PSICOANALISI ETICA
Tra clinica, arte e contemporaneità
di Annalisa Piergallini

COME SOPRAVVIVERE ALLA FACOLTA' DI PSICOLOGIA

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15 maggio, 2017 - 18:25
di Annalisa Piergallini

Sono andata a Roma, alla Sapienza. Quando mi sono iscritta io, si era all’inizio della corsa per la facoltà di Psicologia. Oggi c’è la ressa, tutti vogliono essere psicologi. In particolare psicologi clinici. E il furor curandi non si riversa solo su psicologia o medicina, ma sociologi, filosofi, artisti, casalinghe, pensionati… tutti vogliono curare. E ogni attività, ogni cosa, viene trasformata in terapia, ludoterapia, tangoterapia, yogaterapia, caneterapia, scoiattoloterapia, uncinettoterapia. Ogni cosa viene accostata alla cura. Ci resta qualcosa da fare solo per voglia? Ridi che fa bene, fai l’amore che fa bene, coltiva i campi che fa bene… E’ la società tutta che sentendosi malata cerca una ricetta che guarisca. Ma se vi siete iscritti a psicologia e volete fare gli psicoterapeuti, siete, siamo, particolarmente gravi e la facoltà non vi aiuterà, quindi, ascoltatemi, potreste sopravvivere e perfino continuare a vivere felici, superando il trauma.

1° consiglio, strategico, se volete andare avanti dovete sopravvivere al caos.
Il caos di contenuti è universale. Sospendete il giudizio e affrontate il caos pratico. A Roma certo più sentito  che nelle sedi più piccole: nella logistica, nei tempi, nella burocrazia, la disorganizzazione è ovunque e per ogni informazione bisogna improvvisare.
Io avevo il mio metodo: chiedevo a circa dieci fonti, tra istituzionali e non, studenti, professori, segreteria, libreria, portieri, passanti… poi facevo la media. Siccome le risposte si contraddicevano sempre, così non me la prendevo e avevo più probabilità di avere la giusta informazione. Comunque a volte le cose cambiano all’ultimo momento e spesso è solo fortuna.
Quindi, per sopravvivere al caos, metodo e non prendetevela, non prendete le cose troppo sul serio.
 
2°: sopravvivere alla bruttezza.
L’aula era l’aula magna, lì si tenevano Le lezioni di Psicologia del primo anno, stretti posti a sedere su gradoni comunque freddi e claustrofobici, con il tocco finale di un affresco, che era stato fatto nel periodo dell’occupazione l’anno prima, che avrebbe dovuto salvarci da tutto quel grigio cemento. Non ce la faceva: era brutto.
Eravamo tanti, troppi. Tutti quelli con cui avevo stretto amicizia il primo anno abbandonarono la facoltà, erano quasi tutti in grado di sopravvivere alla macchina burocratica, ma non ne avevano alcuna voglia.
Poi trovai altre persone che non erano cretine, ma avevano buoni motivi per restare.
Cominciai il secondo anno più sola ma più brava a sopravvivere: avevo trovato il modo di fare gli esami, prendere buoni voti e mettere piede all’Università il meno possibile. Dal mio punto di vista la maggioranza delle lezioni non valeva il tempo perso. La percentuale dei testi inutili sale vorticosamente man mano che si avvicina all’agognata zona clinica.
La facoltà di Psicologia è brutta. Esteticamente parlando ha delle soluzioni architettoniche discutibili, cemento, cartongesso e ferro. La trascuratezza della cosa pubblica a cui siamo tristemente abituati.
Al primo anno gli studenti di psicologia hanno una gran voglia di raccontarti di sé, il loro doppio, i loro sogni, incubi etc ma già dal secondo anno si opera una trasformazione: tutti non vedono l’ora di darti interpretazioni. Non so se sia perché tanti dei migliori abbandonano o perché si convincono davvero quasi tutti che, visto che non sono più una matricola è giunto il tempo della cura. Cura che avviene quasi sempre a colpi del loro sapere, cercando di prendere quanto hai di più intimo. Si intravede solo la volontà di mostrare il sapere, come a scuola quando si risponde a una domanda.
Solo che nessuno gliel’ha fatta la domanda.
Il primo anno è soprattutto una scuola di sopravvivenza. Gli esami erano biologia, anatomia, statistica, pedagogia, sociologia. L’unico esame di psicologia era psicologia generale, un minestrone di conoscenze. Ma è bastato ai miei amici per andarsene. Sì perché il succo dell’esame era il testo della nostra prof. Il suo testo mi faceva l’effetto di un imballaggio. Sostanzialmente non faceva che ripetere che le cose si influenzano tra di loro. Nessuno ne dubita, e allora?
Il professore con cui mi sono laureata, Accursio Gennaro, era una delle eccezioni, un uomo buono, studioso.

3°: consiglio etico. Fondamentale avere una guida, un maestro zen, un bravo psicoanalista, un guaritore. Il mio non guaritore, ma la mia guida, è stato Antonio Di Ciaccia, un analista lacaniano, traduttore delle opere di Lacan e soprattutto papà di un metodo che ci permette di lavorare con i bambini, anche autistici.
E se siete tra quelli completamente fusi che credono di essere perfetti, sappiate che dei mali dell’anima dovrete ammalarvi se volete curarli, o meglio, diceva Freud: dimenticatevi di volerli curare.
Sceglietevi prima possibile una teoria che lasci spazio al soggetto, non sarete mai felici nella curva di Gauss, la felicità, che è uguale alla soggettività, sfugge agli esperimenti. Freud, Lacan, lo Zen… vedete un po’.

4° consiglio: la pratica. Nel frattempo, se possibile prima di tutto questo, andate a conoscere la follia, perché se essa, con Freud, è il limite della libertà dell’uomo, lavorarci non è per tutti.
Centri diurni, case famiglie, assistenze domiciliari, private e non. Metteteci il lavoro che vi darà la prova della vostra scelta: lo reggete? E la prova di tanta teoria. E la prova che tanta teoria non copre mai totalmente neanche una piccola realtà.
Non c’era scritto che Sebastiano mi si sarebbe presentato con una testata, o che Melissa avrebbe ripreso a camminare solo quando io avessi imparato a giocare a briscola, che Fox mi avrebbe potuto rispondere solo se gli avessi parlato in dormiveglia… ma di questo vi parlerò la prossima volta.
 
 

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