Recensione di Iris. Le Favole di Sara Boffito

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16 dicembre, 2020 - 19:27
Autore: Francesco Bollorino
Editore: Alpes Roma
Anno: 2016
Pagine: 110
Costo: €13.00
Se esistesse qualcosa come un sistema digestivo della mente,
potrei dire che la dieta mentale a base di piacevoli intrattenitori immaginari
ha dato un grande contributo al benessere della mia mente.

(W. R. Bion, Memoria del futuro. Il sogno, p.123)
 
 
 
 
La lettura di Iris è stata per me non solo piacevole e appassionante, ma anche benefica, come sempre sono benefiche le esperienze che ci toccano e ci commuovono, che ci fanno sentire all’unisono. Per questo Bion (mentre dialoga dentro di sé con i personaggi di alcuni romanzi da lui amati) ritiene che gli ‘intrattenitori immaginari’ debbano appartenere alla nostra ‘dieta mentale’, che siano necessari al nostro benessere.
A mio avviso quest’indicazione è tanto più vera per le favole, per la cosiddetta letteratura per l’infanzia che riesce a toccare aspetti profondi e anche drammatici in modo diretto e originario, grazie ad un accesso al magico e al paradossale meno filtrato dalla razionalità e da istanze superegoiche. Nella mente, in effetti, i capovolgimenti di prospettiva, i cambiamenti di scenario, l’accesso a un potere che prima ci era sconosciuto avvengono spesso in modo misterioso. Lo vediamo nella pratica clinica e nella nostra esperienza soggettiva: tante volte con i pazienti una grande parte del lavoro sta nel riaccendere in loro – e in noi – la fede, la fiducia nel cambiamento, in un incontro, nella possibilità di uscire dall’angoscia claustrofobica di un destino già scritto. In altre parole a credere ancora nelle favole. Iris si apre proprio con una descrizione efficace e toccante dei destini delle favole. La Favola delle Favole (pp. 1-3) narra dell’esilio delle favole sulla Luna ad opera di un Re del Mondo che, arrabbiato perché non pagavano le tasse per il loro lavoro, le costrinse ai lavori forzati. Senza le favole il mondo cade nella più profonda tristezza finché il re non si convince a pregare Dio perché le restituisca agli uomini; Dio risponde che le favole non possono tornare tra gli uomini come dolci fatine vestite di bianco poiché hanno troppo sofferto e sono diventate puri spiriti, ma, commosso dalla richiesta del re e dal dolore degli uomini, decide di “mettere una favola nel cuore dei ogni uomo, quando nasce, per riscaldarlo e fargli il dono del sorriso” (p. 3).




Credo che questa fiaba contenga alcuni tra i temi principali che attraversano tutto il libro. Prima di tutto si conclude ‘con il cuore’, e “le favole” – scrive Bollorino nell’ex-ergo – “sono scritte con la lingua del cuore”. Sono scritte con il cuore e evocano nel lettore un contatto con il potere del sentimento, dell’affetto, del legame. Per questo, credo, a volte fanno paura e siamo costretti ad esiliarle. Un secondo tema della La Favola delle Favole e che troveremo in diversi racconti successivi (come La terza favola di Natale, Cuori e interruttori, Notte di San Lorenzo, Il settimo giorno, e altri ancora) è l’ineludibilità del dolore, la necessità drammatica di affrontarlo per esserne trasformati e giungere ad una dimensione forse meno ideale, meno intatta ma più autentica, più in contatto con le emozioni, con il cuore appunto.
Un terzo punto qui accennato sta nell’idea di “lavoro delle favole”, un lavoro tanto serio da richiedere il pagamento di un tributo. Quella della funzione della fiaba e della narrazione è, come è giusto che sia, una tematica trasversale e implicita al testo narrativo su cui vorrei proporre alcune riflessioni.
Leggendo Iris mi sono tornate alla mente tante delle storie che raccontiamo o scriviamo con i bambini, nelle stanze di terapia, storie che a volte partono da personaggi incontrati davvero, o da episodi non raccontabili altrimenti o da favole che hanno letto che, come un trampolino di lancio, danno spunto ad una narrazione personale: modi costruiti insieme in cui dare spazio, forma e nome all’angoscia senza nome. Quando con i bambini utilizziamo la tecnica della storia possiamo raccontare dei poteri segreti e dei desideri nascosti della strega cattiva e costruirle una casa, immaginare i discorsi che fanno i denti dentro la bocca, quando vedono che il loro vicino è appena caduto, trasportarci in un modo alla rovescia in cui i bambini dettano le leggi e gli adulti obbediscono, e così via. Dobbiamo grande parte dell’evoluzione di questa tecnica nella psicoanalisi infantile a Dina Vallino che in Raccontami una storia spiega con limpidezza l’utilità di questo approccio:
Le cose sembrano andare con la storia così come con la reverie della madre.  Questa aiuta il bambino a sviluppare la sua capacità di pensare le proprie emozioni proprio perché non pretende che il bambino impari a pensare interiorizzando il pensiero adultiforme della madre (o dell’analista). La reverie della madre è molto più vicina alla «storia» del bambino che non al linguaggio psicoanalitico delle interpretazioni. Il mio metodo suggerisce di fare un passo in avanti: aiutare il bambino a sviluppare una sua propria personale reverie. L’analista di bambini potrebbe pertanto provare non a sollevare il pensiero del bambino al proprio, ma ad abbassarsi verso la reverie del bambino, per facilitarla e farla sviluppare” (Vallino 1998, pp. 96-97)
 
 

Iris fa questo, anche con noi lettori adulti e ‘del mestiere’, ci riaccosta al piano della reverie, ci aiuta a rimanere in contatto con quella funzione delle nostre menti e del nostro lavoro, funziona come un interlocutore giocoso, come personaggio immaginario e sfaccettato (ha tutti i volti dei suoi racconti che si moltiplicano nei diversi personaggi che incontriamo). Questo libro per me è diventato un oggetto della stanza di terapia dei bambini, uno di quei libri che apro anche con loro, per essere aiutata ad aiutarli a giocare. Nella prefazione a Giocare e Pensare (1995), un volume che raccoglie gli atti di un importante convegno dedicato al lavoro con i bambini e il gioco, Antonino Ferro spiega come la mente dell’altro “giocando e fiabando […] trasmette la capacità di pensare pensieri e vivere emozioni” perché “nulla è al tempo stesso più vivo e creativo del giocare-fiabare e nulla, al tempo stesso è più serio” (pp. 20-21). Fiabare diventa un’attività necessaria della mente che coincide con quella capacità – della mamma, dell’analista, dello scrittore o della narrazione in generale – di trasformare angosce primitive in racconti, in immagini, in stati mentali tollerabili. Più avanti, nello stesso volume, Ferro aggiunge: “Io credo che in fondo questa dialettica con il protomentale sia qualcosa in cui c’è sempre l’impatto tra il protomentale e il narratore, sia esso il narratore interno, quando dobbiamo cavarcela con noi stessi, sia nella relazione con l’altro […] in modo da poter macinare sempre di più questo protomentale sino a farne immagini, sino a farne storia” (p. 87). Ferro riprende l’immagine di un racconto di Stevenson del 1880, in cui l’autore racconta di avere un omino dentro la testa, che riesce a trasformare le cose in racconto. 
            Ci troviamo, come analisti, a camminare in equilibrio sul ripido crinale del chissà (come recita il titolo di una delle favole per me più toccanti del libro), che narra di un sovrano a cui avevano rubato la buona opinione di se stesso, della sua vita drammaticamente segnata da questa condanna e del viaggio che decide di compiere per cercarla, sino alle soglie dell’Infinito. Il viaggio è un altro tema importante del libro, inteso come ricerca ed esperienza che è necessario attraversare, per venirne trasformati e trovare se stessi. Così, ci racconta Bollorino con parole poetiche, accade al sovrano nella storia: “I giorni passavano e invano egli cercava un segno che indicasse la giusta direzione da seguire, finché una notte, all’improvviso, egli smise di ascoltare, ansioso, il soffio del vento del deserto e prese ad ascoltare, attento, il vento del suo cuore e finalmente capì” (p.51).
            Un altro racconto che fa molto riflettere, e che porterò nel cuore, è Notte di San Lorenzo (pp. 46-47), che parla del destino di Sogni e Desideri che, secondo questa favola, hanno faticato a trovare uno spazio nella Creazione poiché Dio, essendo onnipotente, non ne aveva bisogno. Sogni e Desideri incominciano a fare un gran baccano “chiedendo a gran voce un ruolo e un luogo ove stare nel Creato” finché Dio non dona loro una casa e un compito “mettendo ognuno di loro in una stella del firmamento assegnando a ognuno di loro l’incarico di esaudire le attese degli uomini”. Per questo, conclude Bollorino, li attendiamo col naso all’insù e sentiamo placato il nostro animo quando cade una stella e un desiderio o un sogno si avvera. Questo racconto si conclude sulla posizione di attesa dell’essere umano che fa pensare ad un appello alla pazienza, alla contemplazione, alla capacità negativa – che comportano una fatica, un dolore e una rinuncia all’onnipotenza temperata, che lasci spazio alla speranza.
            Notte di San Lorenzo non è l’unico racconto in cui oggetti astratti diventano animati o personificati, lo abbiamo già visto con La Favola delle Favole. In alcuni racconti questo accade anche agli oggetti inanimati (in Favola di Natale il protagonista è un fiammifero!).  La personificazione degli oggetti – quella che permette alla Klein (1929) di ipotizzare la rivoluzionaria equivalenza tra gioco e sogno – è forse il tratto del gioco infantile che più precocemente perdiamo e che, se torniamo con la mente alla nostra infanzia, ricordiamo con più nostalgia. E’ anche qualcosa che, quando accade con i bambini in terapia, ci riempie di speranza, come quando un paziente adulto inibito incomincia a narrare la sua storia in termini personali. Questa nostalgia è descritta bene da Paul Auster in Notizie dall’Interno, un romanzo in cui l’autore si immerge nelle memorie della sua infanzia e nel pensiero infantile:
 
“In principio tutto era vivo. Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome. Le forbici camminavano, telefoni e teiere erano cugini, occhi e occhiali fratelli. Il quadrante dell’orologio era un volto umano, ogni pisello nel piatto aveva una sua personalità e nell’auto dei tuoi genitori la griglia del radiatore era una bocca ghignante piena di denti. Le penne erano dirigibili. Le monete, dischi volanti. I rami degli alberi, braccia. I sassi pensavano e Dio era ovunque.” (Auster 2013, p. 5)
 
 
 
Le favole di Bollorino hanno la dote di avvicinare il lettore a se stesso, alla sua voce, accompagnandolo in quel doloroso percorso. Poche pagine descrivono efficacemente questo percorso come la favola L’usignolo (pp. 4-5) in cui Dio convoca al suo cospetto tutti gli uccelli della terra con l’intenzione di donare a ognuno una voce diversa. L’usignolo esprime il desiderio profondo che ognuno di noi prova davanti all’incontro: “una voce per farmi ricordare”. Leggendo questo passaggio mi sono tornate alla mente le parole, poetiche, che Thomas Ogden dedica al tema della voce in psicoanalisi: nel terzo capitolo del suo Conversazioni al confine del sogno (2001) parla della necessità, e della difficoltà di parlare con la propria voce, una voce che, pur cambiando a seconda del contesto e dell’interlocutore, è individuale e unica. Tale unicità e individualità sono conquiste faticose, ci ricorda Ogden, e a volte aiutare il paziente a parlare con la propria voce può essere l’esito di un lavoro analitico.
Le favole di Bollorino accompagnano noi lettori nello stesso percorso, nel difficile lavoro di significazione e trasformazione della realtà. Concludo con le parole di Simone Weil, che a mio avviso descrivono cosa sia la rêverie meglio di qualsiasi manuale di psicoanalisi: “essere appena l’intermediario fra la terra incolta e il campo arato, fra i dati del problema e la soluzione, fra la pagina bianca e la poesia” (Weil 1951, p. 85).

 
 
Bibliografia
 
Auster, P. (2013). Notizie dall’interno. Torino, Einaudi, 2013
Bion W. R., (1975), Memoria del futuro. Il sogno, Cortina, Milano 1993.
Klein, M. (1929),  “Personificazione nel gioco infantile”. In: SCRITTI 1921-1958, Torino 1978.
Ferro, A. (1995) “Giocare e pensare”. In: Noziglia, M. (1995), (a cura di). Giocare e pensare. Edizioni Guerini e Associati, Milano
Ferro, A. (1995). “Il narratore e la paura”. In: Noziglia, M. (1995), (a cura di). Giocare e pensare. Edizioni Guerini e Associati, Milano
Noziglia, M. (1995), (a cura di). Giocare e pensare. Edizioni Guerini e Associati, Milano
Ogden, T. H. (2001), Conversazioni al confine del sogno. Astrolabio, Roma 2003
Vallino, D. (1998). Raccontami una storia. Dalla consultazione all’analisi dei bambini. Borla, Roma
Weil, S. (1951). L’ombra e la grazia. Bompiani, Milano 2002

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