YOUTH DI PAOLO SORRENTINO: IMMAGiNE SURREALISTA DELLA SOCIETA’ POST MODERNA. di Alfredo Vernacotola

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25 giugno, 2015 - 17:54
Anno: 2015
Regista: Paolo Sorrentino
Osservando l’ultimo film di Paolo Sorrentino ci si lascia trasportare dal contrasto insito nello stesso titolo ‘Youth’, ove due opposti si toccano generando un fiume di emozioni che denotano il ricorso a linguaggi diversi nella stessa sceneggiatura. Tralasciando quanto di tecnico è presente nelle riprese e nella grande professionalità degli attori, lo sguardo dello spettatore interessato si volta diretto alle gesta dei vecchi amici, irriducibili maschere di una società che teme il suo stesso mutare poiché mancante di punti cardine. La società in cui ci si muove è impostata sulla dialettica dolore – gioia – dolore  e come insegna la logica hegeliana la spirale dialettica rende la vita circolare e ripetitiva, a tal punto che il protagonista il direttore d’orchestra Ballinger (Michael Caine) nella sua continua introspezione pronuncia una frase che racchiude tutto il senso della vita e dell’idea cinematografica di Paolo Sorrentino: “Nessuno è un soprano giusto”. Metafora molto densa di senso perché esistono sia i soprani inadeguati sul palco del teatro dell’opera, che i soprani dell’esistenza, della vita: quest’ultimi temono la vita e lo scorrere del tempo tanto da rimanerne prigionieri rincorrendo l’opposto. A mio avviso nel film oggetto di discussione vi è una forte dimensione enantiodromica, la rincorsa all’opposto quale polo rassicurante. La tensione degli opposti – che a volte diventa vera e propria tenzone – si evince da i lunghi monologhi dei personaggi che si intrecciano come fili di una matassa ingarbugliata come è la vita stessa. Si pensi ad esempio la rincorsa di Ballinger al corpo femminile e giovane: il protagonista rincorre ciò che potrebbe essergli figlia. Nel film si evince come i mutamenti della società spingono a ritenere ‘normale’ ciò che lascia trasparire disagio; oggi si teme l’espressione dei propri sentimenti e non si riesce a modulare il proprio equilibrio, specialmente in quel ‘Mare Magnum’ delle relazioni.
Avendo timore di non riuscire più a gestire relazioni dopo la morte della moglie (ripetutamente tradita), il timore del protagonista è lasciarsi andare al proprio desiderio, poiché questi è definito come leggerezza, ovvero tentazione e evasione: sostanzialmente una fuga dall’oridnarietà della vita di un vecchio direttore amante delle donne e incapace di accettare lo scorrere del tempo; lo scandire degli anni rende ogni atto evasivo un evento stra – ordinario. Esistendo lo straordinario, ogni bagno fatto come natura vuole si mostra come un vero e proprio rito abluzione, ovvero di conferma della propria essenza corporea che, a mio avviso, ne esce trasformato perché ancor più lontano dalla realtà che si vive. Harvey Keitel vuole assemblare il suo ultimo capolavoro, una sorta di testamento per gli altri che lavorano con lui; per Keitel invece è il tentativo di rispondere alla sua insofferenza dinanzi al mondo che cambia, lasciandoci privi di punti cardine- bagnare il corpo vuol dire rigenerarsi, purché vi sia consapevolezza di quanto si sta attraversando e si attraverserà.
La dimensione atemporale in cui il regista pone la scena conduce a fare riflessioni relativamente al Tempo e a quanto connesso ad esso: il ricordo. Il ricordo è un affresco della nostra vita all’interno di una cornice che si definisce – come già scritto – tempo costante. Nella parte terminale del viaggio chiamato vita quanto attiene ai ricordi si mescola con la vita quotidiana apparendo sfumati e non pienamente vissuti perché ciò che è stato ed è appartiene alla sfera psichica unita alla natura medesima come mostrato da Carl Gustav Jung e W. Pauli. All’interno della cornice posta in noi dal tempo ciò che lascia fluire il mare emotivo è il dialogo cui si ri – annodano i fili di storie (relazioni) ormai esprimenti vissuti destabilizzanti.
L’intreccio familiare sembra una costellazione in cui i destini, incrociandosi, si fondono come all’interno di una grande vaso delineando quanto gli occhi non vogliono vedere e osservare. Il dialogo non è soltanto verbale. La domanda che Keitel fa a Caine sul perché del non dialogo – non espressa direttamente ma presente in fieri nel corso delle immagini, tanto che la risposta di Caine è scontata perché sa della sordità – rende atto a quanto il dialogo possa avvenire anche nel silenzio: quanto appena scritto non è contraddittorio. Negli spazi silenti della propria esistenza, allo stesso modo quando si è in un clima di ‘Guerra Fredda’ il silenzio urla molto più delle parole, in quanto entra in gioco quel che nel teatro viene definita partitura fisica, indispensabile per gli attori sulla scena, ma anche per gli attori della vita, ognuno con il proprio destino e il proprio dialogo interiore. Questa forma di dialogo - più semplicemente definita introspezione – consta di modalità linguistiche inerenti a competenze che si pongono oltre il puro sentenziare e dissertare, arrivando a mostrare competenze metalinguistiche che aiutano l’individuo stesso e la relazione stessa. La mancanza di dialogo è alla base del fallimento di qualsiasi tipologia di relazione, anche qualora vi fosse una modificazione o più semplicemente una trasformazione l’individuo si rifiugia nell’insoddisfazione. Vi è mancanza di ciò che ha nutrito l’individuo baciato dal successo e dalla possibilità di avere donne ogni sera diverse? L’oggi di Ballinger è l’oggi che non permette di vivere quelle emozioni se non filtrandole con l’immaginazione. Paolo Sorrentino pone in evidenza quanto il sesso, la carnalità, il soddisfacimento dei propri istinti tramutati in desiderio di possesso siano il motore stesso delle relazioni, che non poggiano sul sentimento d’amore – che finisce con l’essere misconosciuto e ripudiato – perché superficiali, inserite in una società che si nutre di apparenza. Il confronto tra i personaggi appartenenti ad una stessa cerca famigliare oltre che amicale, permette al protagonista di rivivere il suo essere traditore attraverso le gesta del genero che tradisce con motivazioni becere, quale appunto il sesso, non più rito iniziatico e completante bensì puro atto istintivo. L’analogia che intercorre tra le due storie permette di comprendere l’inevitabilità del tradimento – molto bella la scena in cui la figlia confida al padre il vissuto emozionale quando questi mancava a causa dei suoi incontri ‘privati’- che sembra avere una trasmissione trans generazionale. L’inevitabilità del tradimento si dipana nella sua meravigliosa iridescente vitalità nel monologo della giovane protagonista del film, interprete del ruolo filiale femminile: la donna tradita che trasformandosi corre il rischio di snaturarsi per correre nelle braccia dei falsi miti del post moderno. La vera trasformazione completa comporta la crescita anche attraverso l’attraversamento della sofferenza.
Il potere evocativo della musica genera sonorità degli scrigni segreti dell’esistenza tali da favorire il rapporto privilegiato con quanto di sconosciuto dimora nell’individuo, là dove neanche lo stesso individuo ne conosce l’esistenza. Come accade spesso in questo monologo dialogante, Michael Caine pronuncia una frase meravigliosa che riporto integralmente “La musica non ha bisogno d’essere capita, la musica c’è”. Quando si ascolta musica, quando si presta la facoltà percettiva dell’udito si è pervasi da armonia che relega la propria percezione disarmonica la chiave di violino che dona ritmo a ciò che è ritmo sconosciuto. La musica, l’arte in genere la poesia e ogni manifestazione di vita vissuta conferiscono ritmo ad una società che nell’immediatezza annulla l’armonia, creando caos che rende confusa una società priva di valori, ove il disvalore è ciò che accresce il supposto potere che plagia le menti dei giovani e ottenebra quelle di chi attraversa la seconda parte della vita. Le immagini del femminile che Sorrentino lascia fluire nella fisicità delle due attrici si mostrano come – ancora una volta – una enantiodromia persistente e sussistente in ogni individuo e nella società stessa. Chi opera il tradimento rendendo l’uomo alla sua mercé è la voluttà, la sfrenata corsa al successo, cui si contrappone la leggiadria della maestosità della giovane donne figlia di Ballinger (Rachel Weisz) definibile come una sorta di Dea Bianca che per i celti rappresenta lo stesso principio fondante l’esistenza, Eros creativo che rende forma ciò che forma non ha. Questo aspetto della Dea Bianca avvicina quest’ultima ad Afrodite (nel mio primo saggio “Gli immaginari femminili di un uomo. Il caso clinico” ho trattato Anima anche come Dea Bianca/Afrodite) e non alla Venere romana, donna oggetto che soddisfa soltanto la fame della sessualità istintuale molto ben descritta dal personaggio della pop star in cerca di gloria. La scena della piscina con l’immagine di Maradona accompagnato fino alla sequenza che lo vede nella sua nudità palleggiare come un funambolo, sono esempi di cinematografia presa in prestito da altri geni creativi, che leggevano loro stesso non temendo la propria Ombra.
Si è detto del principio femminile collegato ad Eros: quando l’eros creativo subisce un blocco si genera una reazione per cui – come una reazione a catena – implode il mondo interiore per poi riversarsi sia nell’opera artistica – o più semplicemente in una presa di consapevolezza della propria finitudine (è questo il messaggio a mio avviso che arriva dal film di Sorrentino) che nella vita tanto da generare il contatto diretto con l’emozione connessa alla trasformazione causata dall’elaborazione di un lutto di un trauma o di una paura di vivere. È questa una prima triade presente che lascia trasparire che, qualora vi fosse una frattura – come nel caso delle ossa fratturate – questa stessa per sua intrinseca natura rende il segmento in questione ancora più solido, più forti da permettere di creare ‘opere’ nella vita e nella produzione artistica manufatti e melodie ancor più splendenti.
Lungo l’intero arco di tempo che si impiega a guardare il film del regista napoletano, l’immagine portante, a mio avviso, è quella del Tempo, a cui è legato indissolubilmente il tema del contatto. Ad una attenta riflessione delle gesta dei protagonisti quanto scritto e sceneggiato da Sorrentino mostra la paura che il Tempo scorra. Il futuro è già qui!! Quanto detto e mostrato dal regista non trova d’accordo chi scrive poiché se il futuro si delinea istante per istante, temerlo equivale a non vivere. Sorrentino teme realmente lo scorrere del tempo? Quanto meno si ha timore di vivere per quel che attiene la propria condizione: il tempo è vita è flusso, acqua che scorre nel letto di un fiume chiamato vita, con un inizio e una fine o fine – sia nel caso si fosse credenti che non) che immagina un’esistenza al di là del puro aspetto della materia, anche semplicemente come fenomeno psichico puro. L’evidenza del mondo psichico si mostra compiutamente nelle sequenze filmiche in cui vi sono riferimenti che pongono dinanzi agli occhi quanto vi sia di trasformativo nell’ironia; la frustrazione sedimenta la sua potenza distruttiva qualora l’acume intellettivo dell’ironia – sostituta e compagna dell’intelligenza – non è lasciato fluire nella misura adeguata per ricomporre i cocci del trauma (nel caso di Ballinger il bilancio di una vita e l’assenza della moglie ormai defunta che gli impediscono di salire a dirigere nuovamente per la Regina d’Inghilterra; nel caso del personaggio interpretato da Keitel la realizzazione del suo film ‘testamento’ spirituale) lasciando fluire il sarcasmo che diviene una lama tagliente. Se avviene l’integrazione il grande gioco dell’ironia permette il superamento delle difficoltà elicitando la rinnovata capacità di creare, occlusa per timore di relazione con il mondo esterno, temuto perché sconosciuto. Quanto detto dal giovane attore che è chiamato ad interpretare il personaggio del Fuhrer nel film del regista Keitel si lascia trasportare dall’atmosfera che si condensa nei versi Novalis, che non analizziamo in questo scritto anche se il riferimento alla figura paterna è altrettanto centrale in questo grande film, seppur non del tutto accettabile in alcune licenze ‘poetiche’ prese in prestito in modo inadeguato. Ascoltando Novalis non si può non riferirsi al dettaglio che null’altro è che l’istante, l’essenza stessa dell’esistenza. Sia il dettaglio che l’istanti sono sfuggenti esprimenti, però, densità di senso, l’esistenza con la sua polisemia e la policromia dell’essere umano.
Esistendo l’individuo nella sua unicità, la relazione si muove su di una direttrice che prevede la triade Colpa – Libertà – Amicizia. Nell’amicizia – secondo Sorrentino -  si vive soltanto raccontandosi quanto sia bella e felice la vita, anche se la vera amicizia nella tragedia trova l’aspetto positivo. Se riferito questo vedere il bello in una relazione anche alla sfera artistica, questa comporta sia un dono che una sventura perché difficilmente compreso da chi si muove in ambienti non inclini all’espressione del Sé è la manifestazione artistica. Il meccanismo artistico è tale anche nella vita in cui i genitori vorrebbero i figli tutti per loro e gli stessi figli vorrebbero rimanere eterni fanciulli. Sorrentino volge lo sguardo dietro e vede ciò che non può e non deve tornare, poiché la vita scorre divenendo in certo qual modo eterna, intendendo con questo attributo la circolarità stessa dell’esistenza se vissuta nella sua completezza. Scegliere come metafora il film sulla tormentata storia d’amore tra Hitler ed Eva Braun significa mostrare quanto il desiderio possa trasformarsi in una costruzione delirante avente senso se non adeguatamente supportato dall’esperienza erotica vissuta. e non soltanto il viaggio delirante di due individui.
In tutto lo svolgimento del film v’è il contrasto/confronto tra il sublime, l’estetico e ciò che è passato: vita e morte, Eros e Thanatos, gioia e dolore e non ultimo per importanza desiderio e frustrazione: è questo il cameo fatto da Jane Fonda, Musa di Keitel che è vecchia, e il nuovo della vita che avanza affermandosi, entrando in contatto diretto con la morte. Come Heidegger ha insegnato magistralmente, bisogna “essere nella morte” per poter vivere adeguatamente ciò che è rappresentato dal nostro destino. Ascolto la vita quando non evito di affrontare l’argomento riguardante la sua stessa fine. Quando si è anziani, bisogna vivere da anziani e non cercare come i protagonisti del film la sfrenatezza della gioventù ormai ricordo all’interno di una cornice. In questo modo non si vive, ma vivere morendo significa gusrtare la vita con tutte le emozioni che regala.
Oggi nel mondo ognuno è protagonista di se stesso. Ma ha ragione il regista quando dice che nella vita della società surreale del secondo millennio ogni individuo è una comparsa. Parole sagge poste nella voce articolata di Harvey Keitel. L’uomo passa; il mondo c’è e ci sarà, lasciando che gli uomini siano piccoli puntini in un universo che non ha confini, come l’universo individuale, che ne contiene infiniti altri.
Immagine meravigliosa nella parte conclusiva del film: sentiero di montagna delle Alpi svizzere, mucche a pois e Keitel che scruta l’illusione di un mondo altrettanto illusorio mentre continua monologo dialogante.
Le emozioni integrate con sguardo critico perché razionale, rendono atto di ciò che si è lasciato nella vita anche se si percorreranno altri tratti di strada.
Concludo con una riflessione del protagonista del film: “Sono vecchio ma non si capisce perché sono vecchio”. Si potrebbe aggiungere semplicemente: vita.
Prendendo a prestito una battuta di Sorrentino, si può affermare che nella vita si è sempre una melodia semplice anche se si è capaci di tradire o esprimere linguaggi ancora nel sublime, così come è sublime la classica che Ballinger/Caine continua a dirigere.
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Commenti

Alffredo Vernacotola ci regala una riflessione sul film Youth certamente ricca di spunti, anche se io, soggettivamente, non condivido l'accoglienza entusiastica che quasi collettivamente si è data a quest'opera di Sorrentino. Ho espresso in altra pagina (vedi Sulla Sublimazione) la mia opinione per chi volesse leggerla.. Qui, ora, colgo uno spunto interessante, allorquando Vernacotola scrive: "Le emozioni integrate con sguardo critico perché razionale, rendono atto di ciò che si è lasciato nella vita anche se si percorreranno altri tratti di strada".... e qui concordo. Questo è il valore della memoria quando sa diventare esperienza, situandosi anche a quella distanza adeguata che consente un sorriso ironico su se stessi... doti, però, che non ci è dato riscontrare molto frequentemente..!


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