Introduzione al saggio INTERNO ESTERNO, sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica

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2 maggio, 2016 - 14:28
Autore: Cosimo Schinaia
Editore: Alpes Editore Roma
Anno: 2016
Pagine: 288
Costo: €24.00
“Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare. Ora è forse l’età di un’altra esperienza: quella di disimparare, di lasciar lavorare l’imprevedibile rimaneggiamento che l’oblio impone alla sedimentazione delle cognizioni, delle culture, delle credenze che abbiamo attraversato”.
 
(da Lezione di Roland Barthes, 1978, pp. 35-36).
 
   Perché uno psicoanalista si occupa appassionatamente di architettura e di urbanistica e, dopo avere pubblicato Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura, avverte l’esigenza con Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica di riprendere quei temi per rivisitarli ed espanderli, proponendo aggiornamenti, revisioni, risistemazioni, ripensamenti, nuove inquiete interrogazioni?
   Posso provare a rispondere a queste domande, facendo mie le parole dell’architetto Aldo Rossi, che nella sua Autobiografia scientifica (2009, p. 112) scrive: “Di ogni progetto potremmo dire come di un amore incompiuto: adesso sarebbe più bello. E vi è in questo da parte di ogni artista autentico la voglia di rifare, e non di rifare per cambiare (che è proprio delle persone più superficiali), ma di rifare per una strana profondità del sentimento delle cose, per vedere quale azione si svolge nello stesso contesto o come viceversa questo, con lievi alterazioni, modifichi l’azione”.
   Sono molteplici le ibridazioni presenti nella mia biografia personale e professionale, di cui parlo ampiamente nel capitolo 1, e soprattutto è continua, impellente, inderogabile, la necessità di collegare l’interno con l’esterno, la realtà psichica con la realtà materiale e viceversa in un continuo attraversamento di soglie sia reali che metaforiche.
   Lo scambio osmotico tra l’interno e l’esterno, tra il conscio e l’inconscio; i passaggi, gli andirivieni tra il 'dentro' e il 'fuori', tra lo spazio mentale e lo spazio architettonico, il continuo instabile ridefinirsi delle relazioni tra i due territori, attraverso i loro mutamenti, le loro trasformazioni, le loro riorganizzazioni, si costituiscono come una questione assai delicata, nel doppio registro intrapsichico ed interpersonale. Noi siamo all'interno degli edifici architettonici, nelle nostre case in muratura, ma al tempo stesso li ospitiamo nella nostra mente, costruendoli, abitandoli, modificandoli o distruggendoli nei nostri sogni.
   Non si tratta certo di un libro di psicoanalisi dell’architettura, perché sarebbe stato un modo saccentemente illusorio, oltre che scorrettamente colonialistico, di affrontare il problema, ma piuttosto di un libro che tenta coraggiosamente di mettere a confronto i linguaggi delle due discipline, i loro intenti, le loro ambizioni in relazione alla ricerca senza fine del benessere dell’essere umano, rispettando i rispettivi statuti epistemologici, le specificità, le irriducibilità ad altri linguaggi.
   Che si tratti di campi molto differenti, non v’è dubbio. L’architettura crea case private, edifici pubblici e si avvale di un processo progettuale e costruttivo che implica molti saperi e professionalità, dovendo tenere in considerazione fattori estetici, funzionali, tecnologici, finanziari e legali. In confronto, la psicoanalisi resta qualcosa di privato e artigianale. Protetta nell’interiorità della stanza di analisi, la relazione analitica si confronta con il mondo esterno prevalentemente attraverso le associazioni e le interpretazioni (Sperber, 2014b).
   Eppure la ricerca di punti di contatto e di occasioni di contagio ha il senso di creare terreno e spazi contenitori per scambi che garantiscano potenzialità di accrescimento e arricchimento di entrambi i linguaggi. Quindi, è la ricerca non solo di una mera coesistenza, ma piuttosto di una significativa integrazione fra psicoanalisi, architettura e urbanistica, saperi apparentemente così distanti, ma nella sostanza così inestricabilmente interconnessi, che ha prodotto lo stile stesso con cui il libro è stato pensato e scritto.
   Franco la Cecla (2008, p. 13) scrive: “La scrittura è la forma più onesta non semplicemente per l’espressione di pensieri nei confronti della città e dello spazio, perché la scrittura non uccide la magmaticità del presente, non presume di inventarlo, non pretende di esaurirlo. La scrittura accompagna, accarezza le pietre e le persone che le popolano, racconta il processo attraverso il quale le pietre e le persone si confondono”.
   “Un’opera, uno scritto analitico, non riesce a parlarci se non ha la capacità di conservare, di trattenere nel suo svolgimento e nel suo stile le tracce che l’hanno reso necessario” (Chianese, 2004, p. 256).
  Ed è proprio rifacendomi a questi principi, che ho adottato uno stile di scrittura non facile e non usuale, facendo parlare il più possibile in prima persona i diversi autori, intrecciando a mo’ di ghirlanda frasi, concetti, discipline, luoghi, geografie, periodi storici e provando a far emergere attraverso connessioni, somiglianze, differenze, aporie, il mio pensiero originale.
   Jean-Bertrand Pontalis dice (1990, p. 92): “Scrivere è voler dare forma all’informe, mettere una divisa al mutevole, dare una vita – ma si sa quanto fragile – a ciò che è inanimato […] è l’illusione di un inizio senza fine”.
    E sulla stessa lunghezza d’onda Agostino Racalbuto (2005, p. 288) scrive: “Lo scrivere presiede all’illusione di […] dare una casa a ciò che è per sua natura erratico”.
   Io cerco di districarmi tra questa dolce e temeraria illusione e la sofferta e conflittuale accettazione della sua irrealizzabilità.
   Lo stile della scrittura è caratterizzato da un andamento ritmato, pagina dopo pagina, da citazioni e riferimenti. Non certo per esibire uno sfoggio di cultura, e tantomeno per il bisogno di invocare autorevoli testimonianze a sostegno del mio discorso argomentativo, ma piuttosto per costruire un dialogo, una rete di consonanze, ma anche di visioni difformi, di contrapposizioni, al di là dello spazio e del tempo. Accanto a citazioni di autori noti e prestigiosi, compaiono quelle di nomi forse meno conosciuti, ma per me altrettanto importanti, perché sono stati concettualmente e affettivamente miei compagni di viaggio.
   Ho dovuto prendere atto, nonostante l’appassionata curiosità, della mia relativa incompetenza in campo architettonico e urbanistico, ma si parva licet componere magnis[1], anche Freud (1932, p. 251) aveva riconosciuto che gli analisti, lui compreso, sono dei “dilettanti dalla preparazione più o meno sufficiente, spesso imbastita in tutta fretta” nei campi delle scienze umane nelle quali hanno voluto fare delle incursioni, constatando che anche gli specialisti delle stesse discipline scientifiche non sanno molto della psicoanalisi, ma mostrandosi ottimista circa le potenzialità di una collaborazione interdisciplinare.
   Nel suo libro Mio padre Sigmund Freud (1958), Martin ricorda che era insieme al padre a Trento di fronte al Duomo e Freud provò a spiegargli con passione, nonostante non fosse un architetto[2], l’architettura e lo sviluppo dello stile che potevano osservare in quel magnifico edificio.
   Jacques Lacan suggerisce che l’analista debba conservare nel suo lavoro una docta ignorantia[3], un’ignoranza sapiente, come base per avvicinare l’altro senza che questa si trasformi in una ignorantia docens, un’ignoranza saccente.
   “Il frutto positivo della rivelazione dell’ignoranza è il non-sapere, che non è una negazione del sapere, ma la sua forma più elaborata” (Lacan, 1966, p. 353).
   Può essere questa la base per ogni tentativo della psicoanalisi di rapportarsi agli altri campi disciplinari.
   Ho pensato di superare il limite della mia dilettantistica competenza, cercando di riportare il più possibile puntualmente il pensiero e le intuizioni degli architetti e degli urbanisti, ai quali, per coerenza, ho voluto che facessero da contrappunto il pensiero e le intuizioni oltre che degli psicoanalisti, anche di scienziati, scrittori, poeti, filosofi, antropologi, sociologi e giornalisti.
   Il valore di un’operazione compositiva simile alla mia è stato rivendicato da Jean-Bertrand Pontalis, che in Perdere di vista (1988, pp. 322-323) scrive: “Adesso percepisco meglio ciò che mi ha condotto lungo questa passeggiata incerta, ignara di ogni linea retta e in cui ho citato testi, libri di filosofi, scrittori, pittori, come se fossero miei pazienti o io il loro. Non come succede a tutti, credo, per chiamarli alla riscossa, ma, salvo contraddirmi cammin facendo, per mantenermi in più luoghi eterogenei, capaci di produrre effetti differenti, anche antagonisti. Se ho un rimpianto, è quello di non essermi spostato in altri luoghi ancora”.
  D’altronde a sostegno dei miei intenti, ricordo anche che Le Corbusier nella sua carta d’identità francese, alla voce “professione”, aveva fatto scrivere homme de lettres (uomo di lettere) e non architetto, ad indicare la poliedricità intellettuale della sua identità professionale.
   Testo vuol dire tessuto. Mi auguro che alla fine il ritrovamento e il riconoscimento del fil rouge di questa tessitura, di questo percorso di scrittura, di questo viaggio di ricerca, risultino agevoli per il lettore, che potrà giovarsi delle mie considerazioni personali all’interno di un quadro di teorie, osservazioni, punti di vista e riflessioni estremamente ampio e composito, ma assolutamente ricco e vitale, accedendo “al godimento attraverso la coabitazione dei linguaggi, che lavorano fianco a fianco” (Barthes, 1973, p. 4).
   Donald Meltzer (1992) definisce la psicoanalisi, una forma d’arte in sé, al di fuori della questione se vi siano artigiani bravi o addirittura grandi nel praticarla. “E’ un metodo – scrive – che ha una potenzialità tale di ricchezza, da dare spazio al manifestarsi dell’ispirazione e di una grande bellezza” (p. 77).
   Wilfred Bion è andato più in là, quando nel seminario di Parigi del 1978 (in Resnik, 2006, p. 186) ha esortato lo psicoanalista a concepire la sua stanza di analisi come la bottega di un artista e a interrogarsi su quale genere d’artista egli fosse: “Quale tipo di artista siete? – Siete un vasaio? Un pittore? Un musicista? Uno scrittore? [...] Secondo la mia esperienza numerosissimi analisti non sanno realmente che tipo di artisti sono […]”.
   Quando Salomon Resnik (2006, p. 186) gli ha chiesto: “E se non sono artisti?”, Bion ha risposto categoricamente: “Se non sono artisti, allora hanno sbagliato mestiere. Non so quale sia il mestiere giusto, perché, anche se non sono psicoanalisti, devono essere degli artisti della vita stessa”[4] (in Resnik, 2006, p. 186).
   All’elenco delle tipologie di artisti proposto da Bion, ne aggiungerei un’altra. “Siete un architetto?”, chiederei all’analista, per dare risalto alla necessaria funzione di integrazione tra intrapsichico e interpersonale, tra spazio interno e spazio esterno, tra soggetto e habitat, che l’analisi deve necessariamente assumere, se vuole essere un’esperienza dentro la vita e non parallela alla vita.
 
   Nel primo capitolo Le radici di un incontro, parlo della mia storia di emigrante (per quanto privilegiato) e delle peripezie identitarie che ho dovuto affrontare per restare in equilibrio dinamico sul crinale che separa sicurezza da insicurezza, noto da ignoto, riconoscimento da spaesamento, identificazione con l’origine da identificazione con lo straniero. L’oscillazione tra i due estremi: il rischio dell’iperadattamento robotico e quello della non integrazione come potenziale anticamera della disintegrazione, se da un lato favorisce il dispiegarsi del sentimento di libertà, di una fluttuazione affrancata dalle catene dell’appartenenza, dall’altro provoca profondi vissuti di insicurezza, di precarietà e instabilità. Insicurezza, precarietà e instabilità da una parte e apertura mentale e disposizione al dialogo dall’altra costituiscono il conflittuale e talvolta eccentrico bagaglio emotivo che ha accompagnato la mia doppia identità professionale: quella di psichiatra e quella di psicoanalista, i cui continui interscambi mi hanno contemporaneamente consentito e costretto a tenere insieme nella mia mente tutte le determinanti presenti nella sofferenza psichica delle persone. Ne è derivata una duttilità anticonformistica e una curiosità intellettuale che nulla hanno a che fare con l’ecclettismo in quanto, pur nel rigoroso rispetto degli statuti scientifici dei singoli saperi, esse hanno permesso uno sguardo meno bloccato dall’ortodossia e dai confini disciplinari. Le case dei pazienti psichiatrici che andavo a trovare in visita domiciliare, le residenze specifiche dove soggiornavano spesso per tutta la vita, interagivano con le loro case interne, con lo spessore dei muri di quelle case, con la loro possibile o impossibile accessibilità e vivibilità, così come vi era un continuo flusso fra la materialità della stanza di analisi, il mondo interno degli analizzandi e le stanze dei loro sogni.                      
   Sostengo, pertanto, che la conversazione fra differenti linguaggi scientifici e culturali possa permettere la strutturazione di differenti e originali forme di linguaggio e di esperienza che non sono la somma dei linguaggi e delle esperienze di partenza, ma che hanno una loro configurazione e una loro vita autonoma e originale.
   Il secondo capitolo, Contaminazioni feconde, affronta il tema del confine nelle sue differenti funzioni: quella di traduzione tra dimensioni socio-culturali altrimenti incomunicabili e quella di separazione identitaria. Il confine viene descritto nel suo disegno fenomenologicamente ambivalente, che favorisce tanto le relazioni, quanto i conflitti, tanto la conservazione, quanto l’innovazione.
   La metodologia di confronto tra differenti saperi si può avvalere dei processi di metaforizzazione, a cui possono aggiungersi quelli di analogia, per cui una qualità può essere importata dentro un altro sistema, e perfino quelli di corrispondenza, che vanno intesi come i processi per cui una struttura può essere trasferita dentro un altro campo. E’ chiaro che il grado di similarità aumenta passando dalla metafora alla corrispondenza. Inoltre la relazione tra teorie può essere basata sull’accostamento, invece che sul confronto diretto, sulla possibilità cioè di mettere a frutto la copresenza delle varie ipotesi. Queste operazioni di confronto a sviluppo di similarità crescente sono necessarie per la verifica dell’assoluta differenza e incomunicabilità di teorie e punti di vista, della loro possibile sovrapponibilità, oppure della relativa integrabilità dei discorsi.
 
   Nel terzo capitolo, L’architettura metaforica della mente, evidenzio il grande spazio occupato dalla metafora archeologica nel pensiero psicoanalitico, tanto in Freud quanto in Jung e quanto, soprattutto nel primo, essa si trova a fare i conti non solo con la conoscenza storica e scientifica, ma anche con le emozioni, gli affetti, i sentimenti e le loro figure.
   L’analisi, a differenza del lavoro archeologico, non è una semplice operazione di scavo, ma pone a confronto con le passioni, le quali turbano l’ordine della rappresentazione, ingarbugliandola. La passione di Freud per l’archeologia e la sua ammirazione per Schliemann (1881), lo scopritore di Troia, danno conto del grande spazio che la metafora archeologica occupa nel suo pensiero. Le successive riflessioni di Bion (1959) arricchiscono e completano le modalità di utilizzo della metafora archeologica da parte di Freud, evidenziando che durante il lavoro analitico non si incontra una situazione statica e passibile di un tranquillo esame, perché il conflitto è ancora attivo nel momento in cui lo studiamo e non è stato affatto ripristinato lo stato di quiete e di assestamento, tipico del reperto archeologico classico. Bollas (2000), infine, mette in oscillazione creazione e distruzione come elementi connaturati all’esistenza umana, per cui ci saranno sempre due costruzioni nella psiche: quella distrutta e quella esistente.
 
   Nel quarto capitolo, Lo spazio viene descritto nei suoi aspetti fenomenologici, per cui lo spazio geometrico, cioè quello misurabile dalle scienze della natura e dalle matematiche, viene tenuto distinto dallo spazio antropologico.  Quindi, si passa allo spazio dei teorici della Gestalt, per i quali il motivo conduttore dell’intera vita di ognuno è la relazione, il continuo oscillare tra l’inclusione o la separazione del nostro spazio psicologico nell’ambiente circostante. Per Freud lo spazio ha avuto un valore finzionale; si è trattato di uno spazio inventato, rappresentato specularmente attraverso la metafora, per la costruzione della prima e della seconda topica dell’apparato psichico. L’indagine psicoanalitica sul processo mentale dello spazio sostanzialmente comincia con la ricerca di Winnicott circa la prima organizzazione mentale del sé e la descrizione dello spazio transizionale, che si costituisce tra lo spazio soggettivo onnipotente del bambino e quello oggettivo della realtà esterna condivisa, attraverso la relazione madre-bambino. Credo, comunque, di potere affermare che tutti i modelli psicoanalitici del funzionamento psichico hanno al centro del loro interesse le complesse relazioni tra spazio interno e spazio esterno, tra realtà intrapsichica e realtà interpersonale e questi rapporti sono anche al centro delle riflessione di molti architetti.
 
   Il quinto capitolo, L’architettura tra presente, passato e futuro, conduce al cuore di uno dei problemi centrali dell’architettura, ma anche della psicoanalisi.
   Come mettere insieme il passato con il presente? E come può il presente prefigurare il futuro?
   Una puntuale descrizione dei concetti fondamentali alla base dell’International style che programmaticamente ha deciso di fare tabula rasa del passato e una disamina delle critiche, talvolta feroci, che a questo significativo movimento architettonico del novecento sono state rivolte, sono in primo piano attraverso quanto filosofi e architetti di diverso orientamento hanno detto e scritto.
   Ne viene fuori un quadro non unitario, frammentato in posizioni non manichee, anche se sostenute con vigore e, talvolta, con assolutezza. Le Corbusier, Gropius, Aalto, Mies van der Rohe da un lato e Lloyd Wright, Loos, Kahn, Libeskind dall’altro difendono tanto appassionatamente quanto aspramente le proprie ragioni, di volta in volta sostenuti o criticati da filosofi quali Heidegger, Ortega Y Gasset, Adorno, Benjamin. Il capitolo si conclude con la descrizione del concetto di non-luogo dell’antropologo Marc Augé (1992) e dei suoi successivi sviluppi, per provare ad analizzare quanto la degradazione dell’International style abbia favorito la creazione di luoghi di non vita, di spazi di inabitabilità nel senso heideggeriano del termine.
 
   Il sesto capitolo, Continuità e discontinuità in psicoanalisi, è costituito dalla ripresa dei temi del capitolo precedente, ma osservati nel campo disciplinare della psicoanalisi. Specificamente viene affrontato il tema dei rapporti della psicoanalisi con la postmodernità. Per alcuni psicoanalisti che abbracciano le teorie postmoderniste, si è consumata una vera e propria mutazione sociale, per cui si rende necessario ricorrere a categorie di pensiero assolutamente innovative, essendo le categorie analitiche tradizionali obsolete e inadeguate a descrivere le nuove soggettività e le nuove patologie. Per altri analisti, le tradizionali categorie analitiche freudiane sono sufficienti per interpretare il nuovo. Tra il catastrofico “tutto è cambiato” e il consolatorio “sostanzialmente nulla è cambiato”, vi è una terza via più ostica, più difficilmente percorribile, ma a mio avviso ineludibile, che deve fare i conti con un soggetto oggi caratterizzato da un nomadismo radicale, con soggettività non più definite e contenute da strutture simboliche forti, per cui diventa necessario evitare di identificare la dimensione fantasmatica con alcune sue forme storiche e porsi nella condizione emotiva del ricercatore.
   Erik H. Erikson (1964, p. 128) ha definito la fedeltà come “la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni insite nei sistemi di valore”, ma il restare adesi a una visione del mondo non sufficientemente calibrata con la complessità socioculturale di cui dovrebbe farsi interprete, non ha molto a che vedere con la fedeltà, ma rischia invece di confondersi con l’ortodossia difensiva.
 
   Nel settimo capitolo, La fretta nel modo che ci circonda, viene enfatizzata la necessità nei due campi disciplinari del tempo necessario all’elaborazione, quello che lo psicoanalista André Green definisce le temps mort de l’analyse e che l’architetto Francesco Venezia definisce come base concettuale dell’architettura che si forma lentamente. “Quanto più lento – scrive - è il tempo di sedimentazione per costruire questa sorta di base d’appoggio concettuale, tanto più rapida sarà la concezione e la costruzione del progetto” (2011, p. 29). La psicoanalisi e l’architettura, dando valore all’ autoriflessione, alla conoscenza di sé e all’elaborazione, assumono una valenza antientropica nei confronti dei valori socioculturali attualmente dominanti.
 
   L’ottavo capitolo, Il Perturbante, parte dal saggio di Freud del 1919 Das Unheimliche, per sostenere che gli architetti oggi dovrebbero sempre più progettare luoghi da abitare, pubblici o privati, case o ospedali, che siano anche capaci di rappresentare la distinzione e/o l'indistinzione fra sé e non sé, fra caos e ordine, fra differenziato e indifferenziato. Spazi contenitori di esigenze multiple complesse, di composizioni e scomposizioni del soggetto, di costruzioni e decostruzioni; spazi che possano prendersi cura e dare ospitalità anche a quelle parti della mente finora valutate come inospitabili, incontenibili, da espellere, oppure da reprimere, censurare o militarizzare.
   La ricerca architettonica di Frank Gehry, specificamente attraverso una sua opera, la Gehry house di Santa Monica, viene individuata come rappresentativa della possibilità di costituire spazi contenitori che stravolgano il conformistico spazio ordinato e garantiscano riconoscimento e ospitalità a quegli aspetti della mente non normalizzabili, non inseribili in contesti architettonici tradizionali.
 
   Nel nono capitolo, Psicoanalisi e architettura: la necessità di un confronto, vengono messi a confronto i due linguaggi, quello psicoanalitico e quello architettonico, i loro fini, le rispettive metodologie di lavoro e di ricerca, e specificamente la continua osmosi tra teoria e prassi che caratterizza entrambe le discipline. Il confronto avviene nel rispetto dei rispettivi statuti epistemologici, delle talvolta notevoli differenze teorico-pratiche, ma esso è anche sostenuto dalla passione per l’interazione contaminante, partendo dall’osservazione che tanto lo spirito della psicoanalisi, quanto quello dell’architettura, vivono nell’immediatezza dell’esperienza emotiva diretta, strettamente in relazione a una buona capacità di ascolto e che soltanto in una fase successiva è possibile un’analisi più meditata di quanto è avvenuto nel qui ed ora della seduta psicoanalitica o una valutazione tecnica delle modalità costruttive che hanno portato alle qualità estetiche di un edificio.
 
   Il decimo capitolo, La casa, mette a raffronto le teorie antropomorfe nella costruzione delle case che, fin dal De re aedificatoria dell’Alberti (1452 circa), sono presenti in architettura e le diverse modalità attraverso le quali le case vengono rappresentate nei sogni, nonché il significato di timing, di bussola e di termometro, che tali rappresentazioni oniriche, con le loro trasformazioni, vengono ad assumere nello svolgersi processuale della relazione analitica.
   La figura matematica del nastro di Möbius viene individuata come capace di rappresentare il passaggio dalla casa monolitica tradizionale, chiusa, con rigide  separazioni tra l’interno e l’esterno, alla casa smembrata, smaterializzata, telematica, senza confini disegnati, senza possibilità di nette definizioni di dentro e fuori. La casa come metafora dell’utero caldo e accogliente, ma anche come prefigurazione dell’esterno e dell’autonomia, fa da sfondo alle riflessioni sul setting psicoanalitico, in cui resta centrale anche la costruzione dello spazio esterno che, rimandando seppure in termini non automatici alla dimora psicologica, dovrebbe facilitare le possibilità di ascolto del mondo interno e di contatto emotivo.
 
    L’undicesimo capitolo, I luoghi della cura, affronta il tema dell’architettura ospedaliera e, specificamente dei luoghi della cura psichiatrica. Se gli ospedali psichiatrici erano stati costruiti in funzione della netta separazione dei binomi sano/malato e normale/folle con intenti reclusivi ed escludenti, la loro chiusura non ha purtroppo lasciato uno spazio significativo alla progettazione di luoghi di cura rispettosi della sofferenza psichica e, quindi, effettivamente psico-terapeutici. Vi è la quasi assoluta mancanza di una riflessione sui modelli di cura e di assistenza, a cui dovrebbe fare riferimento una specifica progettazione architettonica. Non vi è alcun modello che proponga percorsi, traiettorie, luoghi funzionalmente e formalmente specialistici, interconnessi a luoghi interstiziali, in cui, accanto alla comunicazione istituzionalmente riconosciuta, sia consentita, anzi agevolata, una comunicazione non formalizzata.
   Viene proposto, come modello di riferimento per la progettazione di strutture psichiatriche comunitarie, il percorso architettonico conventuale che va dalla cella, luogo massimamente privato, al chiostro, dove comincia ad esserci un accenno di socialità attraverso una silenziosa compresenza, alla chiesa luogo della socialità ritualizzata, quindi al refettorio, in cui la comunicazione è meno irrigidita seppure ancora regolamentata, per giungere alla sala capitolare, luogo delle assemblee, della democrazia delle opinioni e degli affetti, che prelude all’aperto, all’esterno, alla vita sociale. Il capitolo si chiude con il racconto di un’esperienza di collaborazione di psichiatri e psicologi con la facoltà di architettura di Genova, all’interno di una ricerca volta alla riqualificazione cromatica degli ambienti di un vetusto centro di salute mentale territoriale.
 
   Il dodicesimo capitolo, La stanza di analisi, corredato da una ricca documentazione fotografica, entra nel merito della realizzazione architettonica dello spazio analitico, mettendo in luce l’evoluzione della strutturazione dello specifico spazio terapeutico dalla stanza di Freud, il suo inventore, alle stanze di analisi dei giorni nostri. Si evidenzia come tale evoluzione abbia risentito tanto delle differenti ideologie psicoanalitiche, quanto di aspetti storici, socio-culturali, architettonici, geografici, climatici che nel tempo hanno caratterizzato i cambiamenti  di composizione e di arredamento.
   Alcune vignette cliniche mettono in evidenza quanto l’organizzazione dello spazio esterno entri profondamente nella strutturazione del mondo interno dell’analizzando e nella relazione transferale analista/paziente, in quanto lo spazio della stanza di analisi è spesso vissuto dal paziente come un prolungamento rappresentativo dell’analista stesso.
 
   Il tredicesimo capitolo affronta il tema dell’etica in architettura e urbanistica, tra convinzione e responsabilità, tra creatività e attenzione al contesto, alle esigenze esistenziali e sociali degli utenti. Si sostiene l’esigenza di un’architettura e di un’urbanistica che interpretino i bisogni e, perché no, i desideri dei cittadini, ascoltandoli e rendendoli partecipi sia dei progetti, che della loro attuazione. Dare spazio al verde, facilitare le comunicazioni, fra le diverse parti della città, ridurre il traffico privato, ridurre i consumi energetici e passare a energie ecologicamente sostenibili per ridurre l’inquinamento, sono gli obiettivi di un’urbanistica critica e lungimirante, capace di apprendere anche dai propri errori.
 
   Freud (1906, p. 333) sosteneva che lo psicoanalista dovesse necessariamente sapere di letteratura e scriveva: "Probabilmente […] attingiamo alle stesse fonti, lavoriamo sopra lo stesso oggetto, ciascuno di noi con un metodo diverso; e la coincidenza dei risultati sembra costituire una garanzia che abbiamo entrambi lavorato in modo corretto".
   Ovviamente per estensione, quanto affermato per la letteratura vale anche per l’architettura, in modo che il confronto tra sapere architettonico e sapere psicoanalitico, in fecondo rapporto con la ricchezza della storia individuale e della storia sociale, possa generare una proficua attenzione alla complessità del sistema simbolico che tiene insieme le persone, gli ambienti, le case e le città.
   In questo senso psicoanalisi, architettura e urbanistica possono incontrarsi nel pensare e progettare le città, i quartieri, le abitazioni, i luoghi di cura, e più specificamente le stanze di analisi, migliorando e accrescendo le potenzialità del contenimento psichico e spaziale dei luoghi in un continuo entrare e uscire, un incessante andirivieni tra l’interno e l’esterno e tra l’esterno e l’interno.


[1] Verso di Virgilio (Georgiche, IV, 176): Se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi.
[2] Fu il figlio quartogenito di Sigmund Freud, Ernst (1892-1970) a diventare architetto. Nel 1927 andò in Palestina per costruirvi la casa di Haim Weizmann; nel 1928 lavorò per l’Istituto Psicoanalitico di Berlino. Nel 1933 Ernst decise di lasciare Berlino, per sfuggire alle persecuzioni razziali, e scelse come patria adottiva l’Inghilterra. La sua integrazione in Inghilterra non fu facile e lo psicoanalista Ernest Jones dovette aiutarlo, commissionandogli il restauro di un’ala della sua casa nel 1935-36. Ernst Freud andò fino a Parigi per accogliere la famiglia che aveva deciso di emigrare in Inghilterra nel 1938 e si occupò anche della sistemazione londinese dei Freud a Maresfield Gardens. Ernst Freud si occupò anche delle stanze di psicoanalisi di Eitington, Abraham, Karen Horney, René Spitz, Sándor Rado, Hans Lampl e più tardi di Melanie Klein.
[3] Espressione che risale a S. Agostino ma resa celebre dall’opera De docta ignorantia di Nicolò Chiusano (1401-1464).
[4] Bion, nello stesso seminario sembra poi ridurre la durezza delle sue affermazioni: “Potete non aver deciso quale tipo di artista essere, ma siccome vedete in cosa siete molto bravo, può essere necessario to make the best out of a bad job (fare buon viso a cattivo gioco), come si dice, e decidere di fare quello che potete con ciò che avete nel laboratorio” (ibidem, p. 198)
 
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