità tenuta a lungo protetta. Scrivendo della dignità umana colpita dalla sofferenza fisica, rivendicava «parole» e «gesti» affettuosi, un codice di «gentilezza» che favorisce «relazioni quotidiane dotate di senso». Le stesse che tumultuosamente aveva coltivato per una vita, costruendo intorno a lei una comunità d’affetti autentica. «Non sono cose dimostrabili», scrive citando Borgna, «ma il vivere e il morire sono intrecciati l’uno all’altro, e talora si muore quando non c’è più il desiderio di vivere, e talora non si muore quando ci sia il desiderio di vivere».
Luciana è morta con il desiderio di vivere. Le sue ultime telefonate erano dedicate per metà alla cartella clinica, per l’altra metà al destino professionale dei colleghi più giovani che avrebbe voluto veder crescere nel suo giornale. Il prossimo 16 gennaio avrebbe compiuto sessant’anni. Nella parete di fianco alla scrivania, campeggia il suo variegato mondo per immagini, tra un sorridente Che Guevara — s’era messa a studiare lo spagnolo, diventando anche un’esperta di letteratura sudamericana — e un ritratto di Amélie — il cinema, sua grande passione. E un foglietto, strappato da una raccolta di poesie. Biglietto lasciato prima di non andar via di Giorgio Caproni. «Se non dovessi tornare,/ sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai». Ciao Lu, con noi resterai sempre.
La direzione e la redazione di Repubblica abbracciano il figlio Michele e i famigliari. I funerali saranno celebrati oggi alle 14 presso la Basilica Santa Maria in Trastevere a Roma.
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/14/addio-luciana-sica-cronista-della-psiche.html?ref=search

EN TERAPIA. In Argentina spopola la psicoterapia. Sdoganata tra tutti i ceti sociali da campagne di sensibilizzazione e presenza massiccia sul territorio. Perché la crisi si affronta anche sul lettino

di Giulia de Luca Gabrielli, Left, 14 dicembre 2013

Qualche anno fa un quiz televisivo italiano chiedeva: «Buenos Aires è la città al mondo dove ci sono più: 1) ballerini, 2) macellai, 3) psicoanalisti?» Per la sorpresa di tutti, la risposta era la 3: psicoanalisti. Oggi il primato resta, anzi raddoppia: il numero totale degli psicologi nel 2005 era di 121 ogni 100mila abitanti, ora è di 202, secondo lo studio del terapeuta Modesto Alonso Gli psicologi in Argentina. Per fare un confronto, in Italia nel 2011 il numero era di 2.58 ogni 100mila (dati Oms). Ebbene sì. Dimenticatevi il tango e la carne, la vera passione dei porteños – i residenti di Buenos Aires – è la psicoterapia.
Per gli argentini la salute mentale ha un valore inestimabile. Di questa massa di psicologi, infatti, molti scelgono di dedicarsi all’analisi. E l’offerta di lettini è amplissima, specie a Buenos Aires, dove il quartiere più frequentato dai pazienti è stato ribattezzato Villa Freud. Un mito che non tramonta anche se ormai nessun analista replica esattamente le sue teorie e tanti sono i seguaci, ad esempio, della scuola lacaniana. Ma la fama del padre della psicoanalisi resiste: fino a qualche tempo fa, uno dei cafè più popolari di Villa Freud si chiamava Bar Sigi, diminutivo di Sigmund. Altro che la New York di Woody Allen.
E non finisce qui.  La psicoterapia è diventata un elemento integrante della cultura argentina contemporanea. Se ne parla nei giornali, nei dibattiti pubblici, nei salotti di critica lettararia. Spopolano le miniserie che intrecciano storie di analisti e di pazienti, come En terapia o Historias de Divan, e i “terapy talk show” dove un vip di turno viene psicoanalizzato in mondovisione.
Il risultato è un’evoluzione della società e un definitivo sdoganamento della psicoterapia. Il forte pregiudizio una volta associato alla cura della salute mentale viene ormai etichettato come ingiustificabile, contrariamente a quanto ancora accade in molti altri Paesi tra cui l’Italia.  «Qui da noi», spiega Alonso, esperto in materia e docente all’Università di Buenos Aires (Uba), «si è investito molto per far capire che alla gente che si può  intervenire efficacemente sulla salute mentale» e che «non bisogna necessariamente esser pazzi per consultare uno psicoterapeuta». E il messaggio agli argentini è arrivato forte e chiaro. Secondo i sondaggi condotti dall’azienda di ricerche di mercato Tns, negli ultimi anni la domanda di cure è aumentata notevolmente. «Un terzo della popolazione dichiara di aver fatto una seduta almeno una volta nella vita e questa cifra sale a 1 abitante su 2 nella capitale», commenta Comstanza Cilley, direttrice della ricerca.
Ariana, studentessa di Scienze politiche all’Uba, ha iniziato il suo percorso di psicoanalisi già tre ani fa, quando ne aveva solo 19. «Tutti in famiglia ci vanno, anche tra i miei amici è raro che qualcuno decida di non seguire una terapia». Paulo, architetto di 29 anni, sostiene che la sua intenzione è di continuare l’analisi per tutta la vita. «Non vedo perché dovrei smettere. I benefici sono tanti e mi permette di capire meglio quello che mi accade intorno. È una questione di ricerca». In Argentina, infatti, le cure possono permettersele non soltanto i più ricchi ma anche la classe mediobassa. Perché se una seduta privata può variare dagli 8 ai 150 euro l’ora, ci sono molte strutture pubbliche dedicate alla salute mentale che funzionano bene e offrono servizi gratuiti, in base al reddito.
La passione per la psicoterapia sembrerebbe essere contagiosa anche per i tanti stranieri che si trasferiscono a Buenos Aires. Arrivati nella capitale vengono spesso attratti da questa “usanza” popolare. «Quando sono arrivata qui per lavoro, sono rimasta sorpresa nello scoprire che quasi tutti hanno un analista. Negli Stati Uniti non è così comune e, se lo è, di certo non è cosa di cui parlare liberamente. Non è molto che io ho iniziato a frequentarne uno e non nego che, se tornassi indietro, lo rifarei».
Gli argentini sanno che la psicoterapia è uno strumento in più per affrontare le difficoltà, che sono state enormi all’ndomani del default e che non sono scomparse con l’era Kirchner. E oggi, con la crisi che spinge tanti alla disperazione, di psicoterapeuta ce ne vorrebbe uno per isolato.

http://www.left.it/2013/12/12/argentina-en-terapia/13968/
 

CARA LU, HAI SALVATO LO SPIRITO DI FREUD
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 14 dicembre 2013

Mai, mai così, mai così presto, avrei pensato, mai, di scrivere sulla morte di Luciana Sica. Di scrivere sul suo giornale, su questo giornale che aveva amato profondamente sino agli ultimi giorni. Ogni morte umana è prematura, scriveva Simone De Beauvoir in Una morte dolcissima. Eppure ci sono morti che più di altre ci lasciano senza fiato, senza parole, senza speranza. Quando ho saputo della malattia e oggi della morte di Luciana Sica sono rimasto incredulo. Possibile? Tutta quella energia e tutta quella forza – ho pensato – non erano fatte per morire. Troppo presto, troppo rapidamente, troppo ingiustamente.
Ho conosciuto Luciana Sica tre volte. La prima è stata a distanza, come una firma delle pagine culturali di Repubblica. La leggevo sempre con interesse, innanzitutto perché nel giornalismo italiano, con la sola eccezione di Francesca Borrelli del Manifesto, era l’unica che con costanza e passione si dedicava seriamente alla letteratura psicoanalitica. Aveva fatto un’analisi? Me lo sono chiesto più volte e più volte ho evitato di chiederglielo. Sicuramente conosceva da vicino non solo i libri della psicoanalisi, ma anche molti psicoanalisti italiani, alcuni dei quali, come Sarantis Thanopulos, suoi cari e sinceri amici. Io ero venuto tra gli ultimi. Fu la seconda volta in cui la conobbi. Questa volta di persona, a Milano, dove era venuta per intervistarmi in occasione dell’uscita di un mio libro. Era la primavera del 2010. Mi congedò dicendomi: «Sa, professore, io porto fortuna ai libri».
Poco dopo fu sempre lei che mi portò a Repubblica. Fu lei, davvero, per mille altre ragioni, a portarmi fortuna. Ma la vera fortuna fu la terza volta che ebbi l’occasione di conoscerla. Parlo di Lu («non mi chiami Sica, professore, la prego. Mi chiami Lu o Luciana», mi disse una volta). Parlo dell’amica con la quale ebbi modo tante volte di discutere di psicoanalisi e delle nostre vite. Parlo della sua combattività senza conformismi in difesa della psicoanalisi che lei interpretava non solo come una forma di terapia, ma come una grande rivoluzione antropologia e filosofica. Senza capire e senza mai davvero interessarsi dei settarismi, delle correnti, delle scolastiche che a suo giudizio imprigionavano sterilmente quello che doveva invece mantenersi, seguendo lo spirito inaugurale di Freud, un pensiero vivente. Di qui la sua straordinaria intuizione di radunare, proprio sulle pagine di questo giornale, alcuni massimi esponenti italiani di diverse scuole di pensiero della psicoanalisi  a sostegno della loro dottrina ingiustamente e pregiudizialmente attaccata. «Ci voleva Luciana - ho pensato quando lessi il Manifesto in difesa della psicoanalisi – per fare quello che gli psicoanalisti da soli non riuscivano a fare!».
Come sempre quando qualcuno a cui vogliamo bene si allontana verso il regno dei morti e ci abbandona, c’è sempre qualcosa di lui che sopravvive in noi. Ed è di quelli che restano il compito di trattenere nella memoria chi ora non c’è più. Alla fine ci davamo del “tu”. E non era un “tu” qualunque. Era quel “tu” che nell’amicizia si guadagna lentamente e segna l’apertura di un mondo comune. «Tu adesso, Luciana – vorrei dirle -, resta ancora con noi, ancora un po’».
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/12/14/cara-lu-hai-salvato-lo-spirito-di.html?ref=search
 


RITORNARE A SCRIVERE (ANCHE I BIGLIETTI DI NATALE)
di Maria Teresa Veneziani, 27esimaora.corriere.it, 14 dicembre 2013
 
Nel 1819 e nel 1919 — a 100 anni di distanza —, due maschi ansiosi e insicuri, il 19enne Giacomo Leopardi e il 36enne Franz Kafka, decisero di prendere carta e penna e confidarsi con il padre. Mentre Leopardi cerca di giustificare il suo tentativo di fuga che non avrà successo, quella di Kafka è un’ampia requisitoria in cui si alternano accuse e tentativi di compromesso nei confronti di quel genitore che invece di facilitargli «la strada» lo aveva «sempre ostacolato». «Questo sentimento di nullità che così spesso mi prende… dipende molto alla tua influenza…».
Entrambe le lettere, affidate rispettivamente al fratello Carlo e alla madre, non raggiunsero il destinatario e vennero pubblicate postume, ma in parte avevano già assolto la loro funzione. «Arrivano anche le lettere non scritte», sosteneva Lacan.
Ma mai come in questo Natale sobrio un biglietto vergato a mano sarà apprezzato e potrà pure compensare un dono non proprio azzeccato. Perché dimostra empatia e anche lo sforzo di investire tempo e pensieri, non solo denaro, come ha spiegato la psicologa americana Karen Pine che ha indagato gli elementi del «dono perfetto».
In epoca in cui tutto passa attraverso mail, messaggini di testo e cinguettii vari, l’arcaica lettera viene rivalutata. Ha colpito Bernardo Bertolucci a Venezia confessando di aver ceduto — dopo anni di lusinghe — alla presidenza del festival del cinema solo dopo aver letto una lettera di cinque pagine del direttore Alberto Barbera. E ora psicologi e psichiatri confermano che le lettere sono utili anche nella cura delle relazioni complicate.
Lettere di perdono, rilevazione o richieste di chiarificazione: lasciar fluire i sentimenti più profondi, talvolta indicibili, diventa un valido aiuto nell’ambito di un programma terapeutico.
«Il ricorso alla scrittura nel contesto di una terapia è molto frequente sia nella forma dell’autobiografia che rivolta a un’altra persona», conferma la psicoterapeuta Silvia Vegetti Finzi. In particolare è utile tra genitori e i figli adolescenti, periodo della vita in cui il dialogo diventa difficile. In questi casi la lettera risulta efficace perché preserva la distanza con il ragazzo che, così, non si sente invaso».
«Lo scritto può essere molto più efficace della comunicazione verbale perché il destinatario la legge nel momento opportuno e poi, le parole sono più ponderate. Grammatica e sintassi servono a mettere ordine nelle emozioni — spiega la psicoterapeuta — a seguire un filo logico e quindi a evitare equivoci ed eccessi. Rispondere con un testo scritto e non con una sbrigativa telefonata, che può risultare molto inopportuna, risolve meglio la relazione e invita l’altro a fare altrettanto».
Esprimersi scrivendo è un valido aiuto nelle terapie familiari quando si manca di sicurezza in se stessi e quando in una relazione non si è riusciti a costruire un rapporto sicuro e si teme di non essere ascoltati, o peggio rifiutati. «La forma epistolare aiuta a cambiare il punto di osservazione su di sé e sugli altri. Nella nostra società dai ritmi convulsi, prendersi il tempo di scrivere una lettera dà peso a quel che si dice», ha raccontato Claire Debru, direttrice della collana «Les Affranchis» a Le Figaro che ha dedicato un servizio alle «Les lettre réparatrices pour guérir ses relations».
«Ci sono patologie per le quali al paziente viene indicato di tenere un diario, è il caso di disturbi psicosomatici, dei disturbi alimentari o della depressione», interviene Massimo Clerici, professore di Psichiatria all’università Bicocca. «Chiediamo di registrare i blocchi emotivi o le sensazioni di disagio, le difficoltà comunicative, appunti che poi diventano uno strumento per confrontarsi con il terapeuta».
Nella comunità parigina Aurore, a Aubervilliers, Suzie Longbottom definisce le lettere indispensabili nella cura delle dipendenze: «Le lettere più coinvolgenti sono quelle indirizzate alle sostanze. Rivolgendosi ad alcool o droga che tanta importanza hanno avuto nella loro vita, capiscono di esserne coinvolti come con una persona dominante».
Ma la lettera terapeutica funziona anche se scritta al computer e spedita per e-mail? «Oggi sempre di più la comunicazione scritta è facilitata dalle nuove tecnologie che sono l’unico modo per abbattere le barriere temporali e intercettare la richiesta di aiuto dei giovani: ci permettono di intervenire in tempo reale», conclude lo psichiatra Massimo Clerici.
Di tutt’altro parere Silvia Vegetti Finzi: «Con i mezzi tecnologici la comunicazione si fa astratta, meno personalizzata. La scrittura omologata di mail e social network ci rimanda a una presa di distanza. Più il gesto si allontana dal corpo più si raffreddano le emozioni, quelle del battito del cuore».
Concorda la poetessa Vivian Lamarque, che invita a scrivere per tempo auguri personalizzati, evitando i biglietti formali: «La mano è calda e fa più calde le parole e il bigliettino; l’inchiostro è come un sangue vivo azzurro, a volte incollo anche qualche ago di pino (o di rosmarino…) e bacche ecc, come nelle stufe, più legna metti più scalda; le parole non siano generiche, ricordino qualcosa di preciso, per esempio: a Angela che mi cuce così bene i bottoni anche all’ultimo minuto…».
http://27esimaora.corriere.it/articolo/ritornare-a-scrivere-anche-i-biglietti-di-natale/

 

VIDEO

Renato Brunetta sul governo Letta, 11 dicembre 2013

La citazione della psicoanalisi è dopo circa 1' e 40'' dall'inizio del filmato.

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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