Cinema e psiche: le storie che curano di Margherita Frantantonio

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14 gennaio, 2014 - 20:08

Freud non amava il cinema, e ancor meno la rappresentazione filmica della psicanalisi: “Non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione  plastica che si rispetti un po'”; Cesare Musatti invece, lo definisce suo fratello maggiore (è nato, il padre della psicanalisi italiana, appena due anni dopo). Ne subisce il fascino, lo tratta con dimestichezza, studia le analogie tra il film e il sogno, teorizza  identificazione e proiezione applicati allo schermo.  Un’altra  riprova di come tante rigidità del Maestro siano state poi superate dagli allievi.
 
A dispetto di Freud, infatti, tutto il Novecento ha visto molti psicanalisti interessati al cinema, fino ad applicare addirittura i loro paradigmi alla critica, così come succede per la letteratura; mentre molte regie sono influenzate dalle conoscenze psicologiche, soprattutto nella seconda parte del secolo (le suggestioni oniriche di Fellini, le battute efficaci di Woody Allen, il realismo magico di Bergman).
 
Le rispondenze tra i due fenomeni culturali più importanti del Novecento, approfonditi dagli intenditori della psiche e dagli appassionati del linguaggio cinematografico, sono molteplici e ricche di sfumature. Entrambi parlano all’inconscio, gli danno voce attraverso le immagini, e soprattutto sanno raccontare evocativamente. “Nessuna espressione artistica travolge la nostra coscienza allo stesso livello del film, perché giunge direttamente ai sentimenti, alle camere più oscure dell’anima”, sosteneva Bergman. Il film alimenta i nostri fantasmi, li acquieta, s’incontra con le nostre ombre, può soddisfare le pulsioni inconfessate, nella complicità, lo sappiamo, del buio in sala e nell’insistenza delle immagini “intense e fugaci” a definirle insieme a Metz.
 
E poi il cinema è un’instancabile inventore di storie ed è vero che le storie curano. La relazione terapeutica è  in fondo  la costruzione paziente di un romanzo non letterale, diverso da quello della vita che viviamo tutti i giorni. Una trama che per Freud era sempre un po’ la stessa, ripetuta in soggetti diversi, narrazione di genere poliziesco, di indagine, di suspance, semplice e complessa insieme. Jung si concentra di più sul protagonista, sul suo processo di individuazione, sui rimandi archetipici, e non sull’unico mito edipico di Freud. Per Hillman invece le storie cliniche spaziano tra diversi generi e stili narrativi ed è proprio questa varietà a rendere più efficace la terapia.
 
Ma le storie non curano solo sul lettino dell’analista o seduti simmetricamente di fronte ad uno psicoterapeuta di orientamento umanistico. Le storie curano perché esistono e noi le leggiamo, le vediamo, le assimiliamo, scartando ciò che non tocca le corde della psiche (o dell’anima) e trattenendo ciò che si vuole depositare: una sapienza selettiva, consapevole e inconsapevole insieme.
 
Per Gianni Canova, il cinema è “non solo attrezzo per fantasticare, ma anche uno strizzacervelli che ha favorito un po’ in tutti l’anamnesi e l’autoanalisi, portando a galla - sulla superficie dello schermo- i fantasmi e i cadaveri che ci portavamo dentro”. E’, poi, “territorio inevitabilmente relazionale”: “Non so se il cinema sia stato la nostra Sheherazade, e noi i suoi sultani. A volte ho come l’impressione che, al contrario, noi siamo stati le Sheherazade del cinema, e che al cinema abbiamo affidato ogni notte le nostre storie. Quelle che ci servivano ad allontanare lo spettro della morte, e a sentirci vivi”.
 
I legami tra cinema e psicologia non finiscono qui. Sullo schermo è comparsa sempre più spesso la figura del terapeuta, che a dirla con Senatore (una miniera di stimoli Ignazio Senatore!) nel suo L’analista di celluloide, è rappresentata il più delle volte come una persona più irrisolta dei suoi stessi pazienti. “Sono uomini che non riescono a mettere ordine nella loro vita privata. Tutti i terapeuti che compaiono sullo schermo sono single affranti ed infelici o individui reduci da separazioni o divorzi”.
 
Nel nuovo millennio, però, le cose sembrano cambiate.
 
Già in Confidenze troppo intime (2003) di Patrice Leconte, l’analista improvvisato che è Fabrice Luchini potrebbe sembrare una parodia o volerci dire che in fondo un setting vale un altro, ma il professionista vero, un po’ il suo supervisore, non sembra affatto una persona sprovveduta, e forse sono le sue “dritte” a far sì che il finto analista continui nella finta terapia, fino ad averne grandi benefici, lui e la donna che è lì per errore, ma che come un fiume parla di sé.
 
Il terapeuta di  Emotivi anonimi (2010. Regia: Jean-Pierre Améris) ha un approccio diverso. Dà al protagonista maschile compiti strategici, e, se non lo guarisce dall’eccesso di timidezza, lo aiuta a trovare il coraggio di iniziare una relazione amorosa. Con molta fatica ed imbarazzi, ma va bene così. Sarebbe poco credibile che le sedute facessero di lui un esperto amatore e disinvolto, sicuro, dopo le goffaggini con cui lo abbiamo conosciuto.
 
Il dottor Brezzi (Nanni Moretti) di Habemus papam  (2011) è, sì,  alquanto improbabile e lo è ancora di  più  il setting alla presenza di tutti i cardinali. Ma la moglie (Margherit Buy) che appare così irrigidita nel suo continuo ritornello del “deficit di accudimento” riesce a accelerare la presa di coscienza del Papa, che solo dopo gli incontri con lei, decide di confondersi con la compagnia di teatranti, rivivere la sua passione giovanile ripetendo per intero Il gabbiano di Cechov e tornare in Vaticano per la sua scelta definitiva.

Nel più recente Il matrimonio che vorrei (2012) di David Frankel il terapeuta ha ideato un suo protocollo che funziona e nel quale si trova perfettamente a suo agio. Le coppie vanno e tornano da lui e anche i protagonisti del film risolvono il loro problema, quello dell’intimità, nonostante il marito sia recalcitrante per buon parte del trattamento. Fortissime le sue ostilità verso “il ciarlatano”; fortissima la sua convinzione che  “anche quando vai in terapia senza problemi, ne uscirai con dei problemi, perché ti toccherà dire cose che non si possono ritrattare”.
 
Sembra comunque essersi spostato il fuoco, dal terapeuta alle persone in cura, dal lettino alla poltrona (però che bella l’ultima scena di Confidenze troppo intime con il divano ripreso dall’alto!). Mentre le resistenze dei pazienti cinematografici, insieme agli impacci dei terapeuti, per fortuna diminuiti nelle recenti pellicole, ci aiutano a sorridere dei luoghi comuni, ancora così duri a morire nella società del dopo Duemila.

 
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