Recensione : Byung-Chul Han, La società della trasparenza

Share this
2 ottobre, 2015 - 11:21
Autore: Byung-Chul Han
Editore: Ed. Nottetempo, Roma
Anno: 2014
Pagine:
Costo:
Inseriti in processi e movimenti sociali iper-accellerati e senza scopo. Incapaci di riprodurre forme rituali e cerimoniali dotati di una teleologia narrativa, e quindi di uno scopo e di un tempo. Estroflessi in una oscenità iconica perpetua, una pornografia dell’esposizione che non rivela né nasconde nulla nella estetizzazione anestetica della propria intimità, vaghiamo sospinti in un tempo atomizzato, puntiforme, psicotico. Nel quale l’accelerazione additiva delle informazioni e delle immagini, frammenta l’esperienza in un insieme schizofrenico di attimi che si sovrappongono incessantemente.
Questa è la società della trasparenza di Byung-Chul Han. Una società pornografica che non ha più nulla da nascondere poiché, appunto, non ha più nulla da rivelare.
Ogni linguaggio, ogni oggetto, ogni segno, immagine, azione, vengono tradotti secondo i criteri della operatività, della sommatoria quantitativa, sottoposti quindi alla misurabilità e al controllo. Tutto diventa, in nome della trasparenza e della positività incondizionata, livellato e pronto per essere fluidificato nell’incessante flusso della circolazione perpetua del capitale, delle merci, delle informazioni e della comunicazione.
Tutto deve assumere in se stesso la forma della positività assoluta.
L’antipartitismo attuale rivendica la mancanza di una bandiera, di un colore, di una propria specifica ideologia, lasciando il passo alla mera amministrazione dei rapporti socio-economici e dei bisogni pubblici già presenti, senza la possibilità di produrre nuove coordinate sociali.
I “Like” di facebook: non c’è un “Dislike”, non c’è un “non mi piace”, poiché il negativo provocherebbe un arresto, uno stop, un blocco all’interno del flusso informativo e dell’accumulazione economica del capitale.
La medicalizzazione integrale: il dolore (qualsiasi dolore) come segno di un disfunzionamento organico, della frattura di un rapporto, di un conflitto psicofisico, è necessariamente da curare perché rappresenta una imperfezione del sistema umano, il quale deve poter funzionare bene. E quindi deve essere sedato, placato, eliminato all’istante e con qualunque mezzo, sempre più farmacologico che psicologico a dire il vero.
La chirurgia estetica: i corpi chirurgicamente purificati dal negativo non modificano semplicemente un naso storto o un labbro leporino. Le forme corporee devono assumere una ridondanza, una sovrabbondanza di forma, un eccesso di stile per poter diventare eccitanti, per poter sedurre. O meglio, per essere sexy rispetto alla immagine che si ha di sé. Gli zigomi si alzano, le labbra si gonfiano, i seni si fanno esplosivi: i corpi positivizzati, per non mancare di nulla, si rigonfiano, si slanciano, si arrotondano cercando di colmare ogni mancanza, ogni imperfezione. E così ogni corpo finisce per assomigliare a un altro nel tentativo di imitare qualche immagine di copertina. Le stesse rughe, temibili “nulla” corporei, si positivizzano anonimizzando il volto, nel momento in cui vengono riempite come canali di scolo dal botox.
La trasparenza, cioè l’estroflessione integrale del dentro in un fuori espositivo, rappresenta il mezzo privilegiato di questo processo di espropriazione intima di ogni specificità, di ogni alterità, di ogni negativo. In nome della trasparenza, ogni privatezza, il proprio spazio intimo di riservatezza, pudore e dignità, assume in questa maniera un livellamento formale, una uniformazione omologatrice la quale è l’analogon stesso della trasparenza. L’uomo diventa un elemento funzionale del sistema.
Nella esposizione c’è uno svuotamento ermeneutico delle cose e delle persone, le quali, attraverso la rete, si trasformano esse stesse in immagini “oscene”, come nelle foto di facebook. Oscene nel senso che la loro superficie incontaminata non rinvia ad una qualche profondità o contenuto: le immagini rappresentano semplicemente tutto quello sono, e quel che è, nella sua estrema traslucidità, non è null’altro da ciò che è.
L’interiorità viene estroflessa, diventando in questo modo pornografica. L’immagine in questo modo non è nemmeno più un dire rinviante, significante. Essendo pura trasparenza, puro oggetto di esibizione, non spinge ad alcuna traduzione di senso, né a una decifrazione di significati possibili, ma semplicemente a una divorazione compulsiva. La valanga di informazioni in immagine non permette quella latenza della contemplazione, quella distanza speculativa da “abitare”, capace di arieggiare la coscienza, permettendole di articolare una riflessione possibile sui suoi stessi contenuti.
Il paradigma della trasparenza, stratificatosi ed estesosi in modo trasversale a tutte le umane attività – dalla politica alla economia, dai dispositivi ai processi sociali nel loro insieme – ha espunto l’alterità a tutti i livelli. Il tempo futuro, con la sua precarietà sottostante di eventi incontrollabili e imprevedibili, viene purificato dal negativo trasformandosi in un presente sempre disponibile, ottimizzato, razionalizzato, ridotto a una successione puntiforme di attimi consumabili. La trasparenza del tempo.
Il livellamento del negativo avviene attraverso la misurazione del denaro che rende uguale ogni cosa, perché ogni cosa si fa cifra indistinta di scambio, e cioè una pura merce. Se tutto ha un prezzo, ogni cosa assomiglia necessariamente a un’altra.
Il linguaggio stesso diventa operazionale, formale, meccanico. Esso non rinvia a null’altro se non a un sistema che tende, attraverso l’eliminazione del negativo, dell’ambivalenza, della differenza, alla perpetuazione della propria circolazione intrinseca. Ma è il fine stesso, lo scopo intrinseco ai processi narrativi – di qualunque genere – che deve essere eliminato: poiché la narrazione implica una scelta di significati, una selezione di senso, e quindi rappresenta un ostacolo alla positività assoluta della trasparenza integrale. La quale deve approvare tutto. Incondizionatamente e indistintamente.
Come sottolinea l’Autore ricordando Sartre, il corpo diviene o-sceno quando non è orientato, quando cioè non è in situazione: quando non ha alcun referente intenzionale a una determinata “scena”, appunto. In questo modo, ogni suo movimento si fa stereotipato, diventa cioè eccessivo, di troppo. Se non è diretto a una qualche azione, a un qualche scopo, il corpo si rivela nella fatticità oscena della carne. Questo vuol dire che non “produce senso”, perché non vi è alcuna narrazione: i suoi gesti, i suoi movimenti, diventano osceni poiché non vi è un raccordo tra i significati, non c’è quindi collegamento, senso.
I processi sociali, eccessivi, protesi alla iper-creatività, alla iper-produzione e alla massificazione incontrollata e senza scopo, sono dunque osceni, pornografici. Sono una pura esposizione di sé, puro piacere espositivo fine a se stesso.
Ogni processo produttivo incalza oltre se stesso e i propri fini, cortocircuitando qualsiasi scopo dunque: perché effettivamente ciò che conta è il “processo” stesso di accelerazione incontrollata delle merci, del capitale e della comunicazione, e cioè la sua libera circolazione.
Il corpo capace di riferirsi drammaturgicamente a una determinata coreografia, situazione, eventualità, allora, diventa un problema per la libera circolazione integrale, poiché assume uno spessore ermeneutico che abbisogna di tempo per essere decifrato. Ecco allora che esso si fa, nella esposizione della trasparenza integrale, osceno, pornografico, offerto alla percezione oculare che non desidera altro che mantenere la propria continuità con i propri oggetti.
Nel mondo della trasparenza, assistiamo infatti a una continuità narcisistica tra l’occhio e le cose. Gli oggetti non rivelano nulla, perché, offerti nella loro disponibilità immediata, trasparente, lo spazio del negativo che gli occorrerebbe per potersi esercitare un rilascio di senso viene forcluso.
La realtà non oppone più resistenza, ma invita continuamente alla divorazione degli oggetti che presenta nel suo flusso costante. Non c’è più la possibilità per il soggetto di esercitare alcuna critica, di rintracciare uno spessore ermeneutico nelle cose, di alimentare la propria fantasia, e quindi di ricondurre a un senso il mondo che percepisce. Vi è una tale aderenza pornografica tra la percezione e gli oggetti percepiti, da incrementare un ingabbiamento circolare del soggetto con i suoi stessi oggetti di consumo. È qui che viene a prodursi e ad alimentarsi un processo narcisistico epidemico di dimensioni globali, che sta alla base di tantissimi disturbi contemporanei.
Non c’è più uno iato interno capace di segnare un confine, una differenza tra sé e sé, e tra sé e l’Altro, e quindi tutto assomiglia a tutto rispetto alla percezione interna di sé, perché ogni cosa è presentata ed esposta come totalmente aderente ai propri desideri indistinti, fantasie, godimenti.
Il narcisista non riesce a rivelare nulla a se stesso, perché non c’è più distanza tra sé e la propria immagine, e dunque non può esercitare alcun gioco con le proprie rappresentazioni interne. In ogni cosa il narcisista vuole ritrovare se stesso, finendo per annegare in questa maniera nella propria illimitata mescolanza con la sua stessa intimità. Una intimità continuamente estroflessa, esposta, la quale si irrigidisce così in una esposizione di esposizione che non tollera, secondo il principio della trasparenza, alcun segreto.
Ciò che conta infatti è sempre la proliferazione incontrollata, fluida e senza ostacoli del capitale, delle merci, delle informazioni.
L’espunzione del negativo, dell’alterità, è funzionale a questa circolazione permanente, rispetto alla quale possibile rimanere in contemplazione: non è possibile fermarsi a riflettere poiché ogni immagine, ogni informazione, merce, può passare e sfuggirci di mano. Non tornerà mai più.
La divorazione diventa il nuovo imperativo categorico della società della trasparenza.
Di fronte all’accumulazione incontrollata dei segni e degli oggetti, non possiamo che ingurgitare, divorare, ingozzarci. Pena, la sperimentazione di un vuoto profondo che potrebbe portarci alla morte violenta, intesa questa come mancanza priva di senso. Ma è questa stessa trasparenza a essere violenta.
Molte delle narrazioni rituali sono scomparse, poiché oppositive, in quanto filtranti e discernenti, rispetto alla elaborazione possibile di questo flusso incontrollato. I riti e le narrazioni sociali intrinseche in essi, hanno infatti un loro fine, un loro tempo e un loro ritmo, che non coincidono con l’accelerazione senza tempo e senza scopo della circolazione perpetua. In questo senso, se le narrazioni rituali avevano al loro termine una “fine” intesa come compimento di un percorso costellato di significati, i quali venivano snocciolati ed esperiti durante le diverse fasi del rituale stesso, la possibilità di una interruzione del flusso viene a costituirsi come una crepa interiore priva di spessore.
Ma a ben guardare questa divorazione incontrollata e incontrollabile, questa estroflessione dell’interiorità in nome della trasparenza integrale, questa nuova porno-estetica visione del mondo eccedente, è in effetti una autodivorazione. La società narcisistica non cerca null’altro nelle cose che un frammento compiaciuto della immagine di sé, e la proliferazione digitalizzata e medializzata delle immagini del mondo, organizzando psicologicamente i suoi processi interiori di espressione, non può che ricondurre incessantemente il soggetto nei “limiti” di se stesso. Viviamo imprigionati in un auto rispecchiamento tragico di noi stessi, nel quale la negatività dell’Altro, e quindi qualsiasi occasione di cambiamento possibile, non possono più prodursi. Più che di divorazione quindi si deve parlare di auto cannibalismo mediale.
La società della trasparenza è una società che tende a riconfermare costantemente lo status quo, sotto lo specchio adulatore e meschino della immagine di sé come apparenza di libertà.
L’imperativo della trasparenza violenta il negativo della lontananza contenuto nella prossimità.
L’eros stesso cede il passo alla pornografia come aderenza senza iato tra l’occhio e l’immagine. Se la dimensione erotica viene a connotarsi in quanto tale a partire dalla ambivalenza dei segni, dallo scoprirsi “che nasconde” e dal rivelare “che cela”, dal rinvio stesso della scoperta, con la sua immediatezza del piacere offerto, con la trasparenza dei segni e delle immagini, la trasparenza elimina qualsiasi gioco, maschera, ambiguità. La trasparenza toglie qualsiasi velo. Come potrebbe prodursi il piacere, appunto, dello svelamento? Il piacere ha bisogno di tempo e di strade tortuose per alimentare la propria tensione interna. Ha bisogno che i suoi oggetti di desiderio rilascino una luce che filtri, a partire dal loro stesso misterioso occultamento. L’esposizione pornografica è talmente traslucida che annienta la fantasia erotica, la quale abbisogna di un velo che nasconde e rivela insieme per potersi alimentare, cedendo in questo modo il passo alla compulsione divorante delle immagini e degli oggetti, i quali non hanno effettivamente nulla da rivelare, né da nascondere, nella loro oscenità.
Il desiderio, contrariamente al godimento compulsivo, necessita di una distanza, di un progressivo allontanamento nonché di una anamorficità  della Cosa stessa, in senso lacaniano, per potersi sviluppare e dialettizzare, cioè per tendere “a”. C’è bisogno di una certa opacità rispetto all’Altro, affinché possano svilupparsi fantasie erotiche e una tensione attrattiva carica di desiderio. La prossimità accecante, invece, senza alcuna lontananza intrinseca alla prossimità, elimina la possibilità di questa distanza.
Ora, se l’Altro da me non si presenta nella sua effettiva Alterità, nella sua diversità, ma come l’altro omogeneo a partire dalla sua disponibilità rispetto al mio stesso piacere, l’incontro autentico che può portare al cambiamento si spezza, lasciando spazio all’accumulo indefinito dell’identico, dell’uguale, in un processo circolare unilaterale di riconferma dell’identico, del già conosciuto, del già dato. Nelle esperienza si incontra l’Altro come dice Han, nei vissuti invece si incontra se stessi. Attraverso i sistemi digitali e virtuali, non è più possibile incontrare l’Altro nella sua lontananza e “esternità”, poiché la prossimità digitale offre al soggetto solamente frammenti di mondo che possono piacere. In questo senso i processi critici vengono ridotti al minimo, e la dimensione della intimità, attraverso la tirannia della trasparenza, psicologizza tutto personalizzando qualunque cosa. Tutto diviene una estensione più o meno cosciente della mia privatezza, del mio ego. I rituali e le interazioni sociali, fatti di segni e regole oggettive, rischierebbero di strappare il soggetto a se stesso, di disperderlo in un vuoto abissale rispetto al desiderio spasmodico di aderenza a sé stesso.
Ma è proprio questo il problema: si ha paura di perdere se stessi, solo quando non ci si è mai posseduti veramente. L’inseguimento narcisistico delle immagini comincia da qui.  
La visione diventa ossessione quando si trasforma in una eco di se stessa.
Il prossimo è colui che si approssima continuamente senza che io riesca a penetrarne il segreto, a cogliere il mistero della sua cifra esistenziale, l’elemento ultimo della sua inviolabile singolarità. In questo senso egli, a partire dalla sua opacità, intenzionalità e libertà, si fa per me trascendenza di trascendenza come dice Sartre. Travalica continuamente cioè la mia stessa soggettività aprendo una crepa all’interno del mio io che cerca di penetrarlo, di coglierne l’essenza, restituendo in questo modo l’altro alla mia interiorità sotto forma di angoscia, ma anche di desiderio. L’altro, nella sua durezza ontologica, mi permette di confrontarmi con i limiti della mia soggettività, e al medesimo tempo occasiona l’articolarsi stesso del mio desiderio per lui. Nella società della trasparenza dice Han, l’Altro non è colui rispetto al quale il mio io viene spodestato e ricondotto all’angoscia dei suoi limiti. Tolto il negativo della diversità e della scoperta, a partire dalla trasparenza e della omologazione del capitale, l’Altro diventa semplicemente una mia estensione pulsionale di godimento fuori discorso: egli cioè diviene la rappresentazione allucinata del mio universo fantasmatico, il correlato inintenzionale della mia esperienza autotrofica di godimento. Gli oggetti in questo caso scompaiono non perché avvolti dal buio, ma perché de realizzano il proprio potere di significazione offertogli dal possibile rinvio di senso, a partire da una aderenza della visione e della immagine. La oscenità è la derealizzazione dei significati.
Le immagini ormai non parlano più perché, essendo dei puri simulacri privi di riferimento, rappresentano dei fuori controllo rispetto alla capacità di oggettivazione psichica e alla possibilità di penetrazione ermeneutica: in questo senso, sono più reali degli essenti, come dice l’Autore, poiché hanno raggiunto nella proliferazione incontrollata e nel non rinvio semantico della trasparenza, una autonomia  assoluta rispetto a qualsiasi decifrazione di senso capace di contenimento. Il culto contemporaneo delle cose non si riferisce più alla loro “esistenza”, ma alla loro possibilità di essere viste. L’antica credenza delle cose che soggiornano presso di sé, in se stesse, al di là del loro apparire, e quindi la loro necessaria distanza rispetto all’occhio che non deve violarne la sacralità e il mistero (come nei culti antichi delle Madonne), lascia il passo al valore di esposizione di esse, alla loro trasparenza senza distanza.
Se nelle antiche fotografie il volto dei propri cari emanava ancora un’aura cultuale rispetto al loro ricordo, nelle attuali foto digitali anche il volto diventa una faccia senza sguardo, la quale cede alla violenza voyeuristica dell’occhio pornografico le sue ultime briciole di negatività. Diventa pura trasparenza. Le immagini digitali respingono ogni  densità possibile di significazione, ma non per la loro eccedenza intrinseca di significati, e quindi per la loro ineffabilità criptica, o per la loro impossibilità di invecchiare, di divenire, di morire. Ogni negativo infatti è stato cancellato da queste foto, le quali non hanno bisogno di alcun “tempo” di elaborazione tecnica che le precede, né alcuna traccia della negatività temporale può scalfirne la superficie. Non testimoniando alcun prima né alcun dopo, le fotografie digitali non hanno alcuna densità semantica né alcuna concentrazione temporale. Esse non inducono ad alcuna narrazione personale che possa raccontare alcun “così è stato”, e quindi non possono disporre al lutto. Le fotografie digitali sono un puro positivo senza nascita e senza morte, sono pura esposizione in nome della trasparenza.
Riprendendo il discorso di Barthes sulla fotografia, Han mette in evidenza come le foto abbiano due elementi fondamentali rispetto ai quali l’osservatore può rinviare a se stesso: lo studium e il punctum. Lo studium è rappresentato dalla freddezza delle informazioni cui la foto mi rimanda, al desiderio di essa, al piacere e al gusto impulsivo della foto (mi piace/non mi piace); il punctum invece rappresenta quell’elemento incoercibile e ambiguo della foto, indecifrabile, che risospinge l’occhio all’interno di una propria zona psicologica di sospensione, di indefinitezza di senso, creando in questa maniera una ferita, una lacerazione interiore.
La fotografia, per penetrare nell’intimo, deve spalancare un abisso di incertezza e di non senso, deve cioè essere capace di elevare urlo ermeneutico all’interno della mia anima. Aprire cioè una crepa tra me e me stesso. È la stessa differenza che passa, nuovamente, tra l’erotico e il pornografico. L’erotico è abitato da un gioco infinito e crescente di segreti e di misteri, di svelamenti e di nascondimenti: in questo senso c’è una continua interruzione della indagine dell’occhio, che tenta invano di farsi strada nella velatezza e nel mistero dell’altro. Il pornografico, a sua volta, non rinvia ad alcuna interruzione, non rivela alcuna ambiguità, non senso. Vi è sempre continuità, nel pornografico, tra l’occhio e il suo oggetto di godimento, per questo non c’è desiderio in esso: e se c’è svanisce subito in una delusione della tensione erotica.
La foto pornografica non manca di nulla, non è abitata da alcuna distanza, da alcuna interruzione di senso, da alcun negativo. Essa non ha alcun segreto da rivelare, alcuna intimità da concedere, nella lotta con il pudore e con il rischio e il timore del dono. Le immagini contemporanee sono dunque pornografiche poiché chiassose, sono indecenti perché parlano troppo, senza tuttavia rivelare nulla: non c’è punctum in esse. Non c’è in loro una rottura interna capace di articolare il dialogo dell’occhio con se stesso. Manca il silenzio significante, la sospensione gravida di senso, di spessore ermeneutico, di esistenza. Identificabili con il reale stesso, le immagini non oppongono resistenza, e quindi non lasciano tracce né della loro nascita né della loro morte. Escono e rientrano nel loro nulla di senso continuamente, senza un motivo che non oltrepassi il loro valore di consumo.
Non c’è una vera bellezza in esse. Essendo la bellezza il rapporto misterioso e inviolabile tra ciò che l’immagine contiene e il suo involucro, la forma che vela e in-forma questo stesso contenuto ai nostri occhi, con il suo stesso nascondimento, nella trasparenza la bellezza viene rivoltata in esposizione attraverso il denudamento di tutti i contenuti. Non c’è più segreto, poiché tutto deve essere iper-esposto per essere reso visibile e quindi mercificato, fluidificato e messo in circolazione, in nome della libera espressione del capitale e del suo flusso perpetuo. La critica di Han a Agamben, mette in evidenza come l’esposizione pornografica delle immagini non sia propedeutica a una liberazione teologica della nudità – vista da Agamben come l’eros spogliato dai suoi residui teologici, e quindi la possibilità di rendere disponibile questa nudità profanata per un nuovo utilizzo sociale –, perché la spoliazione dell’intimità, la sua nudità è già pornografica. Essa è esposizione di esposizione, esibizione esibita. Non c’è alcun utilizzo “altro” rispetto alla nudità nella trasparenza, poiché anche il consumo solitario delle immagini pubblicitarie, pornografiche anch’esse nel loro continuo rinviare alla sessualità esibita, rappresenta una espressione altra della sessualità: la quale tuttavia non diviene un sostituto del suo utilizzo collettivo, poiché sia l’individuo che il Collettivo consumano le medesime forme di esposizione pornografica delle immagini.
La nuclearità, la profusione e la trasparenza degli apparati del sistema, lasciano emergere un discorso senza senso a partire dal quale tutto può essere reversibile con tutto, e al medesimo tempo tutto è tutto e nulla in se stesso.
Ogni soggetto è oggetto espositivo di se stesso. C’è una coincidenza tra soggetto e oggetto nella esposizione virtuale. Ogni segreto viene denudato volontariamente, spogliato del suo valore datigli dalla cura e dalla protezione nella riservatezza, ed esposto alla divorazione mediale altrui, pronto per essere divorato da sguardi bulimici voraci. La pornografia dell’occhio si rivela in questa promiscuità tra lo sguardo e ciò che vede, in una prostituzione inevitabile dell’occhio. Il quale, rimanendo impastato attraverso il suo interesse per le cose nelle cose stesse, non esercita alcuna distanza di riflessione tra sé e gli oggetti, non li oggettiva consapevolmente. Gli stessi Like, i “mi piace” di facebook non implicano alcuna riflessione, alcun esercizio di attenzione, diventando quindi compulsivi, pornografici nella loro scaricarsi rispetto agli oggetti visivi.
Lo sguardo si prostituisce impigliandosi nei prodotti del proprio interesse, denudandosi a se stesso. A volte si prova vergogna quando ci si lascia sopraffare dalla compulsione dei Like. Non essendoci più distanza tra sé e gli oggetti percepiti, viene a mancare la “lontananza nella prossimità”, la quale riusciva a restituire un tempo quella grammatica di significati riferibili agli oggetti, i quali potevano essere in questa maniera “visti”, “riflessi” alla coscienza, e quindi definiti nella loro specificità attraverso una distanza interna. Ora, gli oggetti non scompaiono perché obnubilati dalla oscurità, ma perché illuminati da un eccesso di luce intrinseca. Essi cioè scompaiono per la troppa prossimità, per un eccesso di adesione dell’occhio all’immagine, nel suo darsi radicale alla percezione divorante, a partire dall’imperativo categorico della trasparenza integrale.
Le informazioni di tutti sono disponibili a tutti, e al medesimo tempo tutti si espongono e sono esposti gli uni agli altri, in virtù della trasparenza degli apparati, della espropriazione di qualsiasi privatezza, di qualsiasi opacità. Sotto l’egida del controllo, e dello sfruttamento del profitto. Il panottico digitale non avendo alcun centro o periferia a partire dal quale esercitare il controllo della trasparenza, diventa a-prospettico, esercitando in questo modo un controllo globale e trasversale assoluto. È l’occhio di Dio, il quale è dappertutto e in nessun luogo. L’idea di libertà del digitale proviene da questa assenza di prospettiva unilaterale di controllo percepibile, la quale invece, nella sua assenza integrale di prospettiva, moltiplica la sua efficienza e potenza controllante.
Ma a ben guardare, come sostiene l’Autore, è l’iper-comunicazione trasparente di tutti gli utenti ad alimentare il panottico stesso. Tutti i soggetti che intervengono nella rete, espongono loro stessi alla visibilità altrui, in un bisogno di denudamento di fronte agli altri il quale rinforza questo stesso sistema controllante. È la cosiddetta “democratizzazione del controllo”.
Il senso di libertà del digitale e del virtuale, ulteriormente, proviene dalla scomparsa di una istanza di dominio esterno, in favore tuttavia di uno sfruttamento interno, che tenta di assecondare il proprio bisogno di esposizione mediale. Il soggetto prova il sentimento della libertà perché viene eliminato lo sfruttamento da parte di terzi, cedendo tuttavia in questa maniera a una servitù molto più sottile e invisibile, e quindi più pericolosa: quella dell’auto-sfruttamento. Come sottolinea giustamente Han, l’auto-sfruttamento interno è un dispositivo molto più efficace rispetto al controllo e allo sfruttamento esercitato dall’esterno, perché si accompagna a un sentimento di libertà, che viene spesso strenuamente difeso dagli utenti, i quali vedono in esso un diritto inalienabile. Ma l’auto-illuminazione nella trasparenza, forse, è già alienazione.
 
La paradossologia umana assume oggi, come proprio paradigma centrale, quello della interconnessione globale multipla, nella quale la persona ha l'impressione di vivere in una attualità assoluta priva di lacerazioni. La tecnologia ci ha permesso di acquisire, volenti o nolenti, la capacità ubiquitaria dei mistici e dei santi. Potenzialmente, ma ben più che realmente (il potenziale supera in quanto a valore di verità simbolica il reale), siamo vicini a chiunque, dovunque, sempre e in ogni momento. Tuttavia, questa coagulazione percettiva tra soggetti, questa apparente coscienza globale collettiva che sembra radicarci istantaneamente dove vogliamo e con chi vogliamo, non produce alcun cambiamento essenziale, al di là dell'ansia di un nuovo contatto possibile, o pseudo tale. Siamo connessi gli uni agli altri, ma questa connessione sembra mancare di quel contatto essenziale con la differenza dell’Altro, ormai diventato l’identico, un semplice numero da aggiungere alla lista. 
Dispersi in un oceano di unità anonime connesse tra loro, i singoli oramai non appartengono più a loro stessi, a partire da una rete significatoria di rapporti circoscritti e rinvianti, capaci quindi di narrare una biografia con un inizio e una fine. In questa dimensione, ognuno di noi altro non rappresenta che lo "scarto connettivo" tra una informazione scambiata e una appresa. Tra una foto condivisa e un'altra cliccata.
Siamo punti di snodo intercambiabili di una rete che, come nei sistemi cibernetici, ci trascende e ci ingloba come suoi propri feedback. L'appercezione di se è dell'altro si presenta qui, ora, come una variabile differenziale all'incrocio di flussi migratori di bit di informazioni. 
Connessione senza contatto.
 
 
 
[1] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996
 
[2] J. Baudrillard, Le strategie fatali, tr. it. di S. D’Alessandro, Ed. Feltrinelli, Milano, 2007
 
[3] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Ed. Feltrinelli, Milano, 2002
 
[4] Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, tr. it. di F. Buongiorno, Ed. Nottetempo, Roma, 2015
 
[5] G. P. Quattrini, Fenomenologia dell’esperienza, Zephyro Edizioni, Milano, 2006
 
[6] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. del Bo, Ed. il Saggiatore, Milano, 2002

 
 
 

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 3104