CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

E lentamente muore la psichiatria italiana

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3 luglio, 2017 - 08:33
di Gilberto Di Petta
Sono rientrato da Parigi stamane. E’ notte. Sono di guardia.
E’ domenica. Sono nell’alloggio medico. Fa freddo fuori. Forse pioviggina. Di quelle notti cupe, che preludono al Natale, in cui ti auguri che non ti chiami nessuno.
Mi sono appoggiato sulla branda. Ma il sonno non viene.
I discorsi accesi di questi giorni, rinchiusi nel reparto di psichiatria dell’ospedaletto periferico Corentin-Celton nel quale eravamo, tra pazienti che camminavano, agitati e vaniloquenti, come quelli che descrive Esquirol a Charenton e a Bicetre, mi risuonano come voci di lontananza. La metro con Paolo, la mancanza acuta e dolorosa di Arnaldo.
Il cicalino del telefono, alle 3.30, mi trova vigile, quasi gioioso di rompere la monotona reverie della notte. 118, psicotico cronico del ’77, che “si rifiuta di camminare”. Ospite di una struttura residenziale privata, accompagnato dalla proprietaria-titolare della struttura. Allerto gli infermieri. Due vengono con me, Gennaro e il Pirata. Indossiamo qualcosa e usciamo. Il freddo è pungente. Meno male che avevamo spento i riscaldamenti.
Accediamo in PS. Codice verde.
La collega mi spiega che vuole effettuare un controllo radiografico della mano, perché viene riferita una caduta.
Mi accosto al paziente, Antinoo. Ragazzo mingherlino, disteso sulla barella, impaurito. Hanno aspettato in triage per qualche ora. La signora dice dalle 23. I colleghi dicono dall’una. Comunque è tanto. “Cosa vi ha spaventato”? Il ragazzo è spaventato. La signora : “Dottore da ieri sera non cammina più”. La signora è bassina, tra il 60 e i 70, con occhiali grossi, capelli in disordine, come di chi si alzato come stava, nel cuore della notte. Apprendo che il paziente da otto anni sta in questa struttura. Proveniva da un’altra struttura. Mentre inizio la procedura semeiotica, mi interrogo sulle “strutture”. Ma cosa sono queste “strutture”? sempre più frequentemente, negli ultimi tempi, interveniamo su pazienti condotti alla nostra osservazione provenienti da “strutture”. Antinoo non parla. Tuttavia stabilisco un contatto. Gli sollevo delicatamente prima l’arto inferiore destro, poi il sinistro. Gli chiedo di tenerli sollevati. Mi ascolta. Gli arti si reggono. Procedo così anche con gli arti superiori. Valuto il tono. Tocco il paziente, ha il pigiama, ossa con pochi muscoli. Una creatura afasica, con lo sguardo fisso, attonito. Impaurito. La paura mentre lo tocco si scioglie un poco. Gli chiedo di alzare prima la mano destra poi la sinistra. Glielo dico avvicinandomi, con voce calda ma ferma, lo chiamo per nome. Mi esegue i comandi a perfezione. Mi volto alla signora, forse un po stizzato, le dico che, come può vedere, Antinoo non ha alcuna paralisi.
La signora, di cui ignoro il nome, mi risponde che si è impaurita, che ha chiamato la psichiatra di riferimento (del territorio?) e la stessa ha raccomandato di andare in ospedale. Mi racconta che ha dovuto effettuare diverse volte la chiamata al 118, perché non ne voleva sapere di intervenire. Che ha chiamato il responsabile dell’SPDC competente per territorio, il quale ha detto che non ha posti, che se ne parla tra qualche giorno. Infine ha chiamato la guardia medica, che a sua volta, fatto un sopralluogo, ha allertato il 118.  La mia stizza non è per la signora, che potrebbe essere una mia vicina di casa, una mia zia. La stizza è perché sento di stare di fronte ad un paziente giovane, schizofrenico, cronico da anni, dismesso dal nostro sistema sanitario nazionale, se non per la retta, che ormai vive “a casa” della signora.
Provo rabbia. In questo viaggio al termine della psichiatria c’è anche questo. I nostri pazienti distribuiti a giro, su un territorio anonimo e anomico, gestiti chissà come e chissà da chi. Dopo i primi ricoveri revolving, non li vediamo più. Entrano nella filiera. Abbiamo chiuso i manicomi e abbiamo implementato una filiera di internamenti capillarizzati, diffusi, apparentemente omologati con il territorio, dove questi pazienti svernano la vita, contando le sigarette e i caffè, farmacologizzati soprattutto in merito alla gestione e al controllo del comportamento.
Certo, non sono i grandi assembramenti, certo, le condizioni igieniche sono migliori. Ma che cosa abbiamo fatto? Chi è questa signora con cui i  debbo interloquire stanotte? A che titolo questa signora parla con me di questo paziente? Questa signora  non si è collegata con l’angoscia di Antinoo (i “cronici” vivono ancora l’angoscia, checché se ne pensi..a dispetto del loro presunto spegnimento e del loro sbandierato deterioramento), angoscia psicotica, di frammentazione. E Antinoo si è irrigidito, si è catatonizzato.
La signora mi dice che la psichiatra di recente ha ridotto la terapia con il risperdal, perché stava meglio e aveva effetti collaterali. Mi chiede se c’è relazione tra questa riduzione di terapia  e le manifestazioni di blocco motorio. Non l’ascolto. Sono tenuto per lo sguardo da Antinoo. Non riesco a staccarmi dal suo sguardo.
Bruno Callieri diceva :”Se tenir par le yeux”, come dicono gli amanti francesci : tenersi per lo sguardo. Mi dispiace congedarmi da lui, questa notte. Gli faccio somministrare un sedativo per via intramuscolare. Non ho possibilità di ricoverarlo, perché il reparto si è incendiato ad agosto, e ancora non ce lo consegnano. Ma comunque non lo ricoverei. A noi degli SPDC queste “strutture” ci considerano come le ultime spiagge. Ci portano chiunque, a qualunque ora, quando i conti non tornano. Qual è il controllo che il territorio esercita su queste “strutture”?
E’ un controllo di carte, burocratico, o i pazienti vengono anche visti?
I non visti, i desaparecidos, quelli che esistono non esistendo. Che non possono viversi neache le loro crisi ricorrenti, i loro ricorsi, le pulsazioni della loro malattia psicotica, magari anche sganciati dall’ambiente circostante. Magari crisi senza ragione.
Mi sovvengono, mentre torno in reparto, le idee di Laing, i suoi esperimenti con le case dei matti a Kigsley Hall, dove i pazienti potessero farsi la loro metanoia fuori dagli sguardi della psichiatria. Mi sovviene Luc Ciompi, che ho incontrato di recente, con la sua esperienza di Soteria, dove i pazienti giovani venivano assistiti da personale non psichiatrico.
Ci siamo convinti che la “psichiatrizzazione” non giovi a questi pazienti. Mi viene in mente Anastasios, lo psichiatra che lavora a Kardif, in UK, con cui siamo stati a cena a Parigi, che ci raccontava che l’Inghilterra sta dismettendo i servizi pubblici per dare i pazienti in gestione ad ex.pazienti, che costano poco, che li tengono e li portano avanti, beccando un po’ di fondi qua e la. Lo psichiatra li vede di tanto in tanto, quanto necessario. E tanto basta. Costa poco. Funziona. Che bella cosa.
A Torino, dove sono stato 15 giorni fa, il DSM provvede una somma di 1000 euro alle famiglie che vogliono adottarsi un paziente psicotico cronico. Fanno un minicorso, fanno selezione. Poi lo affidano in famiglia. Un paziente è stato brutalmente ucciso, proprio mentre io ero a Torino, dal capofamiglia ospitante, perché dava fastidio. Siamo sicuri che questa declinicizzazione dei pazienti psichiatrici sia la soluzione migliore? Di certo è la soluzione che prelude alla nostra scomparsa.
Mi dispiace, Antinoo, che oltre ad una valutazione in acuto di diagnosi differenziale tra una compromissione neurologica e uno stato di angoscia io non posso fare più niente per te. Te ne torni dalla signora, forse non ti vedrò più. Tutto quello che ho studiato a che mi serve? A te, avrebbe potuto servire? Potrebbe servire a quelli che stanno in contatto con te tutti i giorni, culo e camicia? Duecento anni di semeiotica, di psicopatologia generale, di fenomenologia, di psicoanalisi e di psichiatria clinica li abbiamo buttati nel cesso. Si ricorre a medico in fase acuta.
La cronicità la può gestire la signora. Grande conquista 2.0. La signora è la titolare del caso. Io sono il contatto dell’emergenza. Poi non servo più. Io, per Antinoo, non servo più. Costo troppo? Forse costo troppo. Ma quanto è costato, stanotte, il nostro tenerci per lo sguardo? La mano di un medico che ti ha toccato, il silenzio degli infermieri che osservavano. Il passo indietro della signora di fronte alla scienza clinica. Non ho risposte. Scrivo questo blog per condividere solo le mie domande. Certo o sguardo di Antinoo non lo dimentico. In quello sguardo ci siamo detti molto di noi. Senza parole.
Siamo entrambi ancora vivi. Nonostante siamo confinati io su una branda di guardia e lui in una struttura. Lontani. Ma ci siamo riconosciuti. Eravamo nati insieme. Non so perché la sorte ci stà così dividendo. Pure nella sua evidenza, il nostro congedo mi sembra assurdo. Impossibile.

Martedi successivo
In mattinata il primario mi telefona dicendomi che la Direzione Sanitaria dell’Ospedale mi ha convocato, per verbalizzare in merito al caso di Antinoo. Antinoo, dimesso nella notte tra domenica e lunedi, dopo aver fatto ritorno alla struttura, è morto. La tutrice legale ha denunciato l’Ospedale. Salma sequestrata in attesa di autopsia.

Mercoledì successivo
Il senso di colpa si annida dietro ogni angolo. Rivedo il mio esame neurologico passo per passo, ricerco dubbi, perplessità, sensazioni che qualcosa non stesse andando. Nessuna. L’dea di un quadro puramente funzionale, di un paziente cronico moto compromesso e spaventato. Forse aveva intuito la sua imminente fine. Da qualche parte. Dalla parte di una non intellegibile condizione. Rinuncio alla mia seduta di analisi e mi reco puntuale alla Direzione sanitaria dell’Ospedale. Vengo interrogato da due ispettori dell’asl, sussiegosi e fntamente amchevoli. Uno ha un vistoso orologio d’oro al polso. Con i baffi, sembra un signore d’altri tempi. Scrive sul suo computerino quello che io dico. L’altro discute con me il testo della mi consulenza. Non si pronunciano su niente. Sono gli indagatori amichevoli. Sul giornae di ieri è uscito un primo trafiletto. Sul giornale di oggi un altro “Verità sulla morte di Antinoo”. Il tono è di ennesima denuncia di malasanità. I giornali raccontano di una morte immediata, circa cinque ore dopo la dimissione dal PS. Incontro la collega internista di quella notte. Non ha eseguito ECG e prelievi poiché era un codice verde. I dati del triage sono perfetti : Glasgow 15, saturazione 97, PA 120/80, frequenza cardiaca 80, ritmica. Cute e mucose rosee, pz eupnoico, non dolore toracico, non ecchimosi. A fine mattinata firmiamo i verbali. Anche gli infermieri del triage vengono sentiti.
Solidarietà da parte die miei colleghi e del primario. Rassegnazione da parte degli internisti del PS.
Salma sequestrata. Attesa di autopsia.

Venerdì successivo
Sono a casa in mattinata. Sto riposando.
Verso le dieci mi chiama il primario. Ci sono i carabinieri in reparto. Debbono consegnarmi un avviso a comparire davanti al PM. Dovevo montare alle 14. Mi preparo e mi avvio. La Discovery scivola silenziosa lungo l’asse mediano, fino alla Domiziana. Sul tratto di costa tra Campania e Lazio. È un pezzo d’Africa, qui ho lavorato da giovane in strutture riabilitative che erano manicomietti per le mostruosità. Canneti e prostitute mi segnano il lago Patria. Non trovo la caserma. All’incrocio di Varcaturo vado a destra. Costeggio la zona del Radar, il parco degli uccelli. Mi si affollano i ricordi. I gruppi fatti a piedi nudi tra la sabbia e gli aghi di pino con i ragazzi del Giano. Vado avanti, sono fuori zona. Torno indietro. Ho individuato un raggruppamento di case ex-abusive all’incrocio di Varcaturo. Deve essere li. Chiedo indicazioni E’ li.
Lascio l’auto su un marciapiedi e mi approssimo alla casermetta, in questo l’embo d’Africa, difesa da un alto muro di cinta, quasi introvabile. I ragazzi in divisa sono gentili, sono giovani. Dopo breve attesa un maresciallo mi riceve nel suo angolo e mi notifica l’atto. Nessun altro particolare o informazione. Non sanno, non dicono. Alle sue spalle scorgo il brevetto di paracadutista. Entrambi ci siamo lanciati dal Pilatus a Pontecagnano. Condividiamo qualche ricordo dell’esperienza.
All’uscita trovo la collega del PS. Era ad un matrimonio. Le nostre vite, adesso, sono già travolte dalla kafkiana macchina giudiziaria. E non siamo ancora colpevoli. Interrogatori, verbali, carabinieri, PM. Il marito della collega mi dice : “Tutte le volte che salvate una vita, nessuno parla di voi”.
Arrivo in reparto. Pranzo qualcosa con Rita. Do comunicazione a gruppo SPDC degli ultimi sviluppi. Ricevo messaggi e telefonate di solidarietà, di stima e di sostegno che mi sollevano. Mentre guidavo con il parabrezza inondato dal sole di dicembre lungo il litorale domizio, pensavo di fermarmi, di prendere un periodo.
Pensavo di non avere più la serenità per fare questo lavoro, almeno fino a che questa faccenda non si darà conclusa. Lo dico anche ai miei colleghi. Nel pomeriggio passa anche il primario a rassicurarmi. Giovanni mi ha scaricato tre cartelle cliniche relative a ricoveri presso di noi di questo ragazzo.
Le riguardo. Si descrive una schizofrenia gravissima, disorganizzata, senza alcun insight. Sono state praticate terapie di tutti i generi. Questo ragazzo è nato nel 1977. Pochi mesi prima della 180. Non ha mai conosciuto il manicomio. Ha passato molto tempo tra ricoveri (10-15 in circa venti anni di storia) e comunità o strutture. E’ morto ante diem, come chi è caro agli dei. Cosa abbiamo fatto e come a vissuto, Ma soprattutto, come è morto? Ora mi aspetta un fine settimana pesante. Sarò a Firenze. Ho lezione al secondo anno della scuola. Devo dare speranza a dieci ragazzi.

Lunedì successivo
Ho sognato di essere in mezzo al mare, con la testa fuori dall’acqua, e di vedere la costa allontanarsi. Portato dalle correnti. Senza avere più la forza di rientrare. Ormai da diverse notti alle 4 apro gli occhi. E mi rivedo la scena. Mi è rimasto tutto cosè straordinariamente impresso. Scelgo una camicia, una giacca e una cravatta. Preparo la borsa e parto. Il navigatore mi porta lungo l’asse mediano, fino a quella che era l’antica città dei normanni. Il tribunale è un castello. Sulla soglia due miliari in mimetica, anfibi e giubbetto antiproiettile.  regolano l’accesso, uno imbraccia un fucile mitragliatore AR 70-90. I magistrati entrano in auto. Ogni tanto i militari scattano sull’attenti. Gli avvocati passano per un acccesso privilegiato. Io facio  un’ora di fila. Metal detector. Mi fanno posare il computer, poi salgo al terzo piano. Procura della Repubblica. Il poliziotto mi chiama il cancelliere. Il cancelliere mi comunica secco che l’appuntamento con il pm è rimandato alle ore 16.
Alle 16 è quasi scuro. Seguendo il cancelliere attraverso i lunghissimi corridoi e meandri di questo castello aragonese di Ruggero il Normanno, Da Onofrio Fragnito fu adibito a carcere giudiziario. Con me la collega e uno della guarda medica che intervenne quella notte.
Mi offro per primo.
Il cancelliere verbalizza. Siamo in un salone enorme. Il medico legale ctu ascolta con le braccia conserte consultando un fascicolo.
Ripeto l’ordine dei fatti. Poi comincia il medico legale. Quando esco sono le 18.30. sono provato. E’ stato un esame universitario. Non mi dice niente dell’autopsia. In cambio vuole sapere come era vestito il paziente. Il mio esame neurologico. Cosa ho notato. Mi sono informato dei parametri vitali. Perché non lo ho spogliato. Di che colore era il pigiama. Perché non ho chiesto una tac. Perché non ho chiesto una consulenza neurologica. Il PM arriva alla fine. Ci comunica che il fratello del paziente uccise i tre ragazzi che abusarono sessualmente di lui quando era ragazzo. Conoscevo la notizia dai giornali.
  
Epicrisi
Nulla è più accaduto.
Non abbiamo saputo più nulla.
Ci siamo telefonati con la collega di tanto in tanto per solidarietà. Da indiscrezioni trapelate pare che il paziente avesse lesioni cervicali che noi non abbiamo riscontrato, poiché non erano presenti al momento dell’esame, per fortuna ripreso dalle telecamere del PS.
Apprendo che in questi anni è la terza persona che muore in quella struttura. Apprendo di controlli effettuati che non hanno avuto esito.
Sento una zona d’ombra. Che nessuna indagine riesce ad aprire.
Mi dispiace non avere potuto fare di più per questo ragazzo. Addio Antinoo. Il nostro reparto è stato riaperto. Ne siamo sempre di meno, una collega è andata via. Ci affastelliamo con i turni.
Continuiamo a far fronte all’emergenza continua. Smonto stamane da una notte di guardia, tutto scorre, lentamente.

E lentamente muore la psichiatria italiana.

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Commenti

sono oltre 9000 le letture di questo pezzo dell'amico Gilberto che lo rendono l'articolò più letto della storia di Psychiatry on line Italia nell'arco di 6 mesi di pubblicazione.
Io credo che la ragione non risieda solo nella potente prosa di Gilberto ma anche e soprattutto nelle tematiche che propone e in cui tanti ci riconosciamo

DA CORRADO PONTALTI:
bisogna capire che il Di Petta che comunica costrutti complessi e radicali è lo stesso Di Petta che dorme sulla brandina del Pronto Soccorso. Solo così, essere rigorosissimi nell'epistemologia e rigorosissimi nella multiforme sfida della clinica, apre alla speranza per quell'assunzione etica totale che vincola noi al mandato professionale ultimo. Invece abbiamo tanti splendidi teorici che non dormono mai sulle brandine, e tanti clinici, che dormono sulle brandine, ma senza bussole epistemologiche se non un DSM IV o 5 nemmeno applicato con rigore ma solo per nuove immaginarie nosografie. Ricordo, tanti e tanti anni fa, un importante cattedratico che mi disse " Sai, Pontalti; la Psichiatria è bellissima....peccato che ci siano i malati psichiatrici". Ero giovane, ma mi dissi "no, non voglio finire così!". Non so se in parte ci sia riuscito, ma è l'incontro con Maestri come te, così rari, che mi hanno dato la forza e la speranza che la sfida era possibile. Grazie, grazie. Penso che la comunicazione di Bollorino che la tua testimonianza abbia avuto un numero così alto di lettori, ci dia ancora speranza e che non ci sia ancora una fine ineluttabile.

Condivido la conclusione del collega, al quale esprimo tutta la mia solidarietà umana prima che professionale.
Ma non sono meravigliato nè sorpreso. La "psichiatria" italiana è da sempre in mano a solerti e famelici individui assetati di gloria mass-mediatica ed economica, non certo da sincero e profondo interesse per la "materia" trattata, vissuta come strumento e non come fine.
Il merito, in Italia, è stato svenduto da tempo alla colleganza politica, perciò le gerarchie (non solo le nostre) sono starate, inconcludenti, centrate sull'economia e non sulla capacità clinica. Yes man al servizio di chi li ha nominati. La Mission è stata tradita. Dopo Dio, anche Basaglia "è morto"!
Questo ho visto nei miei anni di attività nel SSN, attività per fortuna cessata per normale pensionamento il primo novembre 2016.
Forse sarei rimasto in servizio, così immaginavo tanti anni fa, essendo ancora "giovane" (ho 61 anni e mezzo!), ma, date le condizioni reali, ben descritte dal collega, ho deciso di prendere il primo treno possibile per uscire da questo "manicomio" che è diventato il DSM, almeno il mio DSM.
Peccato. Io questo lavoro l'ho scelto, non ci sono capitato per caso, come è accaduto a molti dei miei "colleghi"; spesso mi sono sentito l'uomo che urla nel deserto.
Forse l'amarezza è figlia anche dell'età, mi dico spesso. Anche mio padre era amareggiato di come stava "evolvendo" la scuola italiana (era preside del locale Liceo Classico). Ma non riesco a trovare una riforma, fatta nel corso di questi decenni, che abbia realmente migliorato la situazione precedente! Al netto delle chiacchiere sui propositi e gli "Obbiettivi", siamo riusciti a peggiorare quasi tutto. E allora, largo ai giovani, che magari, con l'entusiasmo e le speranze proprie dell'età, provino ad aggiustare quello che noi non siamo riusciti a fare.

Caro collega Lazari, ti ringrazio della sintonia. La tua testimonianza di uomo e di clinico che ha svolto la propria carriera interamente dentro i dispositivi della riformata psichiatria italiana è veramente preziosa, al di là di ogni retorica e di versione politically correct. Criticare il manicomio era scontato e pressochè unanime, criticare lo sfascio dell'attuale sistema ci fa passare per disfattisti o passatisti. E' necessario un ripensamento globale. Mi auguro che proprio dalla psichiatria italiana possa partire un pensiero critico e costruttivo che possa contaminare anche la psichiatria internazionale. Le due domande di Binswanger : "Che cos'è la psichiatria?" e "Che cos'è l'essere umano di cui la psichiatria si occupa?" debbono tornare ad ispirare le prassi. Oggi siamo sicuramente più disillusi, ma più con i piedi per terra. Da questa devastazione forse ciò che è essenziale ci appare meglio definito. Il mondo intorno è cambiato molte volte nell'arco della nostra vita. La vicinanza ai nostri pazienti può aiutarci a capire, e a far capire, quali sono i bisogni e le esigenze umane, anche al di là della malattia. Io credo, dalla mia posizione di clinico, che dobbiamo essere noi clinici a fare la prima mossa, ovvero rimettere il mondo del paziente al centro del sistema. Per fare questo occorre molta formazione e una certa autenticità esistenziale. Altrimenti il sistema diventa un alibi. Troppo comodo perchè troppo vero.

Comprendo e apprezzo la tua spinta costruttiva, che rimane l'unica posizione possibile per sperare in un futuro migliore. Tuttavia io mi chiedo: in quali luoghi è possibile stimolare un serio "aggiornamento" delle politiche legate alla salute mentale? Non mi pare che ce ne siano attualmente.
A parte il controllo economico, che vede perdenti i nostri "deboli" pazienti, nessun politico persegue realmente obbiettivi di miglioramento dell'assistenza psichiatrica nazionale.
Da noi stiamo assistendo ad un depauperamento continuo delle risorse.
In uno degli ultimi incontri presso il DSM della mia AUSL (Latina), ho spiegato che l'unica posizione "politica" non aggressiva che uno psichiatra competente (perdonami il narcisismo!) può abbracciare per trascorrere, in modo accettabile, il resto della vita è la "serena rassegnazione", cercando di evitare così la depressione reattiva.
La mia (o meglio la nostra) generazione ha perso; non è solo una canzone di Gaber.
Ovviamente ci rimane la consolazione che nel nostro piccolo abbiamo fatto forse qualcosa di buono per alcune persone sofferenti. e non è poco. Ma non siamo riusciti a portare avanti, su scala nazionale, la lezione basagliana.
Per ora, ha vinto la nomenclatura. Certo "la speranza è l'ultima a morire", ma credo che ci vorranno i tempi della storia, non quelli della vita di un uomo, per immaginare un rinascimento nazionale della nostra professione.

PER UN APPROFONDIMENTO nel mio LINK ci sono i LINK sul punto di vista internazionale relativo al mhGAP in Psichiatria: http://www.psychiatryonline.it/node/6733

È uno scitto tragico e amaro, ma scritto ossimoricamemte con parole calde e dolcissime. Si "tengono per gli occhi" le persone per cui si prova amore e pietas, su queste persone ci si continua a interrogare anche dopo che ne abbiamo perso i contatti e il loro sguardo non cessa di comparire nella nostra mente.
Se uno psichiatra sa ancota guardare negli occhi un proprio pz con amore e compassione e nom smette di preoccuparsi umanamente per il suo destino, io spero con tutto il cuore che per la psichiatria italiana ci sia ancora una speranza e un futuro da rifondare insieme.
Ho 41 anni (42 a novembre) e lavoro in un csm dal 2008, non so se posso ancora considerarmi una giovane psichiatra, forse no, sono già preoccupata e amareggiata per tante cose, ma cerco di alimentare ogni giorno la speranza che, dopo la chiusura dei manicomi e degli opg, per la psichiatria possano esserci non solo "lunghi lamenti", ma anche un futuro migliore, che un " medico dell' anima" possa servire ancora e meglio.
Proviamoci insieme, vi prego, non ci arrendiamo...
Grazie in ogni caso per questa testimonianza coraggiosa, che non esita a mostrare un momento di difficoltà e di amarezza che può capitare anche ai migliori, quando continuano a lavorare in prima linea e non smettono di sporcarsi le mani di sudore, sangue, vomito, escrementi e umanità pulsante.

Cara Alessandra, quello dello psichiatra è un lavoro che nel tempo accumula congedi impossibili. I colloqui interrotti, come i sentieri di Heidegger, dai suicidi, dalle morti per overdose, dalle sparizioni, dal nomadismo della follia stessa e dal nostro nomadismo tra i servizi.Faccio il medico da quasi trentanni, e ho cambiato molti servizi. La mia è una storia tipica di relazioni interrotte. Ho imparato a incontrare e a dire addio, a vivere con ogni paziente il primo incontro come se fosse l'ultimo. ma poi non è così. Non è mai così. Mi ritrovo a piangere, a sentire le voci dei pazienti perduti, a immaginare il decorso delle loro vite. Ogni tanto qualcuno, dal passato, si fa vivo. E allora è come se ci fossimo lasciati ieri. Mi sono fatto la fantasia che la mente di uno psichiatra, ma di più il suo cuore, è ricca e complessa come il sistema immunitario. C'è sempre un antigene nuovo che sviluppa una linea anticorpale nuova che rimane nella memoria per sempre. Un sguardo, una stretta di mano, un silenzio, un colloquio, una lacrima, un segreto, un pezzetto di delirio. Poi tutto sembra confondersi. Anche con i pezzi della propria vita. Ad un tratto ti accorgi che stai vivendo la vita di chi non può viverla. E loro vivono un pezzo di quella che non vivi tu. Tutto questo è quasi inesprimibile. E' irrinunciabile. Per chi lo sente è cio' che ti fa andare incontro ad ogni giorno di lavoro con l'aspettativa di una rifondazione del mondo. Perchè ogni incontro autentico è una rifondazione del mondo. Il fatto ci vedere colleghi più giovani, che arrivano e che, come te, mostrano identica passione, mi fa sperare bene che "non omnis moriar.". Grazie. Un abbraccio.

Molto bello, convincente, commovente. Un vero e proprio viaggio la termine della psichiatria che dovrebbe curare. I processi di occultamento della follia , del male mentale, con soluzioni riduzioniste, semplicistiche, violente anche quando hanno il volto del bianco dei sepolcri imbiancati e dell'eleganza raffinata. Ma la follia è imprendibile e lacera tutti i tentativi di chiuderla in un recinto di poteri forti o di abbandonarla la dialogo con i semafori. Non muore lentamente la psichiatria, è agonizzante, forse già morta. Manca l'anelito alla cura, l'interesse per la vita dei pazienti, la costruzione di significati e di relazioni che diano senso. E' caduta la tensione alla cura, contano di più i costi, l'illusione farmacocratica, il consenso e lo sgravio delle famiglie. Però ogni tanto qualcuno corre il rischio, affronta la situazione, con scienza, coscienza e umanità. E spesso si trova disperatamente solo, come le persone di cui si sta curando a cui sta offrendo il suo supporto. Forse bisogna ripartire da qui, dall'incuontro fra la persona che cura e la persona che soffre. Certo non bisognerebbe essere soli. E' necessaria una cultura che ci accomuna, una ricerca che non si inaridisce, la capacità di ribellarsi ai burocrati dell'occultamento della sofferenza psichica e di chi se ne fa portatore. Per non incorrere nella profezia di E, Canetti, che ammoniva:i vecchi ruderi li abbiamo abbattuti. Così potremo edificare i nuovi.

Caro Angelo, ti ringrazio, soprattutto perchè il tuo commento, come quelli degli altri, mi fanno sentire meno solo. Girando l'Italia e incontrando tanti colleghi, sentendo le loro perplessità, le loro domande, e confrontandomi anche con i colleghi stranieri, noto che non siamo affatto pochi quelli che la pensiamo nel modo che tu semplicemente esponi. Io parlerei di una maggioranza silenziosa, invisibile, che non ha posizioni di potere, che non ha accesso mediatico, che lotta in condizioni di disagio, che non scrive sulle riviste impattate, che ogni giorno al proprio servizio o fuori scrive pagine eroiche con l'inchiostro simpatico. Come è possibile che questa maggioranza silenziosa, saggia del buon senso che deriva dalla frequentazione con la clinica, non abbia alcun peso su una minoranza completamente staccata dal real world e assorbita in prebende societarie, in consorterie di potere, in accademie, in carriere, pronta a dare la propria lettura televisiva dopo ogni efferatezza della cronaca? Forse penso che la rete possa aiutarci. Se riuscissimo a contarci, a scambiarci le nostre esperienze, a far sentire la nostra voce, a rappresentare le esigenze dei pazienti allora le cose potrebbero cambiare veramente. Se riuscissimo a raccontare il nostro lavoro al di là dei dati e delle statistiche.... Se ritrovassimo il piacere di conoscere la nostra storia e di difendere la complessità e la delicatezza del nostro lavoro, contro la sopraffazione omologante, allora forse potremo dare una svolta. Ti abbraccio.

Ovviamente non ne sapevo nulla.
Condoglianze.
Nel testo ti sei vergognato di dire quanto costano queste strutture.
Forse non ci hai pensato, ma siccome siamo "attenzionati" per "rischio di infiltrazione camorrista", le nostre azioni sono considerate a priori colpevoli, figuriamoci eventuali negligenze.
D'altra parte l'atto giudiziario era dovuto, sicché la struttura doveva pur scaricare la responsabilità ennesima di una morte.
In una struttura simile d'altra parte non è possibile uscire se non morendo o per un TSO, non dimentichiamolo.
La società per un costo che sappiamo essere ESOSO (4-9mila euro, diciamolo) delega per non dover accogliere i fantasmi della salute mentale.
I centri di salute mentale, ormai, sono dei fantasmi anche loro.

Caro Manlio, ti ringrazio per la solidarietà e per la compartecipazione a questo dramma. So che, come me, sei uno che non si arrende.So che sei autentico anche a costo alto. So che sei uno psichiatra che non ha smesso di pensare. Spero che i nostri sforzi possano un giorno congiungersi.

E' da molti anni che si vuole far diventare lo psichiatra il "medico dell'urgenza", a discapito del tempo e delle energie che lo specialista potrebbe dedicare ad interventi preventivi e curativi. In questo modo (a dispetto di quanto si afferma ufficialmente), la psichiatria diventa sempre più uno strumento di controllo sociale (di mantenimento dell'ordine), anziché uno strumento di vera e propria cura.

Caro Sabino, anche io avverto questo pericolo. E' come se fossimo ormai i delegati all'emergenza. Forse dovremmo trovare il modo di partire dall'emergenza per costruire l'ordinario. A volte ho la sensazione che non sono accettiamo passivamente la delega dell'emergenza, ma la sbrighiamo in fretta e furia quasi vergognandocene, senza riuscire a decostruirla e a far si che alla società ritorni qualcosa di quello che un essere umano in crisi,a qualunque titolo, sta cercando di dire. Credo che stiamo diventanto colpevoli silenziatori di ogni increspatura del sistema, piuttosto che decrittatori del senso che l'acuzie riverste. Ma su questo mi piacerebe sentire anche altri come la pensano.

DA SEMPRE Psychiatry on line Italia poggia sulle mie spalle di editor sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista finanziario e dopo tanti anni in cui sono andato avanti mettendoci tempo, lavoro e denaro è giunto il momento di dire con chiarezza e onestà intellettuale che non ce la faccio più con le mie sole forze e ho necessità di un aiuto diffuso e consapevole da parte di chi sappia riconoscere ciò che è stato fatto, ciò che si fa e ciò che si farà in futuro.

Siamo ad un bivio: la rivista oltre che avere spese di base fisse ha bisogno di aggiornamenti di software e di hardware che con le mie sole forze non sono in grado più di supportare, al tempo stesso Psychiatry on line Italia è e sarà SEMPRE una risorsa gratuita di libera fruizione ma come ho più volte sottolineato non confondiamo la gratuità con il non costo: dietro alla risorsa vi è LAVORO e vi sono COSTI VERI E NON VIRTUALI DA SOPPORTARE.
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La lettura di questa comunicazione ha suscitato diverse emozioni, quali sofferenza per la morte di un paziente, preoccupazione per le conseguenze che sono ricadute sui colleghi, un misto di sconforto e rabbia per l’isolamento umano dei tanti Antinoo che appena ventenni già sono etichettati come pazienti “cronici” e per l’immobilità in cui stagnano i Servizi di Salute Mentale, sempre più incapaci di dare risposte adeguate.
Spesso mi sono domandato: dopo la Riforma psichiatrica cosa è accaduto di veramente importante per i malati mentali? Che fine hanno fatto i Centri Crisi, i Centri Diurni, tutte quelle Strutture Intermedie che dovevano promuovere salute mentale? Quante comunità psichiatriche presenti sul territorio italiano, che dovrebbero avere quale obiettivo fondamentale la “riabilitazione” dei pazienti, di fatto, non sono altro che delle strutture che “custodiscono” la diversità e generano “nuova cronicità”? Quante Comunità Terapeutiche o le neo-nate REMS non sono che "nuovi” manicomi in moduli di 20,50,100 posti letto? Sicuro i livelli igienici sono migliori e le pratiche meno coercitive, e di certo non bisogna invidiare gli Ospedali Psichiatrici Civili di un tempo o gli OPG, ma la “psichiatria” che da dieci anni vivo sul mio territorio, che dovrebbe essere figlia di quella Riforma psichiatrica da tanti celebrata come "rivoluzionaria", come un "nuovo umanesimo", io, psichiatra 40 enne, non l’ho mai conosciuta. La “presa in carico multidisciplinare” a cui tutto il movimento di Riforma psichiatrica fa riferimento nel suo documento programmatico, quella dimensione dove i diversi operatori, gli utenti e la comunità possono organizzare insieme programmi terapeutici e riabilitativi, l'ho vissuta raramente e certo non negli ultimi anni.
Ciò a cui, invece, assisto nei Servizi di Salute Mentale è un ossessivo penetrare di un tecnicismo acefalo e disumanizzante. Con l’alibi di codificazioni scientifiche, con l’enfasi sulle neuroscienze che affermano con forza le teorie biologiche della malattia mentale, con la messa in commercio di nuovi antipsicotici che molti psichiatri guardano come la panacea esclusiva e assoluta delle malattie mentali, nonché con l’insistente introduzione delle cartelle cliniche elettroniche che non permettono neppure più lo scambio verbale e "simbolico del paziente” tra gli operatori, la funzione terapeutica degli organismi sanitari si è sempre più devitalizzata di umanità. Per non parlare poi degli ultimi decreti legislativi per il servizio pubblico, che spingono i Dirigenti che rivestono ruoli apicali ad essere sempre più "sceriffi" anziché "uomini giusti", sempre più controllori nei confronti dei sottoposti, anziché promotori di progetti, sempre più manager di budget più striminziti.
In questa quotidiana perversione, ogni giorno di lavoro in psichiatria sembra diventato un “giorno di ordinaria follia”. E così, quando accadono eventi tragici come la morte di un paziente, si è giudicati su quanto sei stato un “Tecnico Psy”, se hai rispettato le linee guida, qualora potessero essere tracciate in psichiatria, se hai eseguito un elettrocardiogramma o una TAC, se hai avuto il consenso da parte del nostro paziente psicotico: interventi operativi, questi, che, come sanno gli addetti ai lavori, in psichiatria sono difficili da svolgere e spesso impraticabili. Ciò detto, sarebbe una follia da parte di un medico legale che per professione cerca soluzioni lineari e quasi matematiche al quesito posto da un giudice, o da parte della stessa magistratura, focalizzare il bersaglio delle responsabilità sui singoli atti di un collega, come sull’intervento dell’ultimo clinico che ha incontrato Antinoo. L'ultimo e l'unico che forse vive un sentimento di colpa. Autocolpevolizzarsi per cosa? Per aver fatto, o per non aver fatto abbastanza all'interno di una catena di servizi, procedure, operatori, organizzazioni, istituzioni che non hanno funzionato, e che Antinoo neppure ha mai incontrato?
Tutti sappiamo che la malattia mentale è diversa dalle altre, che la malattia mentale è complessa perché ad alta densità umana e non possiamo confrontarci con essa pensando di attuare risposte semplici e tecniche, né possiamo operare con l’idea di poter essere giudicati quando il nostro agire è off-label se realmente vogliamo essere promotori di benessere e salute e non di una medicina difensiva.
Tutti sappiamo che è proprio sulla base di questa complessità della malattia mentale, che sono stati abbattuti i muri dei Manicomi. Ma oggi, i nostri cari Dipartimenti di Salute Mentale, concepiti al fine di facilitare l'incontro umano, di promuovere il benessere mentale attraverso la multidisciplinarità, la coordinazione con la comunità, di fatto sono diventati dei “Servizi Psichiatrici” appiattiti sulla figura del solo Psichiatra, su sedute ambulatoriali ipertrofizzate sul presente, sempre più privi di una dimensione progettuale e incapaci di coinvolgere altre Istituzioni se non per eseguire atti burocratici, come la disposizione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio oppure operazioni da “psichiatria di collocamento o di collocazione”, piuttosto che “di collegamento”.
Ebbene, la psichiatria ha le spalle al muro, ma dopo lo sconforto emotivo, leggendo i commenti dei diversi colleghi al “calvario” di Di Petta, sono stato assalito da un’emozione rabbiosa per il fatto che tutti hanno usato per il collega parole di solidarietà, vicinanza, conforto, che sono sì parole giuste, ma parole di passività. Mi domando: che fine hanno fatto gli psichiatri rivoluzionari? Gli “psy” dell’ anti-psichiatria? E’ mai possibile che ancora nel 2017 evochiamo Franco Basaglia, Sergio Piro, Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini ? Che ne abbiamo fatto della loro eredità? Che fine ha fatto lo stesso Gilberto Di Petta che nei suoi interventi, pochi anni fa, invitava alla “Trasgressione” nel suo significato di “Trascendenza”? Viviamo in un’epoca intimamente anti-comunitaria, molto distante da quella dei padri della Riforma Psichiatrica, un’epoca sempre più priva di uno spirito di solidarietà e questo anche tra noi “psy”. Con la riduzione di risorse umane nei Servizi e il precariato, la “colleganza”, quel rapporto di collaborazione tra colleghi, ha lasciato il posto a relazioni estemporanee e conflittuali: sempre più il collega viene visto come colui che arriva tardi allo smonto, colui che usufruisce della legge 104 e non può fare turni notturni, colui più dedito ad organizzarsi le giornate di congedo che condividere il lavoro; ancor di più tale condizione è vissuta dai giovani psy, che, incattiviti dal precariato, vivono il collega come un atomo competitore e non di rado posizionano diritti personali con rivalse querulomaniche. Sembra che anziché la solidarietà, la collaborazione tra colleghi, è il “mors tua vita mea” ad abitare sempre più i nostri Servizi, in un misto di solitudine e paranoia, talvolta più degli addetti ai lavori che dei pazienti.

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi…” sono i versi iniziali di una delle Poesia dalla paternità più contesa e mai risolta tra Pablo Neruda e Martha Medeiros. Risolta, invece, sembra la battaglia tra gli “psichiatri romantici” post-sessantottini che agivano di cuore e parole, e gli “psichiatri lombrosiani” che agiscono a ventate di DSM-5 e terapie farmacologiche. La cara e amata psichiatria, un tempo contesa, oggi sembra pienamente realizzata nelle mani di questi tecnici della salute, di questi sacerdoti di un pensiero scientifico, di psichiatri allineati ad un pensiero unico dominante.
“Lentamente muore la psichiatria”, anche perchè lo psichiatra investe sempre più il suo tempo a relazionarsi con un pc (per inserire dati) piuttosto che con le persone, perché lo psichiatra si piange addosso e continua a subire passivamente questa psichiatria dominante come l’unica psichiatria possibile, perché lo psichiatra romantico anziché reagire con coraggio rinuncia ad ogni possibilità di modificare lo “status quo” e vede, come unica risposta, il suo prossimo pensionamento, come commentava il collega sessantenne.
Lentamente muore la psichiatria se innerva una dimensione sempre più scientifica piuttosto che politica e umana, se continua a misurarsi solo con le risorse e gli spazi che possiede anziché con l'idea che ha dell'uomo.
Lentamente muore lo psichiatra se non si confronta con l’idea che ha della psichiatria e sul motivo per il quale si “è fatto psichiatra”, se, chiuso nel suo ambulatorio, diventa un’isola davanti ad un mare di pazienti che sognano un porto sicuro, ma che hanno come risposta un bagno farmacologico con il rischio di annegare.
“Non esiste altra Psichiatria al di fuori di me.” Sembra il comandamento teologico della nostra epoca. Questa è la perversione, questa è la menzogna, questo è il pensiero di intrasformabilità, di rinuncia alla lotta per una psichiatria alternativa ed è la cronicità che piega molti di noi “Psy”.
La psichiatria che lentamente muore è il lento morire di noi “Psy”, in modo indolore, per alcuni inconsapevole, per altri quasi comodo. Lentamente muore la Psichiatria, perché i tanti “Psy” rinunciano al loro mandato sociale, comunitario, territoriale che non è di cura o controllo della diversità ma di promozione di salute mentale, e ciò avviene solo attraverso la partecipazione attiva alla vita comunitaria, alla società, facendosi portatori di cultura e umanità.
Per gran parte della sua avventura storica la Psichiatria è stata anche politica. Credo che non possa esistere Psichiatria senza Politica. Gli psichiatri che hanno promosso la chiusura dei manicomi sono stati politici, intendiamoci, non nel senso di politicanti ma nel senso che incarnavano la grande riflessione filosofica sull’uomo e sulla polis. Avevano antropologizzato il loro lavoro in una circolarità tra Politica e Psichiatria e con coraggio si ribellavano al pensiero manicomiale dominante. Nel nostro orizzonte storico, ciò che manca, sono le figure del coraggio. Ecco : abbiamo bisogno di Psichiatri coraggiosi.
A questo “lentamente muore la Psichiatria”, di sicuro provocatorio, di G. Di Petta ma doloroso, io sento di far eco promuovendo una domanda semplice:
“Qual è la psichiatria che vorresti?”.
Una domanda semplice, ma anche rivoluzionaria, perché implica la possibilità di un cambiamento e non l’accettazione passiva di uno stato di fatto o di un modello inflitto dall’alto.
La psichiatria che io, Luciano, vorrei è vedere i tanti “psy” che sono coartarti nei loro studi filosofici o scientifici che poi traducono in prescrizioni verbali o farmacologiche, uscire dagli ambulatori, vivere la polis, dissentire su questo totalitarsimo che schiaccia l’esistenza, mappare il sistema psichiatrico con l’aiuto della comunità per poi progettare insieme una possibile psichiatria alternativa.
La psichiatria che vorrei è vedere le commissioni concorsuali, da poco riaperte nella nostra Regione, scegliere i futuri “Psy” del servizio pubblico non solo sulla base dei curriculum, delle competenze tecniche e delle pubblicazioni scientifiche, ma sulla base dei loro desideri di fare psichiatria, su come sentono il mondo, sulle loro capacità di “esserci” in relazione, su loro “esprit de finesse”, sulla loro gioia di vita.
La Psichiatria che vorrei è vedere nei Direttori dei DSM, uomini capaci di vivere e promuovere i Servizi di Salute Mentale come spazi di vita, di incontro di persone, di luoghi di confronto tra i diversi saperi, di luoghi fecondi di cultura e arte, “dove non si opera la Psichiatria ma si utilizza la Psichiatria per produrre Salute Mentale”.

Qual è la Psichiatria che vorresti?

Luciano Petrillo

Caro Luciano, mi fa piacere che uno psichiatra quarantenne registri le cose che registri tu. Mi sembra di avvertire un filo nostalgico rispetto ad una impostazione che ti ha visto arrivare tardi, post-festum, quando la rivoluzione si è consumata, si è trasformata in istituzione e quando l'istituzione, come tutte le istituzioni, si è ammalata. E tu registri la malattia dell'istituzione, della quale sei tu stesso un sintomo. Non credo che abbia senso riproporre schemi di mobilitazione generale che hanno fatto il loro tempo. Credo di più in un processo lento, condotto a piccoli gruppi o singolarmente, di problematizzazione, di apertura di interrogativi, di consapevolezza, di maturazione personale, di cultura e di maturazione umana. Noi siamo gli eredi di due secoli di psichiatria, segnati dall'evoluzione tecnologica e tecnocratica della medicina, dalla progressiva deculturalizzazione delle pratiche cliniche, dalla deumanizzazione della relazione. Ma siamo al tempo stesso ricchi di una storia paradigmatica. La psichiatria è il precipitato della modernità, della post modernità e della ipermodernità in tutte le sue declinazioni. La malattia delle grandi democrazie occidentali, la crisi della ragione illuministica, il ribaltamento della libertà in populismo terrorizzato e inneggiante all'ordine, al confine, alla razza, ci debbono far riflettere che nessuna vera rivoluzione è possibile nè ope legis, nè per mutamenti catastrofici. La rivoluzione più trasgressiva e trascendente è quella che passa per i singoli, quella che cambia dolorosamente il nostro assetto interno, e ci mette all'altezza di poter essere interlocutori del nostri pazienti, che ci mette in condizioni di poter apprendere dai nostri pazienti a riformulare domande essenziali sulla nostra umanità. La nostra generazioni di psichiatri non ha più mura da abbattere e non ha più risorse per organizzare palestre e teatri a cielo aperto. Secondo una cultura degli eventi e dei concerti che lasciano il tempo che trovano. Se ognuno di noi trova la forza di modificarsi quotidianamente e di modificare, anche di poco, le traiettorie esistenziali di coloro che incontra, allora la rivoluzione è possibile, diventa il clinamen di ogni atomo che insieme modifica il campo. Non si ottiene niente con gli slogan e con le feste. Questa è la durezza del percorso che deve vedere ognuno di noi come un viandante in eterna ricerca dell'altro.


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