Alcune riflessioni sull’esposizione mediatica alla violenza

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2 ottobre, 2015 - 15:52
Sentiamo sempre più spesso in questi ultimi anni, fin quasi all’inevitabile assuefazione, notizie di violenze di diverso tipo perpetrate su donne, vittime di compagni e mariti che, nella maggior parte dei casi, non si rassegnano alla fine di una relazione affettiva.[1] Dalle notizie che apprendiamo dai media, sembrerebbe che la violenza scatti all’improvviso, segno di un raptus folle che quanto più spesso viene tirato in ballo tanto meno deve apparire credibile alle orecchie di un ascoltatore attento. E in effetti è così: a pensarci bene, tale spiegazione non solo non è credibile, ma nemmeno tecnicamente corretta, né tantomeno dovrebbe essere considerata deontologicamente accettabile per un giornalista perché svilisce in modo approssimativo un tragico fenomeno sociale. Eppure è proprio questo il rischio – quello della superficialità di giudizio - che corre la nostra collettività se i mezzi di comunicazione continueranno a mantenere il carattere ripetitivo e sensazionalistico con cui notizie di questo tipo vengono diffuse.
Iniziando a riflettere con più calma sul problema in questione, occorrerebbe per prima cosa tenere presente che i protagonisti di queste tristissime vicende sono delle persone, e questo vale sia per la vittima di un reato (di solito una donna, altre volte anche dei minori) che per l’esecutore (di solito un uomo che coi primi ha un rapporto emotivamente vincolante). Quando c’è di mezzo l’immagine e la reputazione di privati cittadini che non hanno scelto di dare alla propria vita una dimensione pubblica, ma soprattutto quando ci sono di mezzo il loro dolore e la loro sconfitta umana, il dovere di un’estrema cautela relativamente alle notizie da dare in pasto all’opinione pubblica sarebbe, a mio avviso, la prima cosa da tenere in considerazione. In secondo luogo, c’è da considerare un altro aspetto della questione, ossia quello relativo alla competenza di chi dà queste notizie. Le informazioni appaiono al contempo enfatizzate e approssimative nei dettagli; proprio per questo, i media tornano a seguire la vicenda per giorni o settimane arricchendola con nuovi dovuti elementi (spesso nuovi dettagli raccapriccianti) e creando una sorta di breve telenovela noir che ha come fine quello di tenere incollato il pubblico ai vari notiziari televisivi e, chissà, forse anche ai concomitanti “consigli per gli acquisti”.
In sostanza, la dovuta riservatezza e la delicatezza emotiva di certi episodi vengono sacrificati all’altare della necessità d’informazione, come se quest’ultima fosse sempre un atto dovuto e non dovesse porsi limiti di nessun genere, nemmeno dinnanzi alla complessità di certi fenomeni (impossibili da affrontare seriamente col ritmo concitato dei Tg) e alla necessità di proteggere l’equilibrio emotivo di chi ascolta le notizie e di chi viene ad essere, sé nolente, il soggetto principale di quelle notizie.
Chi abbia voglia di riflettere un po’ di più su questo fenomeno, evitando i rischi del gossip macabro e della curiosità morbosa, deve assolutamente tenere presente che, dinnanzi a episodi di questo tipo, non è possibile dare delle risposte a breve termine sul perché certi atti si siano verificati, né cedere alle lusinghe di teorie e luoghi comuni semplici da capire ma assolutamente deresponsabilizzanti, come quelli, appunto, della follia omicida improvvisa. Bisogna quindi, se si vuole avere un quadro più chiaro del fenomeno, attendere del tempo perché si faccia luce su alcuni elementi della specifica vicenda (evitando quindi le generalizzazioni); studiare gli eventi che hanno caratterizzato le relazioni affettive dei protagonisti prima e dopo il tragico epilogo; poi confrontarsi, quando possibile, con il parere di persone esperte del settore per poter cogliere ulteriori significativi elementi (esperti seri, non quegli imbonitori che imperversano nelle varie trasmissioni televisive in cui di tali fatti si parla, solo per tener viva la propria popolarità).
Se si assume un atteggiamento di questo tipo forse si arriverà a capire che, nella maggior parte dei casi, la violenza non si scatena improvvisamente ma gradualmente, preceduta da segnali premonitori (di solito atteggiamenti o atti molto intimidatori verso persone o cose) che si manifestano anche a lungo prima di raggiungere il loro apice. Inoltre, la donna non andrebbe considerata una semplice vittima di tali rapporti: lo è in senso assoluto perché spesso soccombe, lo è perché è costretta alla sconfitta nel rapporto di forza fisica e di aggressività con un uomo, ma non lo è completamente da un punto di vista psicologico, almeno se intendiamo per vittima un soggetto che non ha avuto alcun ruolo nel generare - nè alcuna possibilità di cambiare - la condizione negativa in cui viene a trovarsi. Ad esempio, molte donne mantengono in vita un rapporto violento o di sopraffazione troppo a lungo prima di denunciarlo, oppure tornano dai propri carnefici quando sono finalmente riuscite a separarsi. Tendono a stabilire in sostanza delle relazioni affettive perverse, ossia non finalizzate a quello che dovrebbe essere lo scopo principale di un rapporto di coppia – la reciproca soddisfazione nel reciproco rispetto, la crescita dei singoli nel coinvolgimento affettivo dell’altro - ma al suo opposto: la denigrazione di sé, la sottomissione e la costrizione affettiva, l’impoverimento individuale. Questa propensione, che costituisce il cuore della loro fragilità psicologica, le rende parti attive del gioco almeno nelle prime fasi, quando ancora l’escalation di paura e di aggressività potrebbe essere efficacemente fermata o gestita.
È in questo senso, appunto, che non è corretto parlare di vittime. Niente autorizza tuttavia, pur conoscendo questo aspetto che potremmo dire più “tecnico”, a considerare la donna corresponsabile di quanto accade, perché si tratta sempre di meccanismi relazionali inconsci, cioè sottratti ad una possibilità di controllo razionale e di elaborazione cognitiva, meccanismi arcaici che sono difficili da contrastare perché altamente rinforzati nel corso di dolorosissime esperienze relazionali infantili.
In quest’ottica - un’ottica di tipo psicologico - anche l’uomo (per quanto, in questi casi, sia umanamente difficile mettersi nei suoi panni), pur giuridicamente responsabile e colpevole degli atti commessi, pur giustamente e a volte troppo poco duramente punito, è in qualche modo una “vittima” della propria incapacità di relazionarsi in modo rispettoso verso un individuo dell’altro sesso, incapace di trarre nutrimento psichico da una relazione affettiva gratificante per entrambi i componenti della coppia. A ciò spesso si aggiunge una pregressa propensione alla violenza o una debolezza nel controllo degli impulsi, tutti aspetti legati ad un mancato sviluppo di alcune componenti della personalità.
È per questo che prendere in carico tali situazioni o cercare di prevenirle quando ancora la violenza non ha raggiunto la sua massima e spesso fatale espressione, significa considerare come vittime di esperienze relazionali infelici e di impulsi più forti di un controllo cosciente entrambi i componenti della coppia, sia il “maltrattante violento” che la “vittima”. Troppo spesso l’intervento di tipo costrittivo, pur necessario, si conclude con una condanna che porta ad una temporanea e salutare sospensione dei rapporti tra i due, senza tuttavia obbligare la parte maltrattante a intraprendere un percorso psicoterapeutico in strutture adeguate al caso, per quanto il cambiamento sia in molti casi piuttosto difficile da raggiungere dato il carattere molto primitivo dei meccanismi psicologici in gioco. La donna invece, giustamente accolta quando con coraggio denuncia, ha di solito la possibilità di essere seguita in apposite strutture di protezione, se vuole. L’universo maschile, violento ma altrettanto fragile, rimane invece escluso da questa possibilità e non gli resta che il carcere (o altre forme di restrizioni, sempre comunque temporanee) per poi, dopo non molto tempo, tornare a rivivere i propri fantasmi nella quotidianità delle relazioni.
È possibile che la superficialità o la parzialità con cui dal legislatore sono state affrontate tali problematiche derivi da una certa incompetenza nel valutare la complessità delle dinamiche in gioco, ma non escluderei il pregiudizio culturale (sempre in agguato anche e soprattutto nella nostra cultura e tradizione mediterranea) di sottovalutare la portata della violenza quando questa è subita da una donna. Dinnanzi alla complessità del fenomeno che, come accennato, non può essere affrontato efficacemente solo con mezzi restrittivi (che pure dovrebbero, a mio avviso, essere potenziati fin dai primi segni di violenza) ma anche e soprattutto con strutturati interventi psicologici sui singoli (specie sui maltrattanti), l’esibizione sensazionalistica e prolungata di queste tragedie sui media, corroborata da immagini e particolari macabri, non può così che lasciare l’amaro in bocca e suscitare indignazione. Per un’opinione pubblica non educata a riflettere è facile pensare che il tempestivo intervento delle forze dell’ordine o di un tribunale riesca a fare giustizia e a risolvere il dramma; ma in molti casi non sarà così, né tantomeno ridurrà il rischio che tali tragedie possano ripetersi.
Ecco, dinnanzi alle vicende più complesse e delicate, specie quelle che riguardano la vita di altre persone, tutti noi dovremmo essere aiutati a riflettere, cosa che purtroppo non accade con l’attività dei nostri mezzi di informazione. Il problema diventa poi ancora più urgente se si tengono in considerazione alcuni dati relativi al rapporto tra esposizione alla violenza e comportamenti violenti. Negli ultimi decenni sono state raccolte evidenze circa il fatto che l’esposizione alla dei bambini, ma anche degli adulti, alla violenza (attraverso la televisione, i videogiochi, le liti e l’aggressività nell’ambiente sociale di riferimento) renda più probabile l’attuazione di comportamenti simili da parte dei soggetti che assistono.
Vari possono essere i meccanismi psicologici responsabili di tale esito.
Tra i più significativi vi è certamente l’identificazione con il modello violento, che offre un esempio antisociale di soluzione dei problemi e di espressione dell’aggressività, particolarmente insidioso quando chi assiste è un minore che ha una personalità ancora in evoluzione e che dispone perciò di minori difese dinnanzi alle emozioni e alla tensione intrapsichica. Analogo problema si ha quando chi assiste è un individuo con un preesistente deficit nel controllo delle emozioni e nella capacità di giudizio critico, o che si trova da tempo in uno stato di grave crisi emotiva.
Oltre al processo di identificazione, può essere chiamato in causa anche un effetto di normalizzazione della violenza, per cui la frequenza di un comportamento osservato viene associata alla sua normalità, una frequenza tuttavia spesso falsata proprio perché la TV possiede questa insidiosa capacità di amplificare enormemente quanto riporta (e non è questo forse uno dei meccanismi della pubblicità?). Quando la popolazione inizia a considerare un comportamento abbastanza normale e diffuso, per quanto estremo, aumenta la possibilità che questo si verifichi perché si abbassa la soglia di tolleranza sociale a certe manifestazioni comportamentali. Del resto, un tale effetto imitativo e di amplificazione è stato notato da tempo anche nel caso dei suicidi: più questi gesti erano reclamizzati dai media - senza però aiutare le persone ad approfondire, a comprendere, a contestualizzare, in qualche modo senza fornire strumenti di protezione cognitiva – più si alzava temporaneamente il tasso di suicidi, proprio per un effetto volgarmente detto di “emulazione” ma che, in realtà, consiste proprio nella possibilità che alcuni soggetti fragili, magari solo in quel particolare momento della loro vita, hanno di identificarsi con persone che commettono quel gesto percepito come sempre più frequente (grazie all’amplificazione dei media) e quindi più normale, più socialmente accettabile.
Infine, ulteriore effetto aspecifico dell’esposizione a filmati di violenza è quello di una generalizzata tensione emotiva negli individui esposti, durante e dopo la visione. Ciò indicherebbe che, più che informare, queste notizie agitano le persone, con la possibilità concreta di renderle col tempo più inquiete, più angosciate nella loro quotidianità. Tenendo conto di questi dati viene da chiedersi: che diritto all’informazione sarebbe mai quello che porta a tenere continuamente consapevoli le persone, a tutte le ore del giorno e senza filtri, che dietro casa potrebbe accadere una strage in famiglia o un altro atto gratuito di violenza?
Dinnanzi a tutti gli individui, ma in particolar modo dinnanzi ai soggetti più fragili, i media dovrebbero sentirsi chiamati, a parere di chi scrive, a un deciso atto di responsabilità, a non diffondere spasmodicamente notizie di delitti e atrocità varie, proprio perché capaci, se ripetute e se corroborate da immagini e racconti particolarmente crudi, di stimolare l’aggressività in quelle persone che, per fase evolutiva, per condizioni psicopatologiche preesistenti o per tensioni attuali, sarebbero più inclini a metterla in atto. Un’informazione che sia quindi più consapevole del proprio ruolo educativo (della propria rilevanza sociale) e soprattutto della potenza psicologica che le immagini possono avere sulla psiche dei singoli.
Solo riducendo sui media la quantità e la specificità delle informazioni che contengono violenza, oltre che attraverso una legislazione che, come detto, preveda interventi psicologici strutturati e prolungati nel tempo sulle persone protagoniste di queste tristi vicende di violenza, si potrà dare un contributo decisivo alla riduzione di questi episodi nella nostra società, provando ad abbandonare, almeno per una volta, il gusto di tenere incollati gli ascoltatori alla notizia per più alti fini di salute e benessere della popolazione.    


[1] In questo contributo mi soffermo principalmente sulla violenza di genere. Tuttavia le conclusioni e il senso generale del testo possono essere riferiti anche ad altre manifestazioni di violenza cui si è esposti attraverso i media.
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