CLINICO CONTEMPORANEO
Attualità clinico teoriche, tra psicoanalisi e psichiatria
di Maurizio Montanari

Pazienti resistenti.

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9 febbraio, 2015 - 21:56
di Maurizio Montanari

L'accostamento psicoanalisi e resistenza può apparire quantomeno strano.
Chi si occupa di psicoanalisi è sempre stato visto come piuttosto distaccato dal legame sociale, intento a costruire torri d'avorio nel cui interno racchiudere la propria adesione a talune forme di pensiero, vissute come religione.  Lo psicoanalista  non è mai stato equiparato ad un resistente, nel senso più nobile della parola, semmai un contabile del disagio che , utilizzando gli strumenti clinici  e teorici, mette sul lettino delle persone per estrapolarne la cifra. Chi orienta la propria pratica alla prospettiva psicoanalitica, da allo statuto della parola il valore di unico parametro soggettivo. Quel che il soggetto dice, è. Il resto è un elemento accessorio. Per questo tanta importanza hanno i deliri nella paranoia.
 L’obbiettivo primario di un ascolto analitico è quello di fare piazza pulita delle convenzioni, dei costumi, di quel che è per la società normato. Non è dunque guarire.
 La verità del soggetto esce con fatica, in seduta, questo perché è spesso necessaria una opera di spoliazione e smaltimento delle vesti stratificate con le quali l’individuo giunge.
 L’Io del singolo non è, per Lacan, che un accozzaglia progressiva di identificazioni, le quali avvinghiano  il soggetto e lo portano a declinare la sua esistenza secondo quelle che sono le consuetudini.
 
 Il soggetto arriva in seduta nel momento in cui questo soprabito incontra un limite, e la sofferenza indica l’inizio della resistenza.
 Quando il meccanismo si inceppa, quando questa sovrastruttura si incaglia in un qualche inciampo, si crea una fenditura che mostra dove il soggetto è nascosto.
 Il soggetto della psicoanalisi è qualcosa di sotterraneo, è un elemento che si trova in una catena di significanti.  Lo scorrere della catena di questi significanti mi dice del soggetto. Ma nessuno lo esaurisce.
 Il sacerdote con la infinita parata delle sue maschere che scorrono in  seduta,  trova la forza di dire ‘ io amo una donna. Quella donna’.
 Quella e nessun altra.
 Questa è la verità del soggetto, che si è fatta strada magari dopo un lungo percorso di tormenti, angosce, sintomi, crisi di panico. 
 E a quel punto, solo a quel punto, lui deve scegliere. Dare forma al proprio desiderio, oppure castrarsi e reimmettersi nella normale catena di cose che lo sostengono. Cioè omologarsi.  
 Il novello tenete, dopo anni di accademia, sta male.
 In seduta dice di non voler fare quel giuramento. Perché il suo vero desiderio, è quello di fare il musicista. Egli è solo un piccolo nodo di una lunga catena vecchia di 5 generazioni di militari che hanno seguito con successo la carriera militare. Con questa alternanza: generale, colonnello, generale, colonnello. Una metodica obbedienza all’Altro che lui sceglie  di infrangere. Paga questo desiderio con il respingimento da parte della sua famiglia, il distacco dalla sua fidanzata. Paga con la solitudine che ogni desiderio comporta. Paga con l’onta dei suoi amici. Paga dicendo non alla catena di figuranti che , nella vita di un cadetto, devono esserci per individuarlo. Prima di diventare un musicista, e scoprire la sua omosessualità, passa anni di solitudine torrida, nella quale era solo con il suo desiderio, scolpita nella stanza del suo analista. Anche questo uomo, resiste e dice no alla omologazione.
Il periodo attuale, contrassegnato da quella che si definisce il tramonto  della Legge, l’apertura al godimento sfrenato e generalizzato evaporazione’ del Nome del Padre’, porta a vivere come ‘anormali’, e dunque stigmatizzanti, comportamenti riconducibili ad una morigeratezza di costumi che appare fuori moda.  Questo porta ad aprire la porta ad 'ammalati morigerati'. L’eclissi dell’Altro,  inteso come raccoglitore – regolatore dei costumi entro i quali nasciamo e sulla base dei qual ci forgiamo, porta con se un cambiamento del Super Io freudiano il quale, da istanza censoria, diviene secondo Lacan un istigatore al godimento sfrenato.    S. Zizek afferma ' Non ci si sente più in colpa quando ci si abbandona a piaceri illeciti, come prima, ma quando non si è in grado di approfittarne, quando non si arriva a godere'. ‘La vecchia situazione nella quale la società è portatrice di divieti e l'inconscio di pulsioni sregolate, è oggigiorno invertita è la società ad essere edonista e sregolata, mentre è l'inconscio che regola'.

Gli 'ammalati morigerati' sono per lo piu' nevrotici nei  quali non vi è ombra di perversione, il cui disvelamento fantasmatico non  è stato oggetto di difficoltà particolari. Retti, giudiziosi, mossi da una modalità di applicazione della giustizia e di diffusione della rettitudine. Insomma, fantasmi dai costumi morigerati.
Dove insorge allora la sofferenza per costoro?
Nasce dall’incontro con la perversione oggi diffusa, con il 'godi generalizzato',   che non incontra alcun aggancio in essi. Anzi, rende per loro difficile adattare la propria condotta di vita all’interno di ambienti perversi e non ben regolati.
 
 Romy non vuole più tornare a casa. Romy abitava in un sobborgo di una cittadina del sud molto degradata, zeppa di violenza e con una famiglia dedita al furto e alla ricettazione. Ha dovuto lottare non poco per distaccarsi dal quel luogo, da un uomo sposato non per amore ma per obbligo. Romy ha patito sin dall’adolescenza il suo essere pudica e rispettosa della legge. Ebbe la sua iniziazione allo spaccio a 12 anni, quando la madre le mise in mano un pacco di stupefacenti da consegnare al compratore. La sua obbedienza ai genitori era cieca, assoluta. Divenne ben presto un vero soldato della malavita, capace di ‘piazzare’ oggetti rubati e, col ricavato, acquistare droga da rivendere. Nel suo tempo libero, Romy andava a teatro e curava un orto. Bouganville, ciclamini, petunie. Una piccola zona lontana dal terreno perverso e fuorilegge nel quale ella doveva vivere. La vendetta, operata dal un clan avversario, passa per la distruzione dei beni della sua famiglia, compreso il suo orto che viene dato alle fiamme, e sul quale vengono incendiati pneumatici ed automobili. E’ in quel preciso momento che Romy si ammala, cade preda di uno sconforto che la fa apparire ‘pazza’ a chi la interroga. Stati di angoscia sono il corollario ad un anoressia restrittiva che la porta a minare la propria salute. A fronte di una fedina penale sporca e compromessa, lei si prende ogni responsabilità per le
malefatte, ponendosi come soldato obbediente ai dettami della famiglia, deresponsabilizzandosi, ma dicendosi disposta a pagare la pena per la sua attività deviante. Ma l’angoscia non passava, il suo dimagrimento iniziò a destare preoccupazione, sino a che decise di lasciarsi andare alla deriva con lo sciopero della fame nella sua carcerazione. Lo stupore e l’incredulità degli agenti furono alimentati dal fatto che lei non protestava per aver sconti di pena, o perché si riteneva vittima di soprusi giudiziari. Mai mise in dubbio la necessità di scontare l’intera pena inflittagli. Era l’orto il suo grande dolore, il suo infinito rimpianto. Le mancavano quell’orto e quelle piante che le avevano permesso di dire, senza parole, quel che poi verbalizzerà in seduta.
‘Le piante sono pure, obbediscono solo alle leggi di natura. L’orto era vietato ai quei porci dei miei e alla loro combriccola.’ Quando tutto sarebbe finito,
avrebbe potuto dedicarsi ‘ esclusivamente alla cura delle sua piante, pulite ed amate’. ‘ Io odio la droga, lo smercio. Mi fa schifo la gente che grida e non si guadagna il pane lavorando, sono felice che siano tutti in galera adesso’. Da questo incipit Romy inizia a scrivere il libro della sua vita. Ella doveva obbedire al clan, pena il disconoscimento e , in seguito, la morte sociale. Non avendo la forza di andarsene, scelse di scindere una parte di sè dedicandola alla stregua di un automa al mondo della non - legge, della promiscuità e delle grida, preservando la propria nel suo orto. Orto che fu, a tutti gli effetti, il vero campo di espressione del soggetto.
‘ Io non potevo dire quello che provavo Io non sono mai uscita da quel piccolo paese, ero convinta che tutto il mondo fosse fatto di scambi di coppie, droga e violenza. Ho patito per anni la vergogna di essere monogama, amante dello sport. Mi dicevano che ero pazza avrei voluto cercare un lavoro come botanica. Ho passato tutto quel periodo a vergognami di me stessa’. Ora vorrei solo un compagno, leggere, coltivare le piante e non avere mai più
contatti con i miei.’

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