RILEGGENDO “EDOARDO WEISS A TRIESTE CON FREUD” DI RITA CORSA

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8 luglio, 2015 - 08:28
Autore: Rita Corsa
Editore: ALPES , Roma
Anno: 2013
Pagine: 217
Costo: €22.00
La psichiatria e la psicoanalisi alle prese con le nevrosi e le psicosi di guerra.
 
Con piacere scrivo queste note in margine al libro Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana di Rita Corsa, pubblicato nel 2013 per i tipi della casa editrice Alpes Italia di Roma. La finalità del libro è di presentare con dovizia di informazioni storiche e di riflessioni critiche la prima parte della vita dello psichiatra triestino Edoardo Weiss (1889-1970), padre riconosciuto della psicoanalisi italiana (Corsa, 2013).
Il libro è articolato in quatto parti. Nella prima parte sono contestualizzate le vicende del protagonista attraverso la dettagliata descrizione dell’ambiente culturale e politico della Trieste di allora (Corsa e Martucci) e sono ripercorse le varie tappe che portarono alla costruzione del manicomio triestino, il Civico Frenocomio “Andrea di Sergio Galatti”, nel quale Weiss lavorò per circa dieci anni. Nella seconda parte vengono trattati la formazione medica di Weiss a Vienna, la sua maturazione come psicoanalista seguace di Freud e la sua carriera psichiatrica manicomiale sino al trasferimento dalla città natale a Roma nel settembre del 1931. Nella terza parte sono affrontati il tema delle nevrosi e delle psicosi di guerra e l’attività psichiatrica di Weiss alla luce di un accurato esame delle cartelle cliniche manicomiali da lui redatte. Nella quarta e ultima parte, da considerarsi come un’appendice del volume dedicata a due artisti triestini, credo poco noti alla maggior parte dei lettori, Rita Corsa scrive con Giuliana Marin del pittore Arturo Nathan, che fu il primo paziente “eccellente” di Weiss, e Vlasta Polojaz racconta del letterato Vladimir Bartol, che fu anch’egli psicoanalista.
Cento anni fa, il 23 maggio del 1915, l’Italia entrava in guerra contro le Potenze Centrali a fianco della Gran Bretagna e della Francia. Iniziò così anche per gli italiani la Prima Guerra Mondiale, che verrà ricordata come la Grande Guerra e da qualche storico anche come la nostra Quarta Guerra d’Indipendenza. Anche a ricordo di quella tragica data in queste note viene trattata la questione delle specifiche patologie psichiatriche, che scoppiarono e si diffusero come un’epidemia tra i soldati e gli ufficiali degli eserciti contrapposti.  
Nel capitolo del libro della Corsa dedicato alla Prima Guerra Mondiale viene affrontato il tema delle nevrosi e psicosi di guerra da una prospettiva psicoanalitica. In particolare l’Autrice prende in esame i contributi, che in occasione del Congresso Internazionale di Psicoanalisi, che si svolse a  Budapest alla fine di settembre del 1918, portarono su quel tema l’ungherese Sandor Ferenczi, i tedeschi Karl Abraham ed Ernest Simmel e lo slovacco Victor Tausk, all’epoca importanti e fedeli allievi di Freud. Tutti e quattro questi psicoanalisti avevano partecipato alla guerra e avevano avuto a che fare con i soldati vittime di nevrosi di guerra.
Le relazioni di Ferenczi, Abraham e Simmel (quella di Tausk non venne inclusa) andarono a formare il libro pubblicato l’anno seguente con il titolo Zür Psychoanalyse der Kriegsneurosen (Sulla psicoanalisi delle nevrosi di guerra). Nel libro vennero aggiunti la relazione, che il gallese Ernest Jones aveva presentato su quel tema alla Società Reale di Medicina a Londra il 9 aprile 1918, e un capitolo introduttivo scritto da Freud (Ferenczi et al., 1919).
«La Grande Guerra fu la prima guerra totale. […] Ciò che sconvolse la gente non fu tanto la scala senza precedenti della tragedia, quanto lo stallo difensivo che trovò il suo simbolo nella trincea. Ne risultò un nuovo paesaggio psichico oltre che geografico: cunicoli, esplosione di mine, paura di essere sepolti vivi, rumori e vibrazioni assordanti, l’insidia del gas, disorientamento, frammentazione, mancanza di riferimenti visivi, cancellazione della differenza tra notte e giorno, identificazione con il nemico, riduzione della coscienza» (Zaretsky, 2004). Durante la Prima Guerra Mondiale soldati e ufficiali si trovarono esposti a un’ampia gamma di danni da esplosione. Gli eserciti al fronte, impegnati in una statica guerra di trincea, sperimentarono lo sbarramento dell’artiglieria, gli attacchi dei mortai e la minaccia delle mine devastanti. Il 60% delle morti nel corso della Prima Guerra Mondiale fu causato dalle granate shrapnel (Jones et al., 2007).
Sin dall’inizio delle ostilità tra i militari inglesi schierati sul fronte occidentale si presentarono problemi psichiatrici. Nel dicembre 1914 un rapporto ufficiale segnalò che negli ospedali dell’area di Boulogne in Francia una percentuale relativamente alta di ufficiali (7-10%) e di soldati (3-4%) della British Expeditionary Force era affetta da esaurimenti nervosi e mentali (Stone, 1985). I soldati stessi coniarono il termine shell shock (shock da granata o da esplosione) per indicare la comparsa sempre più frequente nelle truppe dispiegate sulla linea del fronte di sintomi, quali stanchezza, tremore, confusione, incubi e disturbi della vista e dell’udito. Si trattava di uno spettro clinico di condizioni neuropsichiatriche, che andavano dalla “commozione cerebrale alla pura e semplice paura” (Mcleod, 2004).
Nel maggio 1915 William Aldren Turner, epilettologo londinese di chiara fama, venne incaricato dal Ministero della Guerra della Gran Bretagna di indagare su questo “nuovo disturbo”. Turner descrisse lo shell shock nel modo seguente: «… tipo di “esaurimento nervoso” passeggero che non giustifica il nome di nevrastenia, che sembrerebbe essere caratteristico di questa guerra […] attribuito ad una causa improvvisa o spaventosa quale essere testimoni di una visione orribile o di una esperienza opprimente […] il paziente diventa “nervoso”, ingiustificatamente emotivo e malsicuro, e – fatto più tipico di tutto – il suo sonno è disturbato da brutti sogni […] di esperienze avute. Anche le ore di veglia possono essere tormentate dal ricordo di questi eventi. Le probabilità di guarire sono buone, soprattutto se il paziente è rimandato a casa per un periodo di completo riposo» (Turner, 1915).
Nella letteratura scientifica il termine shell shock venne usato per la prima volta alla fine del 1915 e all’inizio del 1916 in una serie di articoli pubblicati su The Lancet dallo psicologo medico britannico Charles S. Myers per indicare i disturbi psicologici a carico della memoria, della vista, dell’olfatto, del gusto e della sensibilità cutanea, che avevano causato il rimpatrio di molti militari fin dal dicembre 1914 (Myers, 1915, 1916a, 1916b).
Da principio si pensò che lo shell shock fosse espressione di una lesione neurologica, una forma di commozione cerebrale, conseguente all’urto di potenti agenti esterni e venne considerato come un’opportunità di studiare la localizzazione delle funzioni psicomotorie nei casi con lesioni cerebrali causate dai frammenti metallici delle granate, ma presto si dovette fare i conti con un numero crescente di militari che, essendo stati vicini o avendo assistito a un’esplosione e non avendo subito nessuna ferita al capo, presentavano una serie di sintomi di difficile interpretazione (amnesia, scarsa concentrazione, mal di testa, ronzio auricolare, vertigini e tremore), che non guarivano con le cure ospedaliere.  Di conseguenza sorsero dubbi sulla relazione di causa-effetto tra il traumatismo cerebrale diretto e lo shell shock e alcuni avanzarono l’ipotesi che quei sintomi fossero di origine psicologica piuttosto che organica, fino a considerarli una nevrosi traumatica (Jones et al., 2007).
Con il protrarsi del conflitto mondiale, in particolare dopo le gravissime perdite di uomini nelle battaglie della Somme e di Verdun nell’autunno del 1916, le diverse nazioni cercarono di approntare interventi in grado di far tornare a compiere il proprio dovere al fronte il maggior numero di militari “traumatizzati”, non più considerati semplicemente codardi o deboli. Tuttavia, il riconoscimento della natura psicogena, funzionale, dei sintomi dello shell shock portò come conseguenza che, in molti casi, quei soldati, che avevano presentato sintomi di conversione isteriforme anche prima della guerra, venissero considerati simulatori. Come possiamo immaginare, la valutazione dei precedenti anamnestici di un numero crescente di pazienti non poteva che essere grossolano. Ne derivò, pertanto, che da parte delle autorità militari e sanitarie venne sostenuta la necessità di ricorrere a terapie aggressive per ottenere un rapido ritorno al fronte. Gli psichiatri misero a disposizione l’ampio armamentario di metodi di cura, di cui allora disponevano, e i militari con diagnosi di shell shock furono trattati con la faradizzazione elettrica, l’ipnosi, l’isolamento, le diete forzate e l’inganno.
All’inizio del 1915, l’inglese M. David Eder, uno dei fondatori della Società Psicoanalitica di Londra nel 1913, si arruolò volontario e fu assegnato come capitano medico al Reparto Psico-Neurologico dell’Ospedale Militare di Malta, nel quale venivano curati soprattutto i soldati ritenuti vittime di shell shock. Nel 1917 Eder pubblicò il libro War-Shock: the Psycho-Neuroses in War. Psychology and Treatment (Shock da guerra: le psiconevrosi di guerra. Psicologia e trattamento), nel quale presentò i primi cento casi di psiconevrosi giunti alla sua osservazione con il duplice scopo di fornire una comprensione psicologica dei loro sintomi e di mostrare «che i soldati affetti da shock da guerra rispondevano particolarmente bene al trattamento psicoterapeutico» (Eder, 1917). Questo libro fu il primo in assoluto a trattare in modo specifico le nevrosi di guerra e «servì molto all’avanzamento della psicologia clinica […] Il libro di Eder contribuì molto al salvataggio di quei disturbi dall’oblio terapeutico. Inoltre, mettendo il titolo di war shock al posto di shell shock, Eder riuscì ad ampliare enormemente la concezione di allora dell’eziologia dell’intero gruppo delle nevrosi di guerra» (Glover, 1945).
Un altro inglese, lo psicologo e antropologo William H. R. Rivers pubblicò su The Lancet l’articolo An address on the repression of war experience (Discorso sulla rimozione dell’esperienza della guerra). In esso Rivers espose i meccanismi che stavano alla base delle nevrosi di guerra, descrisse il trattamento di quattro casi e discusse i fattori che avevano determinato i suoi successi terapeutici (Rivers, 1918). Rivers aveva fatto esperienza come psichiatra militare prima presso l’Ospedale Maghull di Liverpool, specializzato nella cura dei soldati affetti da shell shock, che,  grazie alla presenza di ottimi clinici di diversa formazione, divenne un centro di sperimentazione della medicina psicologica, e successivamente presso l’Ospedale Craiglockhart di Edinburgo, nel quale poté affinare la tecnica della sua talking cure in favore dei pazienti affetti da nevrosi di guerra, diagnosi che oramai aveva sostituito quella di shell shock  (Jones, 2010).
Dopo questa sintetica revisione della storia dello shell shock durante la Prima Guerra Mondiale, vorrei tornare a Edoardo Weiss e sottolineare il fatto che, malgrado avesse partecipato alla Grande Guerra come ufficiale medico dell’esercito austro-ungarico e malgrado fosse uno psichiatra attento, scrupoloso e scientificamente aggiornato, non scrisse una sola riga sulle nevrosi di guerra. Questo fatto, ricordato anche da Rita Corsa nel suo libro, sorprende e non appare facilmente spiegabile. Si potrebbe pensare a una sorta di inibizione (volontaria o inconscia?) dovuta al conflitto tra sentirsi italiano e scrivere su di una guerra combattuta come nemico contro gli italiani? Oppure si trattò di tutt’altra cosa, cioè dell’evitamento di affrontare un tema, le nevrosi e le psicosi di guerra, della cui interpretazione basata sulla teoria freudiana della libido il giovane psicoanalista Weiss non era convinto?      
Concludo queste note con un rapido accenno al Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), la categoria diagnostica psichiatrica le cui caratteristiche sono state oggetto di parziale revisione nel DSM-5 (APA, 2013). La diagnosi di PTSD, pur essendo considerata “erede” delle diverse diagnosi psichiatriche che, a partire da cento anni fa, furono proposte per indicare il variegato gruppo di disturbi correlati ai traumi di guerra, negli ultimi decenni è stata utilizzata per indicare i quadri clinici, la cui eziologia è attribuibile a eventi traumatici anche di natura non bellica. Nella nostra epoca i disturbi psichiatrici legati a eventi traumatici esterni hanno assunto una rilevanza sempre maggiore anche a causa del verificarsi in molte parti del mondo, con puntuale e terribile periodicità, di catastrofi naturali, di guerre e di attentati terroristici nonché di violenze sociali e familiari. Per questo motivo oggi il PTSD è oggetto di un grandissimo numero di studi e di indagini sperimentali riguardanti le sue basi neurobiologiche, gli strumenti diagnostici, i disturbi psichiatrici concomitanti e i trattamenti sia psicologici che farmacologici. Il PTSD è una categoria diagnostica molto attuale e molto “complessa”, strettamente correlata alle veloci trasformazioni economiche, sociali e politiche del nostro tempo, mentre le diagnosi di nevrosi e di psicosi di guerra sono rimaste importanti sostanzialmente a causa del loro valore storico.
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
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