Luigi Benevelli: La nascita del manicomio criminale, dal manicomio criminale all’ospedale psichiatrico giudiziario: evoluzione storica e culturale

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6 aprile, 2014 - 16:16

 

Fra i delinquenti e quelli creduti tali ve n’ha
di molti che, o sono, o furono sempre alienati,
per cui la prigione è un’ingiustizia, la libertà
un pericolo, e a cui mal si provvede da noi con mezze
 misure, che violano a un tempo la morale e la sicurezza.
 
Cesare Lombroso, Sulla istituzione dei manicomi in Italia, 1872
 
 
Una prima premessa:  A proposito dell’attribuzione di una determinazione genetica del disturbo mentale
 
Marcello Buiatti- genetista del comportamento dell’Università di Firenze ci dice che i geni necessari perché un essere umano possa dirsi tale non sono più di 23.000, poco più di quelli di un nematode; le proteine prodotte sono intorno a 140.000. I nostri pensieri e sentimenti si formano nei nostri cervelli che contano cento miliardi di neuroni capaci di combinarsi un milione di miliardi di diverse connessioni e formare così un numero incredibile di pensieri, sentimenti diversi.  Questa è una caratteristica solo umana, ma quello che non viene mai detto a sufficienza è che le unioni fra neuroni (le sinapsi) sono frutto delle interazioni fra individui che materialmente le modificano in ogni momento delle nostre vite. In particolare sappiamo che alla nascita le sinapsi sono disposte in modo “quasi casuale” e si organizzano poi nei primi 3-4 anni di vita sulla base dei segnali che le bambine e i bambini ricevono dagli altri esseri umani.
È per questo che gli umani, a differenza degli altri animali, sono capaci di cambiare attivamente  gli ambienti invece di essere selezionati in modo passivo dal contesto sulla base della variabilità genetica che non a caso è pochissima (il razzismo non ha basi scientifiche).
Fondamentale per usufruire di questa capacità di variabilità mentale è lo scambio di informazioni, reso possibile solo a noi da alcuni geni che ci hanno permesso di articolare, ricevere, elaborare i segnali dei nostri simili, in modo incredibilmente superiore a quanto possano fare gli altri animali. Questa capacità di accumulare moltissima informazione nello scambio fra individui diversi ci rende umani e ha un ruolo importantissimo nelle nostre vite e per la nostra felicità.
Per queste ragioni, commenta Buiatti, le persone internate non stanno bene, anche nel corpo e la libertà è terapeutica.
Alle tesi di Buiatti si contrappongono quelle (v. numero 1/2014 di «Micromega»; v. il «Domenicale» de il Sole 24 ore del 23 febbraio scorso) di chi ritiene che all’intersezione fra neuroscienze, etica e diritto, alla luce delle acquisizioni delle neuroscienze, “nessuno di noi è mai moralmente responsabile” perché gli effetti combinati di geni e ambiente condizionano  tutte le nostre azioni”. In ragione quindi di una concezione deterministica dell’agire umano, continuano ad essere radicalmente messi in discussione i concetti di responsabilità, colpa, retribuzione, merito, libero arbitrio.
 
Una seconda premessa: Le culture scientifiche e professionali degli psichiatri italiani
 
Con l’affermazione in Europa e Nord America della medicina scientifica, si andarono costituendo le specialità mediche moderne, che nacquero per una grande attenzione ai problemi sanitari da risolvere più che per essere già in possesso di efficaci  soluzioni (terapeutiche)- v. ad esempio la pediatria e la questione della mortalità infantile.
Ferruccio   Giacanelli ha osservato (1974) che, a differenza della neurologia, sorta come disciplina squisitamente medica, la psichiatria è partita dalla separazione fisica, ambientale,  radicale fra i propri pazienti, gli alienati, e gli altri malati, obbedendo a una spinta più sociale che naturale. La psichiatria, affermatasi  fra il XVIII e il XIX secolo con l’operazione della razionalizzazione manicomiale ha avuto  e preteso come dato peculiare, sin dalle origini, un forte impianto organizzativo, istituzionale, accademico, politico, parlamentare; per operare ha richiesto leggi, regolamenti, misure amministrative e di polizia che definissero lo spazio entro cui esercitare l’attività medico-scientifica. Il costruirsi e l’evolversi della questione manicomiale, nelle sue specificazioni civile e criminale, ne sono un esempio paradigmatico.
L’origine dei manicomi criminali ha una ragione culturale nel positivismo psichiatrico ( e giuridico) italiano (che classifica, cataloga, differenzia) e una ragione nella ricerca di nuovi ambiti da parte del potere medico psichiatrico, tesa a portare nelle proprie competenze la maggior quantità possibile di devianza, conquistando spazi, nel nostro caso,  in quelli gestiti dal potere giudiziario.
La cultura professionale degli psichiatri italiani dalla seconda metà dell’Ottocento fino al  fascismo rimase largamente fedele alla tradizione, ancorata alla clinica, al modello medico classico e al suo fondamento biologico declinato o in senso “neurologico” o in quello “bioumorale”, in continuità con l’affermazione dell’organicismo sullo spiritualismo avvenuta nell’Ottocento. Pesarono le nozioni di degenerazione (Morel, 1809-1873), della trasmissione delle tare  per via ereditaria, la messa in relazione di mutua causalità delle condizioni morali, mentali e somatiche della persona, l’impegno nella missione civile del contrasto alla diffusione dei tratti patologici della popolazione. In conseguenza di tale approccio la psichiatria, in quanto scienza e pratica a tutela delle popolazioni più che dell’individuo, si occupò e pre-occupò meno di curare e guarire l’alienato e più della difesa sociale.
Il positivismo lombrosiano aveva fatto proprio il modello clinico e neuropatologico come strumento per un’ indagine antropologica che consentisse di entrare nel campo delle scienze umane e sociali[1]. La  psichiatria poteva definirsi scienza in quanto si fondava su basi anatomo-istologiche, su fondamenti tecnico-scientifici a carattere organicistico,  per nulla disposta ad allontanarsi dalla biologia verso le incertezze epistemologiche della psicologia.
Al riguardo, un dato che sarà sempre presente nella psichiatria italiana, sia quella accademica che quella manicomiale, sono l’ostilità, il rifiuto alle sollecitazioni che vengono dalla psicoanalisi in nome del paradigma biologico neuropsichiatrico. Del tutto minoritario rimase l’approccio di tipo psicologico (Giulio Cesare Ferrari, Sante De Santis, Agostino Gemelli).  Tutto questo durerà fino alla affermazione della “psichiatria di comunità”negli anni ’60 della seconda metà del XX secolo.
La parte più aperta al “sociale” degli alienisti italiani che operarono fra XIX e XX secolo,  attraverso i temi dell’igiene mentale e della prevenzione si orientò verso discipline quali l’antropologia fisica, fino a esporsi e contaminarsi con l’eugenetica e il razzismo. 
Gli alienisti positivisti, a  servizio della Difesa sociale, si dedicarono allo studio del criminale come definito e selezionato dagli apparati di controllo sociale, facendolo diventare un malato sociale da curare e da cui difendersi (misura di sicurezza) e non da punire. La decisione sul destino del criminale avrebbe dovuto dipendere dalla diagnosi,  affidata alla competenza del medico.
Gli psichiatri italiani della generazione successiva, nella prima metà del Novecento, si formarono sul Trattato delle malattie mentali di Tanzi e Lugaro, Milano 1905, che aveva segnato una rottura con la psichiatria lombrosiana, lontano dal pericoloso sconfinamento nella politica e nel sociale, come era accaduto al positivismo contiguo alle idee socialiste. Gli psichiatri si confinarono nei manicomi e nelle cliniche universitarie e chiudendosi in una collocazione squisitamente medica.
Con l’affermarsi del regime  fascista, la salute da condizione individuale “privata” tende a diventare  questione di interesse “politico” dello Stato; i temi posti dalle teorie eugenetiche e dalla questione razziale, fino alla sua declinazione nel Razzismo di Stato con la guerra di Etiopia e la legislazione razziale del 1938, trovarono un punto di arrivo “autarchico” nella biotipologia umana o ortogenetica di Nicola Pende (1890-1980)[2].
Israel e Nastasi hanno affermato che la scuola di medicina costituzionalistica può, a buon titolo, essere considerata come una versione italiana dell’eugenica[3]. Il costituzionalismo nato con Achille De Giovanni, cultore dell’antropometria che concepiva come una scienza di precisione prossima  al metodo matematico e fautore del principio secondo cui a una data morfologia esterna corrisponde una specifica morfologia interna, si sviluppò con la morfologia di Giacinto Viola (1870-1943), basata sulla classificazione tipologica delle individualità umane. Secondo il costituzionalismo,la forma clinica assunta da una determinata malattia non era data esclusivamente dalla caratteristiche fisiopatologiche della malattia stessa, ma era determinata dalla morfologia dell’individuo che ne era affetto. [ …]
La medicina costituzionalista riprende dal Lombrosismo la nozione di “predisposizione”: la costituzione è una predisposizione individuale,  mentre, secondo le teorie  “reazioniste”, salute e malattia  sono reazioni in risposta a stimoli esterni. Pende  aveva elaborato  una biotipologia umana[4]  in cui a ciascun biotipo (l’insieme e la correlazione fra aspetto morfologico, umorale, dinamico, morale, intellettivo) corrispondeva non solo una predisposizione alla malattia fisica, ma anche, un carattere, un temperamento, un certo pensiero e di conseguenza una inclinazione psicopatologica. [ …] Questo indirizzò una parte della psichiatria italiana verso la categorizzazione della predisposizione alla malattia mentale che avrebbe dovuto permettere sia una azione preventiva orientata verso l’eugenetica, sia un’azione terapeutica e prognostica[5].
Nel contesto di queste culture scientifiche il manicomio criminale confermava per la sua stessa esistenza l’assunto,  consacrato nella legge manicomiale del 1904, della pericolosità della follia e del conseguente compito custodialistico e di difesa sociale della psichiatria.
 
La nascita del manicomio criminale
 
Fra gli anni ’70 e ’90 dell’Ottocento si fece strada fra gli psichiatri l’opportunità di istituire  i manicomi criminali, per la custodia di persone prosciolte per infermità mentale, persone impazzite in carcere, criminali pericolosi e recidivi. Vi  lavorano in particolare Cesare Lombroso, Augusto Tamburini, Gaspare Virgilio, Enrico Ferri, medici, alienisti, scienziati, penalisti positivisti impegnati nella costruzione della Nazione nel da poco costituito Regno d’Italia[6]. Li ispira la finalità di promuovere una efficace difesa sociale dai pericoli delle anormalità e dei comportamenti aberranti, contenuti non solo nei manicomi, ma anche nelle carceri, all’intersezione fra sistema penitenziario e sistema manicomiale.  Il manicomio criminale nasce dalla proposta di internare persone dal comportamento indisciplinato, sediziose  provenienti dalle carceri e di quelle definite “folli morali”, agitatori e fomentatori di rivolte provenienti dai manicomi; il folle così come il delinquente sono mentecatti (non hanno la mente libera).
La  prima “Sezione per maniaci” nasce ad Aversa, all'interno della locale casa penale per invalidi, istituita con un atto amministrativo autonomo della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena diretta da Beltrami Scalia. Poteva ospitare diciannove persone nell'ex convento del Cinquecento di San Francesco da Paola. lo psichiatra Filippo Saporito, il “padre” vero e proprio del manicomio giudiziario di Aversa che diresse dal 1907,  così spiegava giustificava la scelta:
Accadeva che ogniqualvolta l’Amministrazione della giustizia e quella delle carceri si facevano a bussare alle porte di un manicomio comune, per chiedere ospitalità pei delinquenti impazziti, non ne ottenevano che rifiuti. Quei speciali inquilini, nei manicomi comuni, andavano a rappresentare scene di terrore, che vi portavano lo scompiglio.
Ma l’azione degli alienisti positivisti non ebbe riconoscimento formale, ufficiale nell’Italia liberale, come mostra la vicenda del Codice Zanardelli, pur riuscendo a costruire “dati di fatto”, con il consenso di parte dell’amministrazione penitenziaria: sempre lo stesso Beltrami Scalia, direttore generale delle carceri, infatti forzò il testo del codice Zanardelli e nel 1891 introdusse il manicomio criminale nel Regolamento per accogliere:   

  • detenuti impazziti dopo condanna a pena superiore a 1 anno
  • prosciolti per totale infermità mentale
  • giudicabili mandati in Osservazione dall’autorità giudiziaria

L’istituto tra il 1891 e il 1904, ebbe una duplice direzione, sanitaria e amministrativa, poi solo sanitaria.
Lo scontro fra la scuola positiva e la scuola classica di diritto penale[7] si trascinò fino al Codice Rocco che con l’adozione della “misura di sicurezza” al posto della pena e l’internamento al posto della detenzione in carcere, legittimò pienamente la coercizione per cura del “reo folle” in nome della difesa sociale.
Prima della istituzione dei manicomi criminali,  nei manicomi “civili” vi erano reparti per agitati e pericolosi e nelle carceri celle e bracci per coloro che erano impazziti.
Va sottolineato che tratto caratteristico della “questione manicomi giudiziari”, dalla loro istituzione, alla loro gestione, alle sue successive regolazioni ed ora al come e al se della loro chiusura è costituito dalla povertà di attenzione,  dalla posizione marginale occupata a livello istituzionale, e nel dibattito giuridico e psichiatrico e da un andamento che si potrebbe definire simile a quello di un fiume carsico: si sa che esiste, scorre, appare e riappare, non sempre è visibile.
Il manicomio giudiziario[8]: come un fiume carsico
Il manicomio giudiziario comincia a funzionare, in base a una semplice deliberazione amministrativa dell’amministrazione penitenziaria , ad Aversa nel 1876. Seguiranno  (Montelupo Fiorentino nel 1892, poi Reggio Emilia e Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto nell’immediato primo dopoguerra. Il Codice Zanardelli del 1889, che prevedeva solo il proscioglimento per “infermità mentale”, non ne parla, ma se ne occupò invece, come abbiamo visto,  il Regolamento generale carcerario (regio Decreto 260, 1 febbraio 1891)  agli articoli da 469 a 480 Disposizioni speciali per i manicomi giudiziari,   stabilimenti speciali per la “repressione e cura dei condannati colpiti da alienazione mentale.
Non li cita la “legge manicomiale” del 1904, ma il secondo comma dell’articolo 1recita: Sono compresi sotto questa denominazione [di manicomio, N.d.A], agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere, sancendo, nota Michele Miravalle,   la forte omogeneità con cui si affrontano le discipline dei malati di mente autori di reato e di quelli non autori di reato
Il 1904 si chiude con la decisione del direttore generale delle carceri Alessandro Doria (RD 5 settembre 1904)di affidare la direzione dei manicomi giudiziari agli alienisti, sottraendola alla subordinazione degli stessi ai direttori amministrativi.
 E’ il  Codice Rocco per la prima volta a legittimare i m.g. pienamente nel 1931 in una legge del Regno. Il  Codice Rocco fonde nel segno della repressione le indicazioni della scuola classica (la punizione) e quelle della scuola positiva  (misura di sicurezza, difesa sociale) applicandole allo stesso soggetto e per lo stesso reato. La pena colpisce il reato; la mds, cioè la privazione della libertà personale a scopo di cura e/o rieducazione-lavoro è inflitta alla persona giudicata “socialmente pericolosa”. Il Codice Rocco assume la presunzione di persistenza della pericolosità per il tempo corrispondente alla durata del ricovero, a partire da quella minima; mentre la pena ha una funzione afflittiva, la mds  è ritenuta un mezzo per la rieducazione  degli internati tramite le cure mediche e l’isolamento con una doppia esclusione (carcere + manicomio) e una radicale deprivazione/disconoscimento dei diritti anche rispetto a quelli riconosciuti ai detenuti. La scelta è motivo di vanto per il Fascismo.
Nel 1941 gli internati nei manicomi giudiziari  raggiunsero il numero massimo di 3432.
L’entrata in vigore della Costituzione nel 1948 non porta modificazioni nell’assetto dei manicomi giudiziari. La Costituzione contiene due articoli, il 27 e il 32 che danno forti e chiare indicazioni: sono i due articoli che più influenzeranno il dibattito successivo e soprattutto le decisioni della Corte Costituzionale. L'art. 27 statuisce: «La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». L'art. 32 riguarda il diritto alla salute e dispone: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Nel 1956 sono soppresse le sezioni giudiziarie di Imola e Volterra; nel 1975 è chiusa quella di Pozzuoli. Da quell’anno rimangono aperti gli opg di Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Barcellona (ME), tutti a gestione diretta da parte del Ministero della Giustizia, e le Sezioni OPG di Castiglione d/S. (MN) in convenzione col locale Ente Ospedaliero, poi USSL, ora Azienda Sanitaria Ospedaliera della Regione Lombardia. Le sezioni opg di Castiglione d/S. sono sempre state gestite come un vero Ospedale Psichiatrico e non vi opera personale di custodia.
Nel 1968 è approvata la legge 431 le cui disposizioni si ispirano al rispetto della personalità, della libertà, e del diritto alla salute: si introducono la possibilità di ricovero volontario in manicomio civile su richiesta del malato (art. 4) e l'abolizione dell'obbligo di annotazione sul casellario giudiziale dei provvedimenti di ricovero definitivo disposti dal magistrato.  La persona con disturbo mentale vede così riconosciuto il proprio diritto,  già sancito dall'art. 32 Cost., ad essere curato per quella che smette di essere considerata un'infamia, per essere riconosciuta come una malattia. Si cessa di ritenere la pazzia come una disgrazia ineluttabile e assolutamente incurabile e il malato come un potenziale criminale, un irresponsabile da isolare dalla comunità; si inizia invece a considerare la prima come una malattia da prevenire e da curare e il secondo come persona da rispettare e di cui prendersi cura nella tutela della sua dignità e con il suo consenso. Si  creano i Centri e Servizi di igiene mentale territoriali con funzioni preventive e curative per tutti coloro che ne abbiano bisogno e ne facciano richiesta volontaria; la territorializzazione del disagio psichico per la prima volta trova così accoglienza giuridica all'interno del nostro ordinamento. Ciò detto, anche la legge 431 non si espone in merito ai manicomi giudiziari.
Il nuovo ordinamento penitenziario (la legge 354/75 “ Legge Gozzini”) conferma il manicomio giudiziario come struttura di carattere carcerario, ne cambia il nome in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, citandolo all’articolo 62 fra gli Istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, insieme a Colonie agricole, Case di lavoro, case di cura e custodia; garantisce parità di condizioni di vita e di esercizio dei diritti  fra detenuti e internati, pone limiti all’uso di mezzi di coercizione. 
Nel 1975 due sentenze della Corte Costituzionale modificano alcuni aspetti della normativa; tra il 1977 ed il 1978 si avviano esperienze di trattamenti in alcuni Ospedali Psichiatrici Provinciali a seguito di convenzioni fra Amministrazioni Provinciali e Ministero della Giustizia. La legge 180  del 1978 bloccherà gli ingressi negli ospedali psichiatrici provinciali, interrompendo tali esperienze.
La grande riforma della psichiatria “civile”, la 180/78 non dà indicazioni in tema di trattamento del paziente autore di reato e l’opg quindi resta in vita, ma si aprono grandi contraddizioni dal versante della salute mentale dei soli pazienti autori di reato lasciata ad una gestione carceraria e manicomiale.
La sentenza 139/82 della Corte Costituzionale stabilisce che la valutazione della pericolosità sociale si deve basare sull’accertamento al momento del giudizio o dell’applicazione della m.s. rendendo possibile evitare l’ineluttabilità dell’internamento in OPG una volta avviato un procedimento penale contro un cittadino con disturbi mentali.
La legge 633/86 stabilisce che la m.d s. si applica previo accertamento della pericolosità e restituisce al Giudice di Sorveglianza il potere di revoca anticipata della m.s.
Anche il Dlgs 230/99 “Riordino della medicina penitenziaria” non contiene indicazioni esplicite e specifiche circa l’organizzazione delle attività di tutela della salute mentale nelle strutture penitenziarie italiane, opg compresi.
Invece, il p.o. nazionale “Tutela della salute mentale 1998-2000” segnala fra gli aspetti problematici della gestione della salute mentale “la realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari” definite “situazioni di istituzionalizzazione non toccate dal processo di superamento degli ex-OP”. Agli inizi di questo XXI secolo il tema dell’opg  si connette sempre più a quello della salute mentale in carcere.
Con il p.o. nazionale “Tutela della salute in ambito penitenziario” (Decreto 21 aprile 2000- G.U. n. 120, 25 maggio 2000) il Ministro della Sanità ed il Ministro della Giustizia, in applicazione del Dlgs 230/99, emanano norme per la garanzia del diritto alla salute, anche la salute mentale, dei detenuti e degli internati[9].  In particolare per la tutela della salute mentale, il p.o. propone che  il DAP assegni le persone con disturbi mentali ad istituti posti nella regione di appartenenza; la  collaborazione fra DAP e DSM per la definizione di interventi terapeutici e riabilitativi a favore degli internati negli OPG e che in ogni istituto penitenziario siano attrezzati spazi per le attività di riabilitazione.
Ma ancora il 18 gennaio 2006, il dr. Sebastiano Ardita nell’audizione presso la XII Commissione Sanità del Senato affermava:
Nella realtà complessiva dei sei ospedali, che conta all’incirca 1.500 presenze, vi e` il problema di come gestire il dopo. Il progetto individuale di trattamento, che nel caso specifico e` volto non soltanto a fronteggiare le problematiche di natura psichiatrica, ma anche a trovare una collocazione nel contesto di ritorno alla vita normale e alla vita sociale, risente di un problema rilevante: in certe circostanze per l’oggettiva situazione di disagio e abbandono in cui si trovano queste persone e` difficile trovare una collocazione sul territorio.
Questa circostanza, al di fuori di possibili diverse letture, comporta una replica della «condizione contenitiva» del luogo di cura psichiatrico, sia pure intendendo questo luogo come posto in cui si viene rinchiusi per scontare una misura di sicurezza. Di fatto, un soggetto che si trova in un ospedale psichiatrico giudiziario e ivi sottoposto a misure di sicurezza – che come sapete sono un provvedimento a termine – nel momento in cui viene dimesso deve fare i conti con la disponibilita` nel territorio di un eventuale nucleo familiare o sociale in grado di accoglierlo.
In più circostanze e` accaduto – fatto da noi più volte denunciato – che soggetti che non erano in condizione di essere accolti all’esterno abbiano finito per vedersi prorogare le misure di sicurezza. Infatti, rispetto alla condizione di «pericolosità sociale», il fatto di non avere un luogo di accoglienza all’esterno dell’istituto o un nucleo sociale stabile di riferimento ha comportato una diagnosi negativa da parte del medico chiamato a svolgere la valutazione sulla pericolosità del soggetto. La conseguenza e`che lo Stato si vede costretto a trattenere un soggetto per il solo fatto che non ha un luogo di ricovero all’esterno.
 
Come già ricordato, le norme del codice penale in materia di imputabilità non sono state sinora modificate dal Parlamento e in questi anni sono state solo parzialmente corrette a seguito degli interventi della Corte Costituzionale. oltre a quelle citate, fra le più recenti:

  • la sentenza n. 253/2003 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 222 c.p. nella parte in cui non consente al giudice di adottare, in luogo del ricovero in opg, una misura di sicurezza diversa, idonea ad assicurare cure adeguate all'infermo di mente[10];
  • la sentenza 367/2004 ha dichiarato illegittima la norma di cui all’articolo 206 c.p. che in applicazione della misura di sicurezza imponeva il ricovero in opg dell’imputato nella fase cautelare, impedendo al magistrato di valutare altre e diverse misure per motivi terapeutici o di controllo.

Tali sentenze hanno affidato ai Dsm nuove e più alte responsabilità circa la scelta dei luoghi e dei modi del trattamento del paziente autore di reato.
Nel 2005 la sentenza n. 9163 delle Sezioni Penali riunite della Corte di Cassazione ha argomentato intorno alla definizione di infermità mentale, alla crisi dei modelli psichiatrici e all’uso della categoria diagnostica di borderline, riconoscendo la non imputabilità delle persone con disturbo di personalità. La sentenza ha provocato l’aumento degli invii in opg.
E anche dopo  lo scandalo suscitato dalla denuncia di Ignazio Marino, si sono succeduti decreti e leggi, ma soprattutto sono prevalse le proroghe.
Ieri a Roma è stato presentato il documento della Società italiana di psichiatria Superamento degli opg e assistenza psichiatrica nelle carceri” dalle misure di sicurezza alla sicurezza delle cure: finalmente una posizione netta a favore dell’abolizione delle misure di sicurezza psichiatriche.  A conferma dell’andamento da  fiume carsico del  manicomio giudiziario.
 
Trieste, 13 marzo 2014

Bibliografia
 
Francesco Paolella, Alle origini del manicomio criminale, «Rivista sperimentale di freniatria», vol. CXXXV, 1, 2011, 33- 42
Renzo Villa, “Pazzi e criminali”: strutture istituzionali e pratica psichiatrca nei manicomi criminali italiani (1876-1915), «Movimento operaio e socialista», 1980, 369-393
Romano Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’Unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1975.
Francesco De Peri, Il medico e il folle, Torino, Storia d’Italia Einaudi, Annali 7, 1984, 1057-1140.
Ferruccio Giacanelli, L’equivoco della neuropsichiatria, «Inchiesta», 1974, Luglio-settembre, pp. 55-76.
 Il medico, l’alienista in Lombroso C. Delitto, genio, follia: scritti scelti, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 135-198.
Marina Valcarenghi, I manicomi criminali, Mazzotta, 1975.
Paolo Peloso, La guerra dentro,  Verona, Ombre corte, 2008.
Guido Neppi Modona, Legislazione penale, Firenze, 1978
Senato della Repubblica-XIV legislatura- 12° Commissione Resoconto Stenografico (18 gennaio 2006. Audizione del ministro della sanità Francesco Storace e del dr. Sebastiano Ardita
Vittorino Andreoli,
Michele Miravalle, La riforma della sanità penitenziaria: il caso Ospedali Psichiatrici Giudiziari, Tesi di laurea
Dell'Aquila Dario Stefano, Se non t'importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, Filema Edizioni, Napoli, 2010.
Guido Neppi Modona, Legislazione penale, Firenze, 1978
 



[1] Francesco De Peri, Annali 7, 1984, p. 1088
[2] Nicola Pende e Arturo Donaggio, presidente delle Società italiana di psichiatria, sottoscrissero  il Manifesto  degli scienziati razzisti dell’estate 1938
[3] G.Israel, P. Nastasi,  Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 136.
[4]  Pende distingue 4 biotipi base: longilineo stenico; longilineo astenico; brevilineo stenico; brevilineo astenico (137-138).
[5] A dare un’idea del peso e del prestigio delle teorie costituzionaliste  negli anni del fascismo cito il fatto che la sezione “Scienze Mediche” dell’Enciclopedia italiana di Giovanni Gentile  fu diretta da Nicola Pende e da Giacinto Viola, e che in essa furono incluse le voci relative alla psichiatria. v. Andrea Piazzi,, Gioia Piazzi, Luana Testa, Maria Antonietta Cocconari De Fornari, La rappresentazione della psichiatria italiana nella Enciclopedia Italiana Treccani degli anni Trenta, « Medicina nei secoli. Arte e scienza», 25/2, 2013, 541-564.
[6] Gli scienziati positivisti  sono impegnati in un approccio “positivo”, “sperimentale”, “scientifico” alla costruzione della nuova scienza freniatrica secondo a un “modello clinico e neuropatologico  strumento di indagine antropologica per entrare nel campo delle scienze umane e sociali”, v. De Peri (1984), p. 1088.
 
[7] Per la Scuola classica l’uomo è libero nella scelta delle proprie azioni; la responsabilità morale  è a fondamento del diritto penale (concezione etico-retributiva della pena, pena proporzionata alla gravità del reato).
Per la Scuola positiva- (il positivismo metodologico; in opposizione al postulato del libero arbitrio afferma il principio del determinismo causale: il reato interessa come fatto  che trova spiegazione nella struttura biopsicologica  del delinquente, espressione della pericolosità del soggetto; pena con funzione di prevenzione; mds al posto della pena retributiva.
La Scuola positiva concentra l’attenzione sulla personalità e sui condizionamenti bio-psico-sociali del delinquente, ma de-responsabilizza l’individuo, mette in discussione le garanzie di legalità e di certezza delle norme in nome della difesa sociale. (v. Guido Neppi Modona, Firenze, 1988).
[8]  L’istituzione di cui stiamo parlando ha cambiato nome nell’arco della sua esistenza: è battezzata  come manicomio giudiziario nel 1891; diventa manicomio criminale nel 1909, ospedali psichiatrici giudiziari nel 1975, (Renzo Villa, op. cit., 1980).
 
[9] Nella relazione introduttiva è affermato che su 50.000 persone detenute, oltre 4.000 sarebbero “sofferenti di turbe psichiche anche molto gravi”; le patologie psichiatriche si collocherebbero, nell’elenco delle patologie, al secondo posto per diffusione dopo quelle infettive. Gli obiettivi di salute indicati riguardano sia i detenuti sia gli internati, quindi anche la popolazione degli opg. E’ riconosciuto che il carcere “è causa di rischi aggiuntivi per la salute fisica e psichica dei detenuti, degli internati e delle persone addette alla sorveglianza ed all’assistenza”, è posta enfasi sui programmi di prevenzione primaria volti alla riduzione o alla rimozione della sofferenza. Il p.o. affida alle ASL la predisposizione dei programmi di prevenzione primaria e di educazione alla salute con particolare riguardo a malattie infettive e parassitarie, prevenzione tossicodipendenza, alcooldipendenza, sofferenza mentale, e dei programmi di prevenzione secondaria - screening delle malattie infettive e psichiatriche. L’Azienda Sanitaria Locale, sede di istituti Penitenziari ha inoltre il compito di garantire le cure sanitarie dei detenuti e degli internati, l’organizzazione dei percorsi terapeutici, la continuità assistenziale, l’appropriatezza e la qualità delle prestazioni. Fra le aree di intervento è collocata quella della “tutela della salute mentale”: sono segnalati i problemi dell’autolesionismo e della protesta e quello di un’adeguata presa in carico delle situazioni in collegamento con i servizi di salute mentale, raccomandando il superamento della separazione fra carcere e territorio. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi è’ previsto che fino a 200 detenuti si debba attivare un servizio sanitario multiprofessionale nell’ambito del distretto socio-sanitario; che da 200 fino a 700 detenuti sia costituita una Unità Operativa multiprofessionale; oltre 700 detenuti un Dipartimento strutturale.
 
 
[10] La norma annullata disponeva il ricovero obbligatorio e automatico in opg dei maggiorenni autori di reato con vizio totale di mente e socialmente pericolosi. Di grande rilievo sono le argomentazioni a sostegno dell'importante sentenza:
1) La misura di sicurezza da applicare a seguito dell'accertamento della pericolosità sociale nei pazienti psichiatrici autori di reato risponde alle esigenze di garantire insieme la cura e la tutela della persona e il contenimento della pericolosità sociale;
2) L'esigenza di tutela della collettività non può mai giustificare l'adozione di misure che siano di danno alla salute del paziente.
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