Nel “paese dei ciechi” - Viaggio nel mondo della “psichiatria senza psiche”

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15 settembre, 2015 - 09:59
I – Premessa
La comunicazione tra due esseri umani può essere chiara e convincente solo se si basa su evidenze empiriche che entrambi gli interlocutori sono in grado di percepire; ciò non può avvenire se uno dei due è privo dell’organo di senso legato all’ordine di fenomeni di cui si sta parlando. Se si cerca, ad esempio, d’illustrare ad un cieco dalla nascita la bellezza di un capolavoro della pittura, questa persona, per quanto intelligente e sensibile, non potrà mai comprendere appieno il senso del discorso, né essere intimamente convinta della verità di quanto si è cercato di comunicare. Se, poi, egli appartiene ad una ipotetica “cultura dei ciechi” che nega l’esistenza della vista (come nel racconto di Wells di cui si parlerà più sotto [27]), la comunicazione sarà del tutto impossibile: alla mancanza di un punto di riferimento empirico comune si aggiungeranno ostacoli insormontabili di ordine culturale ed emotivo.
Si percepisce il mondo esterno (estrospezione [11]) tramite gli organi di senso che tutti conosciamo. Ad essi se ne aggiunge un sesto, definito da qualcuno “occhio della mente”; esso ci permette di cogliere quanto avviene nel mondo interno (introspezione) e, “mettendoci nei panni” di un’altra persona, ci consente di penetrare nella sua vita interiore (introspezione vicariante o empatia).  Il contenuto di questo scritto  è una riflessione sulla difficoltà (o impossibilità) di comunicare tra chi possiede lo “occhio della mente” e chi ne è privo; difficoltà che, tra ricercatori e clinici, è  particolarmente evidente quando si cerca di stabilire i nessi tra la sfera soggettiva, percepibile solo tramite questo “organo di senso”, ed il suo substrato neurobiologico, su cui s’indaga tramite gli altri sensi, ossia tramite l’estrospezione.
 
II – Il Racconto di Wells
“Il paese dei ciechi” di H. G. Wells [27] ci offre una versione drammatizzata di quanto si diceva più sopra. L’antefatto è il seguente: in una sperduta valle delle Ande ecuadoregne si erano insediati alcuni coloni sfuggiti ad una persecuzione politica. Qui essi vi avevano trovato le condizioni più propizie per la loro sopravvivenza: clima mite, terra fertile, pascoli rigogliosi per il loro bestiame. Tuttavia una grave disgrazia sopravvenne ad offuscare la serenità di queste persone: una misteriosa malattia, trasmissibile ereditariamente, li privò gradualmente della facoltà di vedere. Attribuendo tale malanno alla colpa d’aver trascurato la religione (non avevano portato con sé un sacerdote, né costruito una chiesa), essi incaricarono un volontario coraggioso di ripercorrere a ritroso il difficile cammino che li aveva portati nella valle e di procurarsi, in città, reliquie ed oggetti benedetti per allestire una cappella; ma, prima che costui avesse portato a compimento la sua missione, una catastrofe naturale chiuse completamente e definitivamente la valle al mondo esterno. Al volontario non restò altra scelta che rifarsi una vita lontano dalla sua gente; dai suoi racconti sulla “valle dei ciechi” nacque una leggenda. Passarono secoli ed un esploratore inglese, volendo accertare la veridicità di quella strana storia, organizzò una spedizione. Di essa faceva parte, come guida, Nunez, un montanaro dotato di una certa cultura e intraprendenza. Una notte, Nunez cadde in un precipizio e gli altri della spedizione, certi della sua morte, si ritirarono e rinunciarono alle ricerche per cui erano partiti. La storia vera e propria ha inizio con Nunez che, sopravvissuto miracolosamente alla caduta, si rende conto d’essere capitato nella valle dei ciechi. Ingenuamente egli crede che queste persone accettino prontamente la sua facoltà di vedere e, potendone trarre vantaggio, gli conferiscano grande autorevolezza. Subito, tuttavia, compaiono segni d’incomprensione e intolleranza da parte dei ciechi: essi giudicano Nunez un primitivo (“nato dalle rocce”), privo di discernimento ed insensato nei suoi discorsi su quella facoltà, per loro inesistente, che è la “vista”. Il protagonista cerca, sempre più disperatamente, di convincere gli altri della sua capacità di vedere, ma si accorge d’incontrare ostacoli insormontabili. Particolarmente sgradite ai ciechi, e motivo di scandalo, sono le sue affermazioni circa l’esistenza del cielo e di un mondo, che ha avuto una sua storia, al di là dei limiti della valle: per loro, la presenza, sopra le loro teste, di una volta di roccia ed il fatto che, al di là dei monti, non esista nulla rappresentano dogmi indiscutibili. Dopo un ultimo tentativo di ribellione, Nunez, per poter sopravvivere e sfuggire l’angoscia dell’emarginazione, finisce per piegarsi all’ideologia dei ciechi ed a sospettare che tutto ciò che gli occhi gli avevano fatto percepire e credere sia frutto della sua follia. Ciò gli permette d’integrarsi in quella comunità: trova un lavoro e s’innamora, contraccambiato, della figlia del suo principale. L’amore consente alla ragazza d’ascoltare con maggior tolleranza quel che Nunez le racconta riguardo alle bellezze del mondo che solo gli occhi consentono di percepire. Ella le intende come invenzioni poetiche, alla cui realtà non crede, ma al cui fascino finisce per cedere, sebbene con un sentimento di “colpevole debolezza”. I due innamorati decidono di sposarsi ma il loro progetto, benché appoggiato dal padre di lei, incontra l’opposizione della comunità, per la quale Nunez resta un personaggio sgradito. Un medico propone una sua soluzione del conflitto: egli ritiene che la causa della “pazzia” di Nunez sia la presenza di occhi “abnormemente” sviluppati; basterà asportarli chirurgicamente e l’uomo diventerà del tutto “normale”, sarà come tutti gli altri e potrà sposarsi senza alcun problema. Nunez è quasi sul punto di sottomettersi, ma alla fine prevale in lui un impulso di ribellione che lo spinge a fuggire. Non si sa se riuscirà a raggiungere il mondo esterno ma, intanto, si è riconquistato la sua libertà interiore; libertà, innanzi tutto, di godersi la bellezza di tutto ciò che vede e soprattutto “il cielo, in tutta la sua vastità sconfinata”.
 
III – Vedenti e “ciechi”: la psichiatria clinica
- La vista, il cielo e l’autocoscienza Uno dei motivi di più forte incomprensione tra Nunez e i ciechi è l’esistenza del cielo:
“…quando egli si ostinò a sostenere che, contrariamente a quanto supponevano, il mondo non aveva fine né tetto, gli dissero che i suoi pensieri erano perversi. Il cielo, le nuvole, le stelle ch’egli si sforzava di descrivere come meglio poteva, a loro facevano l’impressione di un orrendo vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose, in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella caverna fosse deliziosamente liscio al tatto. Egli si accorse che riusciva solo a scandalizzarli…” [27, pag. 248]
L’occhio è l’unico organo di senso in grado di cogliere le distanze, gli spazi apparentemente illimitati. Si presta, quindi, a farci percepire quelle realtà del mondo esterno (cielo, mare, orizzonti) su cui possiamo proiettare il vissuto interiore (il più intimo, il più originario) de “l’infinito pieno di possibilità” [14]. La vista, quindi, ci consente di rappresentarci quell’esperienza, che appartiene alla preistoria di tutti noi, di una fase in cui non si erano ancora costituiti i confini del nostro essere individuale. È l’esperienza della grandiosità estrema del narcisismo primario, della fusione simbiotica con quello che presto diverrà l’oggetto arcaico idealizzato; grandiosità che verrà gradualmente ridimensionata dal contatto con la realtà esterna, ma che continua a gettare i suoi riflessi vivificanti su tutte le ulteriori fasi della nostra evoluzione. Gli Artisti sanno ricreare tale grandiosità, ed è questo il motivo per cui cielo, mare, orizzonti, oltre che descrivere realtà fisiche, sono anche termini poetici che evocano gli “interminati spazi” e i “sovrumani silenzi”, e la “profondissima quiete” [13] che appartengono all’esperienza originaria dello “infinito” di tutti noi. Quest’ultima corrisponde al “sentimento oceanico” proprio dell’estasi mistica [6]. Si può, quindi, dire che l’ultimo colpo ad una visione di tipo antropomorfico del mondo sia stato inferto da Einstein con la sua dimostrazione del carattere finito dell’Universo. L’infinito, l’indeterminato, l’eterno, esistono di fatto solo come realtà interiori. Il contatto con il proprio mondo interno implica la possibilità di “vedere” questo infinito originario dentro di noi. Ecco perché la vista, il solo senso che ci consente di percepire un cielo apparentemente infinito, si presta a rappresentare l’autocoscienza e la capacità introspettiva: il termine “riflettere” non a caso deriva dall’ottica [21]. Questo è il motivo per cui il racconto di Wells può essere letto come metafora del dialogo impossibile tra chi vede con “l’occhio della mente” e chi non possiede tale facoltà.
- Una vita priva di autocoscienza I ciechi, per causa di forza maggiore, hanno imparato ad adattarsi al mondo esterno senza avere la possibilità di vederlo; favoriti, in questo, dal fatto che la valle offre le condizioni più propizie per la sopravvivenza. Una situazione analoga è quella dell’ambiente in cui ci troviamo attualmente a vivere: qui, anche quando la natura non ci è favorevole, siamo in grado di renderla tale grazie all’evoluzione della tecnologia. Come i ciechi di Wells trovano, nelle confortevoli condizioni materiali di vita, motivo di pensare che la vista non sia necessaria (o addirittura che “non esista”), è possibile che noi stiamo facendo altrettanto con lo “occhio della mente”. Nei ciechi, la perdita della capacità di pensare per immagini ha portato ad un impoverimento della vita interiore: “Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi…” [27, pag. 244]. Quest’affermazione, in cui è evidente l’equiparazione della vista del mondo esterno con quella della vita interiore, non potrebbe valere anche per il tendenziale “disseccamento” dell’immaginazione creativa che caratterizza la cultura odierna? In effetti sappiamo che l’autocoscienza è, nell’evoluzione della specie, un “optional”, un “incidente evolutivo che tra l’altro non è neanche necessario per la conservazione della specie; per esempio le formiche, che non hanno affatto coscienza dell’Io, vivono da molti milioni di anni prima di noi, e molti animali sostituiscono la coscienza dell’Io con altre attività e funzioni specifiche” [21]. È, quindi, possibile che ciò cui stiamo assistendo sia un fenomeno involutivo, per cui stiamo tornando ad una modalità di adattamento che tende ad escludere l’autocoscienza. C’è qui un paradosso: un progresso, quello della tecnologia, ha favorito una forma di regressione; regressione ad uno stato parzialmente privo di autocoscienza.  
- La menomazione e le difese I ciechi, nel racconto, non si limitano a disconoscere la vista ed il mondo al di fuori della valle: la loro inesistenza rappresenta, per loro, una sorta di “articolo di fede”. Essi si oppongono, con aggressività ed intolleranza, a chiunque, come Nunez, sostenga opinioni differenti. C’è, in questo, una duplice esigenza di ordine difensivo: la necessità di negare la ferita narcisistica della loro menomazione facendo sentire, viceversa, menomato chi possiede la facoltà di vedere; inoltre l’esigenza di concepire quell’ambiente confortevole della loro valle (ambiente che non richiede la vista) come l’unico mondo possibile, il che implica la necessità di negare il più vasto mondo esterno e la loro stessa storia. Ciò coinvolge l’autocoscienza, tramite la quale è possibile una “ricostruzione storica del comportamento e dell’attività” propri e della propria gente [21]. Sulla base di queste esigenze difensive, I ciechi hanno costruito una loro “filosofia” delirante. Posto di fronte all’incrollabilità di questo delirio sistematizzato collettivo ed al proprio isolamento, Nunez incomincia a dare segni di cedimento. Come vedremo più sotto, anche i ciechi dello “occhio della mente” tendono a costruire una loro “filosofia” che nega l’importanza del mondo interno e della capacità di percepirlo e dimostrano, per chi l’afferma, la stessa intolleranza. Per loro, il mondo esterno, come la valle per i ciechi di Wells, è un mondo chiuso, un “utero” che offre tutto ciò che è necessario, e pensare di uscirne equivale a cadere e perdersi nel “nulla”. Essi non possono rinunciare al rifugio del mondo delle cose “toccabili” e del guscio protettivo del corpo, ossia della parte concreta e finita del nostro essere. Una parte delle suddette difese consiste nel relegare le affermazioni sulla vista nell’ambito delle fiabe e delle produzioni poetiche. A questo modo reagisce la ragazza amata da Nunez alle confidenze dell’uomo:
“A lei, quella faccenda della vista, parve un’invenzione poeticissima, e stette ad ascoltare la descrizione delle stelle, dei monti, della sua stessa dolce bellezza rischiarata dalla luna, come cedendo ad una colpevole debolezza. Non ci credeva, anzi capiva solo in parte; ma ne era misteriosamente deliziata, ed egli poté credere ch’ella avesse capito tutto” [27, pag. 254]
In passato, e di nuovo al giorno d’oggi, l’Artista tendeva (e tende) ad essere relegato in una posizione del genere: gli si consentiva di esprimere alcune verità sul mondo interno, si avvertiva il fascino delle sue opere, ma il suo messaggio veniva compreso solo confusamente e non ci si credeva. Solo da poco più di un secolo (soprattutto con Freud) il mondo della Scienza ha iniziato a prendere sul serio i suggerimenti offerti dall’Arte e ad utilizzarli per lo studio e la comprensione della mente. Oggi, tuttavia, la Psicoanalisi (ossia la Scienza che, più delle altre, ha preso contatto con la vita interiore)  rischia di essere relegata in una posizione simile a quella dell’Arte.
- Il “pazzo” e lo psichiatra “cieco” In un precedente lavoro [16] scrivevo: “È opinione di molti che lo scopo del trattamento del delirio consista nel “riportare alla realtà” il paziente. S’intende, con questo, che, alla fine, il modo di vedere il mondo dei terapeuti (che si presumono sani) debba prevalere su quello dei malati. Ma siamo sicuri che la persona sana sia interamente aderente alla realtà? Se ciò non è vero… il rischio è che l’alterata percezione della realtà, propria del terapeuta, s’imponga su quella del delirante, indipendentemente dalle (e in contrasto con le) esigenze interiori di quest’ultimo; ciò è l’opposto di quel che ragionevolmente possiamo considerare una cura”. La concezione della realtà del terapeuta è influenzata anche dai valori della cultura cui egli appartiene. Questi, interiorizzati, si traducono in ingiunzioni e divieti di tipo superegoico che limitano la sua libertà interiore e gl’impediscono di mettersi in sintonia con il paziente. È quel che succede al povero Nunez che, avendo introdotto nella cultura dei ciechi quell’elemento disconosciuto e disturbante che è la vista, viene giudicato pazzo.
Il matrimonio di Nunez, giudicato “deficiente” e “allucinato”, con una ragazza del luogo, non è gradito alla comunità dei ciechi, tuttavia “uno degli anziani, gran pensatore, ebbe un’idea. Tra quella gente egli era il gran dottore, il loro medico… L’idea di guarire Nunez dalle sue stranezze lo attraeva… “Ho visitato Bogota [il soprannome di Nunez]” disse “e il suo caso mi risulta più chiaro. Credo che, con ogni probabilità, lo si possa guarire…Ha il cervello un po’ disturbato” disse il medico cieco. Corse tra gli anziani un mormorio di assenso “Ebbene, che cosa lo disturba?” “Questo” disse il medico “Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in Bogota sono malate di modo che gli disturbano il cervello… per guarirlo completamente non abbiamo da fare altro che una piccola operazione chirurgica, facile e semplice, cioè rimuovere questi elementi irritanti” “Poi sarà sano di mente?” “Poi sarà perfettamente sano di mente, e un cittadino del tutto ammirevole”…” [27, pag. 255]
Poiché ciò che Nunez percepisce con gli occhi lo pone in conflitto con la cultura dei ciechi, asportargli questi organi di senso è l’unica soluzione che non obblighi la cultura stessa a mettersi in crisi e in discussione. C’è qui una perfetta analogia con i trattamenti psichiatrici volti a sopprimere le capacità introspettive (la lobotomia o, per via chimica, gli antipsicotici in dosi massicce): se il paziente, con gli “occhi della mente”, percepisce una realtà (interiore) in contrasto con la concezione dominante, la “terapia” trovata consiste nel non fargliela più percepire, non nell’aiutarlo a sanare ciò che avverte. Ciò consente, al terapeuta, all’istituzione e alla cultura cui il terapeuta appartiene, di continuare a considerarsi “indiscutibili”.
L’analogia tra il “trattamento” proposto dallo psichiatra cieco di Wells e quanto tende ad avvenire nella psichiatria dei nostri giorni, si spinge ancora oltre. Così scrive Romolo Rossi:
“La psichiatria seguendo esigenze di evidence… ha seguito vie schematiche e descrittive secondo le linee del comportamento rilevabile… lontano dal mondo interno e dal vissuto, non “obbiettivabili” e meno quantificabili. Ciò ha prodotto… un essiccamento della disciplina ed ha messo in ombra i vivaci e complessi coinvolgimenti con la realtà antropica più generale, dalla letteratura all’arte…” [20, pag. V]. Ciò cui stiamo assistendo – l’ultima edizione del DSM dell’American Psychiatric Association [1] ne è una testimonianza – è la progressiva  “… fine della Psichiatria e la sua sostituzione con una neurologia con sintomi mentali, in cui lo studio, l’approfondimento, il chiarimento dei fenomeni della mente non avrebbe più importanza, come ha un’importanza relativa ai fini neurologici l’emozione che ha un emiplegico nel non poter più muovere l’emilato” [20, pag. 15]
Si può ravvisare, da parte dei “neurologi dei sintomi mentali” una sorta di miopia, se non di cecità, dello “occhio della mente” e, nella loro impostazione teorica, qualcosa di simile alla “filosofia” dei ciechi: una “psichiatria senza psiche”. Tra il pazzo delirante e lo psichiatra che non crede nel mondo interno (non lo vede) s’instaura lo stesso dialogo impossibile che c’è tra Nunez e i ciechi: il primo descrive ciò che “vede” con l’occhio della mente, ossia un mondo interno che minaccia di disgregarsi e che solo il delirio riesce a reintegrare ed a lui ciò pare una realtà (soggettiva) evidente; i secondi, privi di questo “occhio”, sanno solo percepire dichiarazioni in contrasto con la realtà esterna e giudicano, perciò, quanto egli dice come “farneticante”.
Come spesso accade al paziente delirante, il condizionamento avversativo causato dalla minaccia di isolamento ed emarginazione, induce Nunez a piegarsi al modo di concepire le cose degli altri:
La valle divenne, per lui, il mondo; e il mondo di là dai monti, ove gli uomini vivono alla luce del sole, finì per sembrargli una fiaba” [27, pag. 253]
Tra noi psichiatri, è tale la fiducia che riponiamo nella “bontà” dei farmaci che spesso c’interessa poco il motivo per cui il paziente li assume, l’importante è che lo faccia. Come accade in molti casi di “compliance” forzata, anche la paura di perdere l’approvazione e l’affetto delle persone care agisce come potente condizionamento avversativo: dopo aver tentato, per l’ultima volta, di convincere la fidanzata a non imporgli l’operazione, a risparmiargli la vista, Nunez sembra crollare: “… “E se io acconsentissi?” disse egli alla fine, con voce molto sottomessa” [27, pag. 256]
Tuttavia la “resistenza al trattamento” e la ribellione alla castrazione che esso comporta, finiscono per prevalere in Nunez: egli fugge, senza essere sicuro di sopravvivere nel difficile percorso che lo attende, rinuncia alla sicurezza e agli agi della sua convivenza coi ciechi, rinuncia anche all’amore, pur di salvare i suoi occhi e, con essi, la possibilità di vedere le bellezze della natura e la “vastità sconfinata” del cielo. Non è, questa, la stessa motivazione che spinge molti pazienti psichiatrici a rinunciare alla tranquillità della convivenza tra i “normali”, pur di salvare il proprio “occhio della mente” e, con esso, la possibilità di mantenere un contatto con se stessi? A cosa dobbiamo attribuire quest’atteggiamento? Alla malattia del paziente oppure alla “cecità” dei curanti? 
 
IV – Vedenti e “ciechi”: la ricerca su neuroni specchio e empatia
Le difficoltà di dialogo tra “vedenti e ciechi” riguardano non solo la clinica, ma anche la ricerca scientifica. Particolarmente importante è lo studio sulla possibile base neurobiologica dello stesso “occhio della mente” nella sua funzione di percepire, come introspezione vicariante, la vita interiore dei nostri simili. Una certa rilevanza ha assunto, negli ultimi anni, l’indagine sul sistema dei “neuroni specchio”, percepibile anche dai “ciechi”, e sul suo possibile rapporto con l’empatia, accessibile solo ai “vedenti”.
– Breve introduzione alla ricerca sui neuroni specchio Com’è noto, i neuroni specchio furono scoperti nella corteccia frontale inferiore e parietale posteriore del macaco usando dispositivi, impiantati chirurgicamente, capaci di monitorare l’attività bioelettrica dei singoli neuroni. Un neurone specchio si attiva sia quando la scimmia s’impegna in una specifica azione, sia quando essa osserva la stessa azione compiuta da un altro individuo; di conseguenza, s’ipotizzò che i neuroni specchio attivino la rappresentazione motoria di un’azione diretta verso un oggetto e consentano alla scimmia di comprenderne gli obbiettivi: “io so cosa costui intende fare, dato che so cosa intenderei fare se facessi la stessa azione che vedo fare”. Condizioni per l’attivazione dei neuroni specchio nel macaco sono che questi veda o conosca l’oggetto su cui si compie l’azione, che quest’azione rientri nel suo repertorio motorio e/o che l’azione sia stata osservata numerose volte dall’animale. L’attivazione dei neuroni specchio durante l’osservazione, perciò, non è un invariabile e preciso riflesso di un’azione altrui [26, pag. 527, 528]. A dispetto di quanto viene spesso divulgato, l’esistenza di veri e propri neuroni specchio non è ancora accertata negli esseri umani. Su questi, infatti, l’uso di micro-elettrodi non è possibile e perciò si usano tecniche di misurazioni indirette, in particolare quella di neuro-imaging. Essa comporta problemi di scarsa risoluzione, in quanto consente di registrare, attraverso la rilevazione dei livelli di ossigeno nel sangue, l’attività di gruppi di migliaia di neuroni, ma non di singoli neuroni; non sappiamo, perciò, se la riproduzione di un’azione osservata e la sua esecuzione siano operate dallo stesso neurone, oppure se siano compiti suddivisi tra neuroni differenti. La risonanza motoria riscontrata anche negli esseri umani è stata perciò attribuita ad un “sistema” di neuroni definito, per analogia con quanto avviene nella scimmia, “sistema dei neuroni specchio”. Sulla base di questi dati, è stata formulata l’ipotesi della “simulazione incarnata”, ossia di una riproduzione, a livello somatico, e in particolare neuronale, di un movimento osservato, che consente di comprenderne il senso.  L’esistenza, nell’insula anteriore e nella corteccia cingolata anteriore, di sistemi che operano in modo simile a quello dei neuroni specchio ha consentito di estendere l’ipotesi della simulazione incarnata anche alla sfera affettiva; si è parlato, a questo proposito, di “sistema dei neuroni specchio e sistemi correlati” [26, pag. 562].
– Le reazioni nel mondo della psicoanalisi Il rilievo, negli studi sul cervello, di dati coerenti con alcuni concetti psicoanalitici ha suscitato, nel mondo della psicoanalisi, reazioni contrastanti. La discussione, negli ultimi anni, si è incentrata sulla possibilità che il sistema dei neuroni specchio, costituendone la possibile base neurobiologica, “convalidi” la capacità di accedere alla vita interiore del paziente nell’ambito del trattamento psicoanalitico. Alcuni credono in tale possibilità, sostenendo che l’esistenza di tale sistema “chiarisca” fenomeni psicologici fondati sulla comunicazione da inconscio a inconscio quali l’apprendimento imitativo, l’identificazione, il transfert, il controtransfert e soprattutto l’empatia [26, pag. 551, 552]. Si può ravvisare, in tale posizione, anche la speranza (o l’illusione?) di una possibilità di dialogo con i “ciechi”, ossia con gli psichiatri che non credono nel mondo interno: se si riconduce l’empatia, ossia la possibilità di accedere a tale mondo, ad una realtà oggettiva che anche i “ciechi” sanno percepire, allora la “legittimità scientifica” della psicoanalisi potrà finalmente essere ammessa unanimemente e confermata. Altri dissentono, sostenendo che un’integrazione tra neuroscienze e psicoanalisi sia prematura, o non necessaria e fuorviante [26, pag. 526]. Altri ancora sostengono che questo studio interdisciplinare sia persino pericoloso per l’analisi del profondo: esso alimenterebbe la falsa convinzione che “solo ciò che è biologico è reale” [52, pag. 552]. Quale può essere, in questo dibattito, la posizione di uno psichiatra di formazione psicoanalitica? Ossia di un medico che, pur usando tutti gli strumenti di cui dispone la psichiatria, pone al centro del suo lavoro la vita interiore del paziente? Per rispondere a questa domanda è qui necessario aprire una parentesi riguardo ai rapporti tra psicoanalisi e pratica clinica psichiatrica.  
– Rapporti tra psicoanalisi e psichiatria Per uno psichiatra clinico, come chi scrive, la psicoanalisi è un importante “laboratorio di ricerca” paragonabile alla ricerca sui farmaci. Egli sa che, in entrambi i tipi d’indagine, le condizioni in cui si trova ad operare il ricercatore sono diverse da quelle della pratica clinica corrente: i pazienti, in un ambito di ricerca, sono selezionati in base agli scopi e alle possibilità della ricerca stessa. In ambito psicofarmacologico, trattandosi di testare l’efficacia di un farmaco su di una specifica patologia, i pazienti debbono presentarla allo stato “puro”, senza alcuna forma di comorbidità. In ambito psicoanalitico i pazienti sono selezionati in base alla presumibile efficacia di questo tipo di cura, ossia alla possibilità che i problemi della mente del paziente possano essere risolti dalla mente stessa, senza un’eccessiva interferenza di fattori di ordine somatico o sociale. Lo psichiatra clinico, viceversa, sa bene di trovarsi quasi sempre di fronte a un “groviglio” di disturbi psichiatrici di diverso tipo, spesso intrecciati con problemi medici generali o assistenziali. È per lui, pertanto, necessario trasporre “cum grano salis” i risultati dei vari tipi di ricerca nella sua pratica terapeutica. Ciò vale anche per la ricerca effettuata da lui stesso: per chi ha portato a compimento un training psicoanalitico, è facile allestire un “laboratorio di ricerca”  con pazienti selezionati nel suo stesso ambulatorio. Questo tipo di lavoro è probabilmente il modo più efficace per preservare la psicoanalisi dal pericoloso isolamento in cui la sta ponendo l’ideologia dei “ciechi” della “neurologia dei sintomi mentali”.
Lo psichiatra che abbia conservato il suo “occhio della mente” continua a porre al centro della sua attenzione la vita interiore del paziente. Tuttavia egli deve anche agire su quei fattori, di ordine somatico e sociale, che sulla vita interiore possono interferire in modo decisivo. Egli si avvale, pertanto, principalmente di tre strumenti d’indagine. Il primo è la sua capacità di comprensione introspettivo-empatica, che gli consente di accedere alla sfera soggettiva del malato. Il secondo è l’osservazione oggettiva (fondata sulla “estrospezione”) con la quale si può comprendere quanto accade in una dimensione sociale. Il terzo è la sua facoltà d’indagare sui fenomeni somatici. Questa si avvale della capacità d’entrare in sintonia con un livello arcaico, “protomentale” o psico-fisico indifferenziato, della mente del paziente, ossia quella parte della sua soggettività più vicina alla dimensione del corpo; capacità, questa, che consente di rilevare informazioni che vengono corroborate (ma non offerte in prima istanza) dai dati dell’estrospezione (esame obbiettivo, prove strumentali, esami di laboratorio, ecc.). Il possesso di tale attitudine permette di distinguere, a parità di preparazione e d’esperienza, il medico dotato di maggiore sensibilità diagnostica da quello che ne dispone in misura minore [15, 18]. Lo psichiatra deve ricorrere a quest’ultimo strumento d’indagine soprattutto in due circostanze: quando deve fare diagnosi e stabilire il ruolo di alterazioni corporee quali eventuali fattori causali o concorrenti somatici alla base delle disfunzioni psichiche; inoltre quando, con pazienti non altrimenti raggiungibili dalla relazione terapeutica (soprattutto gli psicotici), deve agire direttamente sul substrato organico delle alterazioni mentali allo scopo di rendere il malato più recettivo al dialogo e alla cura.
Per poter passare agevolmente dall’indagine sulla dimensione psichica a quella sulla sfera somatica (e viceversa), lo psichiatra deve aver superato quel “evitamento fobico” e quel “isolamento ossessivo” del corpo che spesso caratterizzano, rispettivamente, il terapeuta che si occupa “a tempo pieno” della mente e quello che tratta esclusivamente il corpo [15]. Trattandosi di atteggiamenti difensivi, gli si richiede, perciò, d’aver acquisito un dominio sulle proprie resistenze a capire ed una libertà interiore ancora maggiori di quanto ci si aspetta da uno psicoanalista “puro”.
– Il punto di vista della psichiatria psicodinamica sul dibattito Avendo presumibilmente superato le suddette resistenze, lo psichiatra di formazione psicoanalitica può essere in grado di assumere, nel dibattito di cui si parlava più sopra, una posizione meno probabilmente viziata da atteggiamenti difensivi.
Come si diceva, alcuni analisti vedono, nello studio interdisciplinare su sistema dei neuroni specchio e empatia, il “pericolo” di alimentare la “falsa convinzione che solo ciò che è biologico è reale”. Si tratta del rischio che si affermi la distorsione cognitiva tipica degli psichiatri “ciechi” (ossia della “neurologia con sintomi mentali”); distorsione cognitiva fondata, come si è visto, su esigenze di ordine difensivo. Tuttavia gli analisti posseggono, in genere, lo “equipaggiamento interiore” che consente loro di porre sotto il controllo dell’Io le difese; e questo sia riguardo ai pazienti, sia a se stessi. Ciò viene ottenuto aumentando il livello di consapevolezza, ossia affrontando i problemi e non eludendoli, come tende a fare il paziente fobico o la persona non analizzata. Come mai, viceversa, viene qui proposto di “evitare” un confronto con la neurobiologia? Si ha la netta sensazione che qui lo “equipaggiamento interiore” razionale dell’analista sia insufficiente ed egli contrapponga ad un atteggiamento difensivo (l’isolamento ossessivo del corpo, per cui solo questo sarebbe “reale”) un altro atteggiamento difensivo, ossia l’evitamento fobico del corpo, per cui esso sarebbe “pericoloso”.
In altri analisti che, al contrario, sostengono l’opportunità di un confronto con gli studi sul cervello, si possono notare segni di cedimento alla “ideologia dei ciechi”. Si spera, ad esempio, che studi interdisciplinari di questo genere offrano dati coerenti con i concetti psicoanalitici e, con ciò, essi “convalidino”, fornendone evidenza empirica, i risultati terapeutici del trattamento psicoanalitico; risultati tuttora messi in discussione [26, pag. 526]. Ma che bisogno hanno i risultati terapeutici di una convalida di ordine biologico? Se il paziente, oltre che la scomparsa dei sintomi (obbiettivabile), avverte introspettivamente una maggiore libertà interiore ed il suo essersi riappropriato di parti di lui stesso finora escluse dalla coscienza (con l’influenza favorevole sul suo stile di vita che ciò comporta); tutto questo non rappresenta già una “convalida” sufficiente e, per di più, appropriata? Si ravvisa qui, piuttosto, la speranza di convincere i “ciechi” (che ai dati dell’introspezione non credono perché non li sanno “vedere”) fornendo loro una “evidenza empirica” che anch’essi sapranno percepire; tuttavia, nel tentativo di persuaderli, si finisce per adottare l’assunto della loro “ideologia”, ossia che solo ciò che è oggettivo e biologico è “reale”.
Altri ancora sperano, attraverso i dati della neurobiologia, di dirimere questioni ancora aperte all’interno della psicoanalisi. In particolare, si suppone che i dati sul sistema dei neuroni specchio possano confermare l’esistenza di una possibilità di accesso diretto alla esperienza interiore altrui. Si afferma, perciò, la “rilevanza clinica” del sistema dei neuroni specchio quale substrato neurobiologico dell’esperienza affettiva che costituisce un aspetto dell’empatia. L’attivazione di esso, secondo chi sostiene quest’opinione, può bypassare ogni elaborazione cognitivo-linguistica, consentendo di “sentire” direttamente ciò che avviene nel mondo interno del paziente [2]. Da parte di questi autori si ritiene, in altre parole, che quanto si è appreso sul sistema dei neuroni specchio possa “segnare un punto” a loro favore rispetto a chi sostiene che un’elaborazione cognitiva o cognitivo-linguistica sia comunque parte integrante ed essenziale dell’atto di comprensione empatica della mente altrui. Tale posizione è criticabile per un duplice motivo. Innanzi tutto si parte dal presupposto che ciò che non è stato ancora chiarito utilizzando gli strumenti d’indagine della psicoanalisi possa esserlo usando quelli della biologia. Ancora una volta, si finisce per sostenere il primato degli altri sensi rispetto all’occhio della mente, e questo nell’ambito della sfera soggettiva, a cui solo l’occhio della mente può accedere direttamente. Non significa questo, in ultima analisi, negare l’importanza dei fatti soggettivi, vale a dire cadere nell’atteggiamento dei “neurologi dei sintomi mentali”, ossia dei “ciechi”? In secondo luogo, si parte dal falso presupposto che i dati della biologia, a differenza di quelli della psicoanalisi, siano, nella loro interpretazione, incontestabili. In realtà, riguardo alla funzione del sistema dei neuroni specchio, esistono ipotesi alternative a quella della simulazione incarnata, formulata da Gallese; e sinora nessun dato della ricerca ha confermato o smentito l’uno o l’altro tipo di spiegazione. Ad essere messa in discussione è l’ idea di Gallese che la simulazione, operata dal sistema dei neuroni specchio, informi le strutture cerebrali deputate all’elaborazione cognitiva e quindi alla comprensione degli stimoli ricevuti. Tra queste ultime rientrerebbero, in particolare, le zone della corteccia prefrontale mediale associate alla “teoria della mente”, funzione che vedremo più sotto [26, pag. 542, 543]. All’estremo opposto di Gallese si colloca Csibra: secondo quest’Autore la simulazione è la conseguenza della comprensione dell’esperienza interiore altrui. La comprensione, quindi, condurrebbe alla simulazione prodotta dal sistema dei neuroni specchio (e non viceversa) e quest’ultima rappresenterebbe il culmine (e non l’inizio) del processo di comprensione [26, pag. 540]. L’incertezza tra i due tipi di spiegazione dipende dall’imprecisione degli strumenti d’indagine attualmente disponibili. La tecnica della neuroimaging, infatti, non consente ancora di cogliere la sequenza temporale dell’attivazione dei neuroni situati nelle aree cerebrali coinvolte.
Un dato importante, che potrebbe contribuire a dirimere la questione, ci viene da un ambito di ricerche psicologico e non neurobiologico: la “teoria della mente” (ossia la capacità di formulare ipotesi su quel che avviene nella mente altrui) non si sviluppa, in genere, prima dei tre anni di età. Nel periodo precedente, il bambino attribuisce agli altri gli stessi pensieri e convinzioni che avverte nella propria mente [19, pag. 60]. In tale epoca precoce, perciò, la trasmissione di contenuti mentali altrui al bambino deve avvenire o per il tramite di una forma di simulazione “pura”, oppure in virtù di una forma di elaborazione cognitiva diversa da quella che conosciamo negli adulti. Se questa, poi, costituisca la causa, o la conseguenza della simulazione, o se rientri in un rapporto di causalità circolare con quest’ultima è questione che, per ora, rimane in sospeso. È, tuttavia, da considerarsi l’ipotesi che tale forma arcaica di contatto (che come tutti gli altri sedimenti di fasi evolutive precedenti, deve permanere nella psiche [6]) ci aiuti a comprendere l’empatia adulta e a dirimere le questioni aperte che la riguardano.
– Un’esigenza di ordine “politico” Colpisce innanzi tutto che, almeno per quanto risulti al sottoscritto, gli studi interdisciplinari sulle funzioni mentali di cui il sistema dei neuroni specchio può essere il substrato, si siano concentrati soprattutto sul rapporto tra tale sistema e l’empatia dello psicoanalista. Se ne ricava l’impressione che qui abbia prevalso l’esigenza di contrastare le critiche degli psichiatri “ciechi” riguardo all’attendibilità di questo strumento d’indagine della psicoanalisi; critiche volte ad escludere tale disciplina dal novero delle scienze. Si tratta, quindi, di un’esigenza difensiva, più di ordine “politico” che propriamente scientifico.
Una preoccupazione dello stesso genere era già presente, e proprio sul tema dell’empatia, quando ancora non si conosceva l’esistenza dei neuroni specchio. Kohut, nel suo scritto del 1959 [8], aveva affermato che ciò che distingue la psicoanalisi da altre discipline (fondate, queste ultime, sull’osservazione dei dati oggettivi o “estrospezione”) è l’uso della capacità di comprensione introspettivo-empatica quale strumento elettivo d’indagine. A questo proposito, Brenner mosse una sua obiezione:
“Non sono convinto della correttezza di quest’affermazione. C’è una differenza d’importanza fondamentale tra l’approccio della psicoanalisi, da un lato, e, dall’altro lato, quello della psicologia o filosofia introspettiva. Quest’ultima si occupa dei pensieri e sentimenti dell’osservatore, mentre la psicoanalisi si occupa dei pensieri e sentimenti di un’altra persona che li riferisce all’osservatore” [Citato in 10, pag. 85]
La risposta di Kohut è che sebbene l’osservazione introspettivo-empatica accomuni la psicoanalisi alla filosofia introspettiva, tuttavia ciò che la differenzia è che “questo tipo di osservazione, nella psicoanalisi, è posto al servizio di una scienza empirica, mentre ciò non succede nell'introspezionismo filosofico o nella psicologia introspettiva: queste rimangono o esclusivamente descrittive, oppure compiono un salto verso alti livelli d’astrazione, senza il passaggio attraverso teorie intermedie” [10, pag. 85]
Di fronte alle associazioni libere del paziente, Brenner e Kohut sembrano porsi in due modi sostanzialmente diversi: per Kohut, ascoltarle significa partecipare empaticamente al tentativo del paziente di “guardarsi dentro”. Già nel 1959 aveva affermato che le associazioni libere, in analisi, non sono da intendersi come “comportamento” osservato dall’analista, ma come atto di spontanea introspezione di cui l’analista è testimone; un testimone partecipe in quanto egli usa l’empatia quale “introspezione vicariante”, giovandosi di una sua “trained introspective skill”. [8, pag. 209]. Per Brenner, al contrario, ascoltare il paziente significa registrare un fenomeno oggettivo di comunicazione. Il primo propone un uso prevalente della sensibilità empatica, il secondo un uso esclusivo delle facoltà cognitive, ossia della comprensione del significato delle comunicazioni verbali. Il modo di porsi di Brenner di fronte alle comunicazioni del paziente è in contrasto con quanto proposto da Freud nel 1912:
[il medico] deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso il malato che trasmette… Come il ricevitore [del telefono] trasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano state prodotte da onde sonore, così l’inconscio del medico è capace di ristabilire, a partire dai derivati dell’inconscio che gli sono comunicati, questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato” [4, pag. 536, 537]
Per Kohut, il rifiuto di Brenner di riconoscere l’evidente ruolo centrale dell’empatia, quale metodo di raccolta di dati, è riconducibile al desiderio di liberare l’analisi da ogni sospetto di appartenere a forme (non scientifiche) di “introspezionismo filosofico” o di “sentimentalismo compassionevole” (i “ciechi” confondono l’empatia con la compassione); impostazioni, queste, che porterebbero ad una “cura tramite l’amore” [10, pag. 93]. Non si tratta, qui, della stessa preoccupazione di ordine “politico” che oggi porta alcuni analisti ad appoggiarsi alla teoria dei neuroni specchio?
– Patologia dell’empatia: i disturbi dello spettro autistico L’urgenza di tutelare la psicoanalisi ha messo in ombra il principio fondamentale, ampiamente confermato in tutte le indagini, che è lo studio della funzione malata che permette di comprendere quella sana. Il punto di partenza (anche di uno studio interdisciplinare) dovrebbe, perciò, essere non l’indagine sull’empatia degli analisti, ma quella sulla  più grave forma patologica di questa funzione mentale: la capacità di comprensione empatica, assente o carente o gravemente compromessa, che caratterizza la “incompetenza relazionale” dei pazienti dello “spettro autistico”. Lo studio approfondito di questa psicopatologia potrebbe meglio indirizzare le indagini interdisciplinari sul substrato neurobiologico dell’empatia, sia nelle sue forme integre, sia in quelle malate; e qui le conoscenze sul sistema dei neuroni specchio potrebbero davvero acquistare una loro “rilevanza clinica”. Se, tuttavia, consideriamo la definizione dei disturbi dello “spettro autistico” quale compare nel DSM-5, notiamo che qui la psicopatologia è completamente scomparsa: inserito tra i “Neurodevelopmental Disorders” [1, pag. 31], esso è “caratterizzato da deficit in due ambiti essenziali: 1) deficit nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale 2) patterns ripetitivi di comportamento, interessi, ed attività” [1, pag. 809]. Quindi: alterazioni neurobiologiche non meglio precisate, aspetti del comportamento oggettivamente rilevabili e nient’altro: la mente, nella sua dimensione soggettiva, è completamente esclusa; come se, per il fatto che questi pazienti non sono capaci di comunicare quanto avviene nella loro vita interiore, tale vita interiore non esistesse. Quanto percepibile dallo “occhio della mente” è del tutto ignorato: l’ideologia dei “ciechi” ha avuto la meglio. Tuttavia, come possiamo trovare il substrato neurobiologico di una vita soggettiva alterata se la vita soggettiva stessa è disconosciuta?   
Per quanto si è detto, è da altre fonti, diverse dal DSM-5, che dobbiamo cercare informazioni e ipotesi su quanto avviene nel mondo interno dei pazienti dello spettro autistico. Il quadro clinico più grave di questo gruppo di affezioni, lo “Early Infant Autism” (EIA) descritto originariamente da Kanner, è caratterizzato da : 1) profonda mancanza di contatto affettivo (ad esempio, non c’è alcun incontro con lo sguardo dell’altro) 2) desiderio ossessivo di mantenere lo status quo 3) fascino per oggetti inanimati, manipolati con abilità (anche per la voce umana quando, registrata, diviene oggetto inanimato) 4) mutismo, oppure linguaggio usato per fini diversi dalla comunicazione 5) presenza di buon potenziale cognitivo (rilevabile, nei mutacici, nell’abilità nei test di performance) [19, pag. 57]. Un’apparente soppressione dell’autocoscienza (probabilmente a carattere difensivo) può essere ritenuta il fondamento dei vari aspetti di quest’affezione. Nell’ambito dell’autocoscienza, o consapevolezza della propria attività mentale, si colloca la capacità introspettiva – Per inciso, si può dire che l’autocoscienza stia all’introspezione come la più generale capacità di vedere sta a quella di osservare particolari oggetti o fatti del mondo esterno – L’introspezione è collegata con l’empatia, in quanto introspezione vicariante. La sua assenza spiega la profonda “incompetenza relazionale” del paziente autistico, spinta al punto di evitare ogni possibile contatto affettivo con i propri simili. L’investimento affettivo è spostato sugli oggetti inanimati, probabilmente vissuti come più facilmente controllabili e dominabili. La mancanza di un’istanza relazionale spiega il mutismo. Il linguaggio (o altre modalità espressive, che nell’autistico sono assenti) nasce, infatti, dal desiderio o dalla necessità di entrare in contatto con gli altri. La soppressione dell’autocoscienza, infine, spiega la refrattarietà ai cambiamenti. È, infatti, l’autocoscienza che “struttura il computo del tempo e quindi la storia e il culto dei morti” [19, pag. 58]: la coscienza della continuità nel tempo dell’Io (ossia la consapevolezza di essere sempre se stessi, anche attraverso i cambiamenti cui si è andati incontro) consente di cogliere ciò che si era e ciò che non si è più, ciò che si possedeva e ciò che si è perduto. Il paziente autistico, al contrario, ha bisogno di vivere in un eterno e immutabile presente, e questo lo ottiene lottando contro ogni più piccolo cambiamento; e lottando anche a costo di rimetterci la vita. Un paziente autistico manifestava la necessità continua e ossessiva di limarsi le unghie con il suo kit. Quando la madre glielo gettò dalla finestra, egli fece la medesima cosa con se stesso, uccidendosi. Un ossessivo vero e proprio avrebbe cambiato kit o tipo di compulsione; viceversa questo paziente, in quanto autistico, non poteva tollerare alcun cambiamento: la vita, senza il suo kit, era per lui divenuta invivibile [19, pag. 56].
Sempre nell’ambito dello spettro autistico, troviamo la sindrome di Asperger, simile all’Autismo di Kanner, ma con esordio oltre i tre anni (mentre l’Autismo di Kanner si manifesta già nel primo mese di vita) e con acquisizione di linguaggio. Qui, infatti, la caduta dell’istanza relazionale è posteriore, ed il linguaggio, già appreso, viene conservato. A differenza dell’autismo di Kanner, che ignora la presenza dei propri simili, l’Asperger li inserisce nel proprio mondo, benché in modo ossessivo [19, pag. 56, 57]. Anche qui troviamo un certo grado di incompetenza relazionale, caratterizzata dall’assenza o dalla grave compromissione della capacità di comprensione empatica. Il contatto con gli altri viene piuttosto mediato dall’ipertrofia di altre facoltà mentali. In alcuni, in assenza di meccanismi automatici ed intuitivi di comprensione (di “presa immediata”), le interazioni umane si basano prevalentemente sui processi deduttivi e si caratterizzano per goffaggine e per comportamenti da automa. Un esempio è il caso di Temple Grandin, un’intelligente paziente dello spettro autistico, che, nelle sue memorie, descrive rapporti interpersonali faticosi, privi di “presa diretta” sul mondo altrui, e fondati esclusivamente sulla deduzione e sulla formulazione di teorie [26, pag. 566]. In altri casi, prevalgono l’imitazione e l’apprendimento imitativo, vale a dire un tipo di simulazione che non consente di comprendere la reale natura del comportamento altrui [19, pag. 55, 56]. Notiamo che, in quest’ultimo tipo di patologia, sono presenti, in forma anomala, ipertrofica e isolata, alcune facoltà che sono state poste in rapporto con l’empatia, vale a dire la simulazione e l’elaborazione cognitiva.
Cercando di riassumere: nella patologia dello spettro autistico troviamo, ipertrofiche o assenti, alterate o isolate (e perciò più facilmente comprensibili riguardo alla funzione che assumono nella persona sana), alcune facoltà mentali che hanno a che vedere con l’empatia: l’autocoscienza, le capacità deduttive, il linguaggio e l’imitazione. Rivediamo quanto si è appreso, tramite ricerche in ambito psicoanalitico, su alcune di tali facoltà, allo scopo di capire se questi studi sono in grado d’indirizzare quelli interdisciplinari meglio di quanto si sia ottenuto partendo dall’empatia dello psicoanalista.
– Imitazione, identificazione, autocoscienza ed empatia Il primo affacciarsi sul mondo dell’essere umano è caratterizzato dalla “identificazione primaria” con l’oggetto arcaico. Essa è definita da Laplanche e Pontalis come “modo primitivo di costituzione del soggetto sul modello dell’altro, senza una previa relazione con l’oggetto posto come indipendente. L’identificazione primaria corrisponde direttamente alla relazione detta di incorporazione orale” [12, pag. 220].
Per  Kohut, un processo di questo genere avviene per il tramite di una “empatia primaria”, in virtù della quale sentimenti e comportamenti materni sono inclusi nel Sé. Si tratta, secondo questo Autore, della più primitiva forma di percezione empatica che, avvenendo nell’ambito di una concezione narcisistica del mondo, appartiene alle capacità innate [9, pag. 451, 452]. Il termine “empatia” appare, qui, inappropriato. L’empatia, infatti, presuppone due soggetti che, pur ponendosi l’uno “nei panni” dell’altro, restano tra di loro distinti. L’identificazione primaria, viceversa, avviene per definizione senza una previa relazione oggettuale e, nella sua forma arcaica, prima del costituirsi di due individualità separate. Più precisa, in proposito, appare la descrizione di Gaddini. Quest’Autore parte dagli aspetti concreti e corporei del rapporto tra neonato e madre: la percezione della genitrice e l’incorporazione del nutrimento materno. L’una e l’altra costituiscono “modelli funzionali somatici” che si convertono in “modelli psichici paralleli”. Riguardo alla percezione primitiva della madre, essa è “fisicamente imitativa” in quanto “nelle prime settimane di vita, il bambino percepisce modificando il proprio corpo in relazione allo stimolo” [7, pag. 161, 162]. – Detto per inciso: non è, già qui, adombrata la stessa funzione di “simulazione incarnata” che, 26 anni più tardi, verrà attribuita al sistema dei neuroni specchio? – Sul modello di tale fatto, prevalentemente fisiologico-somatico, si sviluppa il processo psichico della “imitazione”: il modello fisico “imitare per percepire” si tramuta nel modello psichico parallelo, in cui percepire diventa “essere”. “Imitare per percepire” diventa cioè “imitare per essere”…” [7, pag. 162]. Quanto alla incorporazione del nutrimento materno, essa costituisce il modello sulla base del quale si sviluppa la “introiezione”, processo psichico che consente di assimilare le più intime qualità della genitrice. La natura del processo per cui modelli funzionali somatici vengono convertiti in modelli psichici paralleli era sconosciuta ai tempi del saggio di Gaddini così come, a quanto risulta al sottoscritto, lo è anche oggi. Tale passaggio sembra implicare l’esistenza, già in questo stadio precoce, di funzioni cognitive quali la capacità di astrarre e rilevare analogie e differenze; questo, almeno, è il modo in cui descriveremmo questo tipo di elaborazione mentale in un adulto. Deve, sicuramente, trattarsi di capacità innate che si manifestano di gran lunga prima che si sviluppino il linguaggio, la “teoria della mente” ed anche una vera e propria coscienza. Imitazioni e introiezioni rimangono continuamente attive e, ponendosi al servizio di esigenze difensive, possono rimanere tra loro isolate ed andare incontro ad un’evoluzione di tipo patologico. In condizioni sane una parte delle une e delle altre viene integrata nel processo di identificazione il quale mira a suturare i fenomeni dell’area percettivo-imitativa (sensoria) con quelli dell’area incorporativo-introiettiva (orale), in funzione dei processi superiori dell’Io nel rapporto col mondo reale” [7, pag. 170]. La “area percettivo-imitativa” e quella “incorporativo-introiettiva” costituiscono due dimensioni, dapprima separate, in cui viene percepito l’oggetto primario. Nella prima, fondata sugli organi di senso che permettono di cogliere l’oggetto a distanza, vengono percepite le qualità esteriori; nella seconda, fondata sugli organi di senso che richiedono un intimo contatto (il tatto e soprattutto il gusto) vengono percepite qualità altrettanto intime dell’oggetto. L’area percettivo-imitativa e quella incorporativo-introiettiva appartengono  a due modi, in un primo momento distinti, di disporsi verso l’oggetto: “…“ciò che si vorrebbe essere”, e “ciò che si vorrebbe possedere”. Il fatto che essi possano essere vissuti come una sola e medesima cosa non vuol dire che lo siano” [7, pag. 164]. Solo con il processo d’identificazione l’essere (esteriormente) come l’oggetto viene integrato con il possederne le qualità. La sola imitazione, isolata, porta a pseudo-identificazioni imitative quali si possono riscontrare, come si è visto, nei disturbi dello spettro autistico ed in altri tipi di patologia, ad esempio nel falso sé, in alcune parafilie e nelle fasi acute della schizofrenia.
L’identificazione con l’oggetto arcaico può avere carattere sano o patologico. Nel primo caso, il bambino si trova nelle condizioni di cogliere ed assimilare le qualità materne che più si adattano a dare forma alla sua specifica natura, così come è già definita nella sua base costituzionale. Nel secondo caso assistiamo ad un tentativo di “sequestro”, da parte di una madre disturbata, della mente del figlio. La madre, per la sua patologia, non sa adattarsi all’indole del bambino e questi, nello sforzo di adattarsi lui alla genitrice, può sviluppare una pseudo-identificazione imitativa: grazie all’imitazione, egli manifesta le qualità esteriori materne; tuttavia non c’è introiezione di quelle più intime, per lui “indigeste”. In questo modo, si può formare un falso sé la cui funzione è proteggere quello vero da interferenze materne nocive [28]. Nel caso di un rapporto sano, chi e tramite quale facoltà seleziona le qualità materne più adatte? Che sia il bambino stesso tramite una “empatia primaria” è da escludersi per i motivi visti più sopra. Il piccolo, di per sé, può solo accogliere quanto gli viene offerto, tramite l’imitazione e l’introiezione. Nell’ambito della simbiosi, quindi, non può che essere la madre a “dare in prestito” al neonato la propria capacità introspettivo-empatica. Per questa capacità condivisa è stata proposta la denominazione di “unipatia” [3]. L’unipatia, in quanto capacità di comprensione empatica “data in prestito”, potrebbe anche contribuire a spiegare il passaggio dai modelli funzionali somatici a quelli psichici; passaggio nel quale vengono colti contenuti mentali che non potrebbero essere percepiti dal solo contatto corporeo.
L’unipatia, come tutte le funzioni acquisite in fasi precoci, permane, negli “strati” più profondi della mente, anche nelle fasi successive. Indizi della sua esistenza sono stati riscontrati, nella situazione analitica, in una dimensione intersoggettiva denominata in vario modo dai diversi Autori: “campo intersoggettivo” [23], “personalità condivisa”  [24], “terzo analitico” [17]. Tale dimensione nasce dalla fusione di una parte della mente del paziente con una parte di quella dell’analista; nell’ambito di essa, ciò che è avvertito dall’uno lo è anche dall’altro. Ciò non significa affatto che la coscienza del terapeuta possa, senz’altro, accedere direttamente al mondo interiore del paziente bypassando ogni elaborazione cognitiva o cognitivo-linguistica: ad essere fuse e condivise sono solo due parti della psiche dell’uno e dell’altro. Quanto viene avvertito unipaticamente nella parte condivisa subisce l’interferenza delle resistenze (nate da paure, desideri, nonché da ingiunzioni e divieti superegoici) che appartengono all’altra parte. Per poter distinguere quanto, nell’ambito della risposta controtransferale, è riconducibile a quel che ha compreso unipaticamente da quanto è dovuto alle sue resistenze personali, l’analista deve operare un lavoro mentale (nonché attuare verifiche) nel quale svolge un ruolo importante quella “teoria della mente” (di cui si è parlato più sopra) che consiste nel formulare ipotesi sulla mente altrui. L’altro è colto come tale: simile ma mai identico; e questa è la pre-condizione necessaria affinché non vengano attribuiti al paziente desideri, paure o convinzioni che appartengono, in realtà, al solo terapeuta. L’elaborazione cognitiva è pertanto sempre presente, benché spesso in forma inconsapevole, nell’atto di comprensione empatica.
Da quanto si è detto, si desume che l’empatia è una operazione complessa, che integra funzioni preesistenti antiche, quali la comprensione unipatica, con altre acquisite in epoca più recente, come la “teoria della mente”. Essa consiste nel percepire l’altra persona “dal suo interno” e, nello stesso tempo, dall’esterno, come “altro”. In quanto funzione complessa, è molto probabile che, in uno studio interdisciplinare, si debba ricercarne il substrato neurobiologico in strutture ed in interazioni altrettanto complesse; ed è poco probabile che il solo sistema dei neuroni specchio possa costituire la base del suo funzionamento complessivo. Come si diceva più sopra, è lo studio della funzione malata che può aiutare a chiarire quella sana. In particolare, come si è anche detto, in alcuni pazienti dello spettro autistico, ed in altri psicotici in cui la capacità di comprensione empatica è compromessa, essa è sostituita dalla imitazione. La “percezione imitativa” è solo una delle modalità con cui viene colto l’oggetto arcaico; essa, in questi pazienti, viene isolata dalle altre (a fini difensivi) e, in quanto isolata, può più facilmente costituire un oggetto di studio. Un suggerimento che chi parte dalla conoscenza della sfera soggettiva può offrire ai neurobiologi è di ricercare nella percezione imitativa e nell’imitazione, patologicamente separate dalle altre funzioni, ciò di cui il sistema dei neuroni specchio può costituire la base biologica. D’altra parte, i neuroni specchio sono stati individuati ed accertati nella loro esistenza, innanzi tutto, nella scimmia; ed è noto come in questo animale sia spiccata la tendenza ad imitare (da cui la parola “scimmiottare”), senza comprendere il reale senso dell’azione osservata. Insistere nel cercare nel sistema dei neuroni specchio la base biologica dell’empatia (e continuare a considerare la biologia come guida per la comprensione della mente, e non viceversa) comporta il rischio di chiamare “empatia” ciò che, in realtà, è solo percezione imitativa. Ciò implicherebbe che una tale pseudo-empatia ottenga una “legittimazione scientifica”, ossia venga considerata come strumento attendibile per poter comprendere il paziente. Si finirebbe, in altre parole, per avere, del malato, una visione “bidimensionale”, fondata solo su aspetti esteriori e comportamenti oggettivamente rilevabili: ossia il modo di concepire l’essenza della malattia che appartiene alla “neurologia dei sintomi mentali” degli psichiatri “ciechi”.
 Se l’unipatia esiste fin dall’inizio della vita, come si può spiegare che il bambino, prima dei tre anni, attribuisce agli altri le stesse sensazioni e convinzioni che avverte nella propria mente? In realtà, l’unipatia agisce incontrastata solo all’inizio dell’esistenza, in fase simbiotica, quando per il bambino non c’è altra possibilità che mettersi completamente “nelle mani” della mamma. Più avanti, quando si costituisce un’individualità separata, un contatto troppo intimo con la soggettività di un altro implica la minaccia che la propria mente, fondata ancora su basi fragili, ne venga sequestrata o annientata. Ciò che viene percepito unipaticamente diviene, perciò, un pericolo. Ecco perché il bambino contrappone, alla sua capacità di comprensione unipatica, un’apparente e totale ottusità su quel che accade nella mente altrui. Ed ecco anche perché egli sembra oscillare, nel suo rapporto con gli adulti, tra tale ottusità ed un’acuta sensibilità per gli stati d’animo degli altri. È esperienza di tutti i genitori che, quando in famiglia esistono motivi di grave apprensione, il bambino ne viene inevitabilmente contagiato, per quanti sforzi si facciano per nascondergli i problemi. Per contro, si può percepire con chiarezza che, quando la famiglia è serena, il piccolo ne viene influenzato favorevolmente. Solo quando la vita soggettiva individuale si è rafforzata tramite numerose identificazioni secondarie (più selettive di quella primaria e fondamento di strutture compensative), e solo quando si è sviluppata una capacità d’investimento oggettuale e l’altro, amato quando possibile, non è più necessariamente un pericolo; solo allora l’individuo può concedersi, sotto il controllo dell’Io, un contatto intimo con alcuni dei propri simili. Parallelamente la funzione della “teoria della mente” si è attivata e sviluppata. Tutto questo consente d’integrare l’unipatia nella più complessa funzione dell’empatia. La capacità di comprensione empatica può svilupparsi pienamente, quindi, solo in una mente sana ed evoluta. L’analisi, cui si sottopone il terapeuta ad indirizzo psicodinamico, ha lo scopo di portare a compimento tale evoluzione; evoluzione che viene soffocata e disconosciuta da chi, difensivamente, si è privato dello “occhio della mente”.
Altri tipi di studio che, operati con lo “occhio della mente” nell’ambito della sfera soggettiva, possono indirizzare la ricerca neurobiologica, sono quelli sulle relazioni tra empatia, identificazione e autocoscienza. Un’Autrice recente [25] sostiene che il concetto di empatia, più che essere in rapporto con quello di identificazione, “coincide parzialmente” con esso, ma ha anche possibili connotazioni difensive. Condividere empaticamente l’esperienza del paziente, secondo questa analista, significa porre l’accento su quanto questi già avverte e conosce di se stesso. Ciò implica un “prendere distanza di fronte al rischio di invasione identificatoria” che si verificherebbe se il paziente venisse colto nella sua totalità, includendo i contenuti mentali, rimossi o scissi, di cui il paziente non si rende conto. Ella considera, come modo privilegiato di comprensione, che consente l’accesso immediato all’interiorità del paziente, un tipo di identificazione assimilabile a quella primaria. Identificazione, questa, che includerebbe, più che “ciò che il paziente sa o crede di sapere”, piuttosto “ciò che egli non conosce e non esprime in parole; ciò che desidera pur non sapendolo” [25, pag. 863, 864]. Facendo riferimento all’identificazione primaria, l’Autrice pare alludere ad un modo di comprensione di tipo unipatico che, a suo giudizio, sarebbe più affidabile e meno soggetto ad un uso difensivo di quello empatico. Resta da capire che cosa, rapportandosi con il paziente a questo modo, possa preservare il terapeuta dal “rischio di invasione identificatoria”; rischio piuttosto serio nel trattamento di pazienti gravemente sofferenti. Se consideriamo la dimensione intersoggettiva del rapporto terapeutico, il modo in cui il curante mantiene la propria integrità ci è più chiaro. L’identificazione con il paziente, infatti, si verifica solo in quel settore della personalità del terapeuta che fa parte del campo interpersonale (o personalità condivisa); la rimanente parte della sua mente ne rimane libera. Ciò consente al terapeuta di preservare, insieme ad una sua vita soggettiva autonoma, quelle capacità di auto-osservazione e di elaborazione cognitiva che gli rendono possibile la comprensione del paziente e, nello stesso tempo, il mantenimento del dominio su se stesso. Si tratta, quindi, di una identificazione, parziale o accessoria, che non coinvolge il nucleo centrale dell’esistenza soggettiva del terapeuta; ed, in questo, tale identificazione si distingue da quella primaria. Se si considera non una pseudo-empatia con scopi difensivi, ma l’empatia vera e propria, si può comprendere come essa sia tale solo se subordina ai propri scopi, integrandole, altre funzioni come la capacità di auto-osservazione, la comprensione unipatica nell’ambito dell’identificazione parziale con l’altro e l’elaborazione cognitiva. Si tratta, quindi, di una funzione complessa che non può essere confusa con l’una o con l’altra delle sue componenti, come sembra fare l’Autrice sopra menzionata, la quale riconduce l’empatia alla sola identificazione.   
Un’ultima considerazione merita l’autocoscienza o capacità d’auto-osservazione. In “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” [5], Freud pone questa facoltà tra le funzioni di quell’istanza (che più tardi denominerà Superio) prodotta dall’interiorizzazione dell’ influsso parentale: “nel delirio di essere osservati la scissione di questa istanza diventa palese rivelando la propria provenienza dagli influssi delle autorità, in particolare dell’autorità parentale” [5, pag. 298]. L’esperienza di “essere osservati” dai genitori viene, quindi, interiorizzata come capacità d’osservare se stessi. Un rapporto sano consente ai genitori di comprendere i figli cogliendo la loro personalità nel suo complesso: ogni aspetto particolare della loro vita soggettiva o del loro comportamento acquista, così, un senso alla luce di tale comprensione globale. Analogamente farà l’individuo con se stesso grazie alla sua autocoscienza, come pure con un’altra persona quando si tratterà di capirla empaticamente. La percezione della mente come un “tutto” è, perciò, il “punto di partenza” di ogni indagine, sulla sfera soggettiva, che impieghi la capacità di comprensione introspettivo-empatica. La ricerca neurobiologica, al contrario, non può che procedere da ciò che è più semplice e particolare a ciò che è più complesso ed articolato; ed essendo la cognizione di sé (o dell’altro) come un “tutto” quanto di più complesso esiste nella nostra mente, è presumibile che la comprensione del suo substrato sia un “punto d’arrivo” ancora lontano da raggiungere. Da questo punto di vista, la neurobiologia e la scienza della soggettività si muovono, l’una verso l’altra, procedendo la prima dal particolare al globale e la seconda in direzione opposta. Esse, nel futuro, sono destinate ad incontrarsi; ma, prima che ciò avvenga, dobbiamo aspettarci, ancora per molto tempo, apparenti discordanze e “gap”. Per il momento, la conoscenza dei processi mentali, nella loro dimensione soggettiva, è molto più complessa, articolata e capace di cogliere sfumature di quanto sia la conoscenza neurobiologica dei meccanismi cerebrali corrispondenti. Se si pensa che gli studi sul cervello possano insegnarci qualcosa riguardo alla mente, tale complessità è a rischio [26, pag, 572]. È, perciò, interesse della ricerca che sia, al contrario, la conoscenza della mente a costituire una guida per lo studio del cervello. Procedere diversamente, pur di assecondare la “ideologia dei ciechi”, finirebbe per limitare ed impoverire entrambi i campi d’indagine.  
 
V – Uno sguardo sulla cultura del nostro tempo
Esiste, attualmente, un crescente fondamentalismo religioso, soprattutto d’importazione; fondamentalismo che, fatto di dogmi e d’intolleranza, tende ad uccidere la ragione. Per contro, esiste una concezione materialistica che, negando l’importanza della vita interiore, tende a soffocare la sensibilità. A quest’ultima tendenza appartiene la ideologia dei “ciechi” della “neurologia con sintomi mentali”. In mezzo, esposta agli attacchi dell’uno e dell’altra, c’è una cultura umanistica laica, razionale e aperta alle esigenze del mondo interno, cui appartengono la psicoanalisi e la psichiatria psicodinamica. Questo orientamento culturale, passato attraverso le esperienze del Rinascimento e dell’Illuminismo, tiene in vita e nutre sia la ragione, sia la sensibilità. Il crollo di questa cultura, favorito più o meno consapevolmente dai suoi nemici interni, significherebbe un grave passo indietro per l’intero genere umano: si produrrebbe un’umanità “monca”, priva della capacità di produrre vera Scienza e/o vera Poesia.
Si è osservato che, in tempo di crisi o di decadenza, gl’intellettuali (anche quelli di grande valore) tendono a rifugiarsi nella vita interiore, spirituale, e ad ignorare i problemi del mondo esterno [22]. Oggi, in periodi analoghi, esiste anche un altro tipo di “rifugio”: quello del mondo delle cose concrete; e questo grazie a condizioni materiali di vita rese favorevoli dall’evoluzione tecnologica. Ciò che accomuna le due posizioni difensive è l’esigenza d’evitare un confronto tra mondo esterno e mondo interno, tra ciò che si percepisce al di fuori di sé e ciò che si avverte nel proprio intimo. La concezione materialistica è emotivamente fondata sul presupposto che ciò che proviene dalla vita interiore sia superfluo o, paradossalmente, espressione di un mondo che “non esiste”. Altro presupposto, complementare al primo, è che la realtà materiale e sociale in cui viviamo sia, di per sé, sufficiente ad assicurarci una vita confortevole, sicura, e che ciò non richieda alcuna forma di autoconsapevolezza. Ecco perché tutto ciò che proviene dal mondo interno e che potrebbe mettere in crisi una tale visione rassicurante, tende ad essere negato o soppresso nelle sue manifestazioni. Ad esempio, l’ansia e la depressione, le più comuni manifestazioni di disagio, tendono ad essere disconosciute come segnali di “qualcosa che non va” nel mondo interno, ma ad essere considerate come semplici “fastidi”, privi di senso, che possono essere spiegati solo in base alle alterazioni biologiche che le producono e che debbono essere soppressi al più presto, tramite i farmaci. Altro esempio: i rischi che i rapporti umani (inevitabilmente) comportano: la negligenza dei medici, gli abusi degli educatori, ecc.. Anche qui le ragioni del mondo interno sono disconosciute e ci si priva, perciò, della possibilità di comprendere (e quindi trattare e prevenire adeguatamente) le manifestazioni di tali aspetti anomali della vita interiore. Ci si illude di poter evitare i rischi rendendoli “materialmente” impossibili, tramite regole e controlli sempre più rigidi che finiscono per “ingabbiare” i rapporti, privandoli, così, della loro spontaneità e, in ultima analisi, della loro utilità [20].
L’indagine sul mondo della natura ha compiuto, negli ultimi secoli e soprattutto negli ultimi decenni, enormi progressi. Ciò è stato ottenuto adottando un metodo sperimentale e superando una visione antropomorfica di quanto è inanimato o lontano dalla natura umana; questo implica l’esclusione sistematica, da parte dell’osservatore, di ogni proiezione sul mondo esterno di ciò che appartiene a quello interno. Fin qui, si tratta di una linea di condotta razionale e ineccepibile. Sappiamo, tuttavia, che i princìpi e i valori della cultura cui apparteniamo tendono ad essere interiorizzati nell’istanza superegoica e qui, se posti al servizio di esigenze difensive, divengono il contenuto di ingiunzioni e divieti interiori [Parsons, citato in 24]. Ecco perché, quando viene adottata una concezione materialistica a carattere difensivo, il “divieto” di interpretare ciò che è oggetto d’indagine sulla base di realtà interiori, diviene assoluto ed esteso ad ogni campo di ricerca, anche quando si tratterebbe di comprendere il comportamento umano. Se, ad esempio, siamo arrivati ad escludere che, dietro i tuoni e i fulmini, ci sia “l’ira di Giove” (aspetto antropomorfico legato alla proiezione di un atteggiamento onnipotente e permaloso della nostra vita interiore) ciò ci consente d’interpretare correttamente questi eventi naturali come fenomeni elettrici. Ma se tale esclusione diviene oggetto di una rigida ingiunzione superegoica, essa ci rende ciechi di fronte a particolari aspetti della vita soggettiva: se un paziente ci parla con voce “tonante” e ci “fulmina” col suo sguardo, allora sì che l’idea della “ira di Giove” ci può servire: essa ci aiuta a comprendere un aspetto onnipotente e permaloso del suo mondo interno che, in quel momento, sta dominando la scena. La stessa ingiunzione superegoica porta, attraverso razionalizzazioni “filosofiche” anche ingegnose (ricordiamoci della “filosofia” dei ciechi di Wells!), a ritenere che sia “scientifico” solo quanto è oggettivo o obbiettivabile, ossia ciò che è oggetto di estrospezione. Se, viceversa, possediamo lo “occhio della mente”, possiamo facilmente comprendere che tale modo di vedere le cose non è affatto scientifico, in quanto esclude e disconosce una parte della realtà, quella soggettiva; e questo in funzione di esigenze interiori di ordine difensivo e non conoscitivo.
La difesa di una Psichiatria che si avvale dello “occhio della mente” dagli attacchi di una psichiatria cieca e senza psiche è, come si è visto, parte di una più ampia battaglia che oppone la cultura umanistica laica al fanatismo religioso ed alla concezione materialistica. Si tratta, qui, di difendere l’autocoscienza, ossia la facoltà che ci consente di vivere appieno come autentici esseri umani, e non come “bruti”. L’autocoscienza, infatti, risulta “ingabbiata” e paralizzata dalla visione dogmatica del fondamentalismo religioso ed è disconosciuta e tendenzialmente annientata dalla concezione materialistica. In tale battaglia, la cultura della ragione e dell’occhio della mente si trova, in parte, in posizione svantaggiata, ma possiede anche elementi di superiorità sugli avversari. Sia la concezione religiosa fanatica, sia quella materialistica sono, strutturalmente, del tutto simili a deliri sistematizzati. Come tali, esse sono caratterizzate dalla certezza assoluta delle convinzioni e dalla totale refrattarietà alla confutazione logica e all’evidenza dei fatti. Esattamente all’opposto, il pensiero razionale comporta la tolleranza del dubbio e l’apertura a realtà che possono modificarlo e correggerlo. L’individuo sensibile e razionale usa queste sue facoltà per la ricerca della verità; ricerca che procede sempre in modo incerto, richiedendo riflessioni, verifiche o smentite delle ipotesi, ripensamenti. I deliranti o i fanatici, al contrario, non conoscono queste incertezze e, nelle discussioni, si rifiutano di aprirsi a nuove ipotesi. Il loro scopo non è la ricerca della verità, ma l’affermazione perentoria di “verità” che per loro sono indiscutibili. Una tale sicurezza, (che si avvale anche di espedienti dialettici e di argomenti preconfezionati, validi per tutte le occasioni) spiazza la persona razionale, soprattutto quando le tesi deliranti sono sostenute dalla maggioranza dei presenti. Il sentirsi in minoranza crea un senso di soggezione e d’inferiorità che può spingere, in parte o del tutto, a piegarsi e cedere al modo di vedere (o di non vedere) degli altri. Il punto di forza, che gli avversari non possiedono, è, viceversa, la ragione. Infatti una forma di pensiero può essere considerata razionale solo quando è frutto di emancipazione interiore (ossia di libertà da esigenze di ordine difensivo) e quando è aperta a tutti gli aspetti della realtà: a quella esterna ed a quella che solo la sensibilità (l’occhio della mente) consente di percepire; e questa autentica ragione appartiene alla cultura umanistica laica e non alle tendenze che le si oppongono. La voce della ragione, sostiene Freud, è flebile, ma insistente; la ragione bussa alla nostra porta e continuerà a farlo fino a quando non otterrà udienza; e questo si suppone possa avvenire nella maggior parte delle persone non affette da delirio. È la fiducia in quest’aspetto dell’essere umano che può consentire di non scoraggiarci e, viceversa, continuare a sostenere il punto di vista dell’occhio della mente, senza limitarci a restare in posizione di difesa.

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