Dopo l’amore. La coppia nel tempo della crisi.

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22 gennaio, 2017 - 08:51
di: Bruno Pastorino
Anno: 2016
Regista: Joachim Lafosse
Joachim Lafosse ha un gemello. Di sé, il giovane regista belga, dice: “Sono un gemello. Ho due fratellastri gemelli. In un certo senso si potrebbe dire che mio padre abbia saputo generare soltanto gemelli.”
E i gemelli, infatti, punteggiano pure la sua già più che promettente filmografia; a partire da quel Proprietà privata con Isabelle Huppert con cui si pose all’attenzione della critica, emerse come uno tra i più promettenti cineasta della sua generazione e dimostrò di non ignorare affatto la lezione freudiana del doppio perturbante.
Due gemelle (Jade e Margaux; nomi reali conservati pure nella finzione filmica) sono anche le giovani figlie protagoniste del dissolvimento familiare messo in scena nel suo ultimo Dopo l’amore; titolo dal sapore vagamente bergmaniano imposto dalla distribuzione italiana e per nulla rispettoso dell’originario L’economie du couple.
Ma cos’è dopo l’amore? Forse, dopo l’amore,  potrebbe essere quel tempo in cui, con la stessa irragionevolezza e mancanza di discernimento, tutte le meraviglie dell’iniziale infatuazione cambiano di segno e si trasformano in disprezzo.  Ed è quello che accade pure a Boris e Marie dopo quindici anni di vita in comune; (“non sopporto come cammina. Mi disgusta”, confesserà lei, del marito, alle amiche, in un momento di drammatica confidenza).
A Lafosse non importano però né le cause, né le colpe del loro disamore; e infatti non ne parla. Forse non esistono né le une, né le altre. Inintelligibili e magari inesistenti, come pure talvolta lo sono le ragioni dell’innamoramento. Interessa invece quella parentesi di convivenza forzata che sta tra la fine dell’amore e la separazione; quel periodo in cui la casa smette di essere focolare per diventare trappola, spazio privato violato, area condivisa di individui già divisi. Luogo claustrofobico segnato da invisibili ma tangibilissimi confini: il cibo di ciascuno tenuto separato e distinto all’interno del frigorifero; senz’altro la camera da letto non più oltrepassabile; addirittura i vestiti sporchi che non si è più disposti a mescolare con quelli dell’altro.
E Lafosse , dunque, è nel perimetro ristretto dell’appartamento che sceglie di mettere in scena questo suo “gruppo di famiglia”.
Boris e Marie, quindici anni di vita di coppia e due gemelle per figlie, scoprono adesso che l’amore è finito, la radicalità e la profondità delle loro diversità. Differenti sono le loro nazionalità (lei belga, lui polacco); le loro origini sociali (povere quelle dell’uomo, altolocate quelle della moglie); lontanissima la loro attuale condizione (Marie, un lavoro all’università; Boris situato in quel disperato limbo fatto di disoccupazione e lavoretti saltuari).
Boris, deriso da Marie, si professa architetto; chissà mai se millantando una qualifica (e un ruolo) che non ha, oppure vittima di un mancato e ingiusto riconoscimento nel paese che lo ospita e non è il suo.
Senz’altro è comunque privo di soldi propri; interamente dipendente dalla moglie; braccato da creditori dai modi rudi e spicci; incapace di rispettare qualsiasi promessa fatta alle figlie e che preveda una qualunque disponibilità di denaro; certamente esempio non unico, né infrequente, di un maschile disarcionato dal rapido ribaltamento dei ruoli operato nel tempo della crisi.
Ne L’economie du couple, Boris e Marie parlano continuamente di soldi; litigano per i soldi; quelli che servono, quelli che mancano, quelli che occorreranno; quelli che si potrebbero ottenere dalla vendita della casa del padre di lei, piuttosto che dalla loro (meglio: da quella comprata da Marie e in cui ancora vivono, e sulla quale Boris pretende venga riconosciuto il merito di avere arricchito con i suoi lavori).
“Io ci ho messo l’amore”, rivendica lui; valore fuori mercato e difficilmente quantificabile quando, spogliata di un originale progetto esistenziale, quella casa diventa solo merce in concorrenza con altre merci.
Anche se centellinati, non mancano i tentativi disperati tra Boris e Marie di riavvicinamento: magari durante un ballo in soggiorno cui li hanno costretti le figlie; preludio di un’improvvisa e travolgente passione, incapace comunque di vincere l’ormai sopravvenuto deserto dei sentimenti.
Ma quando la tragedia sorvola quel nucleo disarticolato, la separazione finalmente si consuma.
Notarile. Burocratica. Nell’ufficio di un giudice che snocciola le clausole del loro divorzio, al pari di qualunque altra intesa commerciale.
Evocano, le scene finali, le immagini conclusive del bellissimo La separazione di Asghar Farhadi. In entrambe le pellicole aleggia la crisi del patriarcato; là minato dalle non contenibili correnti democratiche e modernizzatrici; qua dissolto dalla disordinata perdita di senso di un maschile espropriato del suo ruolo di proprietario e produttore. In ogni caso, per tutte due, l’urgente esortazione rivolta al pubblico maschile di ripensare il significato di sé.

 
 
 

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