PRESENTAZIONE DEL VOLUME "LA PSICHIATRIA NEGATA"

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19 luglio, 2017 - 15:57
Autore: DORIANO FASOLI, UGO AMATI
Editore: Alpes Roma
Anno: 2017
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La “Psichiatria negata” è una lunga intervista che rilasciai a Doriano Fasoli una dozzina di anni fa. C’eravamo preliminarmente accordati per fare il punto sugli effetti della legge Basaglia, la famosa 180, dopo circa vent’anni dalla sua applicazione. Doriano era convinto che io avessi qualcosa da dire di non troppo scontato e ho cercato di non deluderlo raccontando con sincerità la mia esperienza in Italia e in Francia presso la “Clinique de La Borde” diretta dal dr. Jean Oury. In Francia mi ero formato attorno ai principi della “Psicoterapia Istituzionale” in parte sintonici con “L’istituzione negata” di Franco Basaglia, in parte discordanti con la sua impostazione ideologica. Un accordo e un disaccordo che giustificava una messa a fuoco, se non altro come sofferta testimonianza. L’intervista è stata pubblicata da Borla ed ora la ripropone Alpes in seconda battuta. Io non avevo e non ho a mia disposizione un’orda di cani per scovare la volpe, un animale notoriamente furbo. Non avevo e non ho l’università alle spalle e nemmeno uno straccio di appartenenza a qualche società istituita. Mi riconoscevo e mi riconosco ancora nel protagonista di “San Michele aveva un gallo”, un film dei fratelli Taviani che racconta la storia di un anarchico condannato all’ergastolo dopo aver tentato un’improbabile sommossa in un paese dell’Italia meridionale. A me è andata molto meglio, come si evince dalla mia storia dopo Imola, nell’ormai lontano 1969, dove fui partecipe di una esperienza drammatica. Me la sono cavata con qualche anno di felice esilio in Francia, dove ho appreso che la pazienza e il rigore sono una necessità se si vuole preservare la complessità dei problemi umani contro ogni tentativo di semplificazione. Nel corso dell’intervista mi sono lasciato guidare da un principio etico-logico che non si discostasse dal lavoro che si è chiamati a svolgere quando la psichiatria e la psicoanalisi si incrociano fino a fondersi nella pratica: lavoro sui sogni, sui lutti, sul desiderio inconscio di ognuno. Volevo che si sentisse la passione e un certo godimento a non alterare ciò che si presenta, sotto l’influenza di inossidabili pregiudizi. La psicosi mette le radici in un reale impossibile che ha poco a che vedere con un neo­positivismo già a quei tempi trionfante. Desideravo insomma che si cogliesse lo spirito, almeno quello, della “Psicoterapia istituzionale”, di cui ero un ambasciatore della prima ora in Italia. Non avevo la pretesa di esaurire l’argomento, per cui mi sono limitato a formulare alcuni concetti in presa diretta con ciò con cui si ha a che fare quando si lavora in un’istituzione a stretto contatto con dei malati di mente. Al tempo stesso ho cercato di preservare ciò che andavo dicendo da una chiarezza eccessiva, tanto più bugiarda quanto più invocata. Ognuno dei nostri atti si rifrange in uno spazio e in una temporalità storica stratificata e complessa. Accogliere qualcuno, appassionarlo a qualcosa, liberarlo da certi condizionamenti affettivi, fa risuonare nello psichiatra un’infinità di suggestioni: la liberazione dalle catene di Pinel, la “passione” di Esquirol, il fantasma di Freud e di Lacan, il grido di allarme di Basaglia, il teatro di Raymod Roussel e tanti altri scenari ancora. Ma l’atto, ogni atto, non è e non può essere una copia di scenari scavati nel passato. Ogni atto si iscrive in una esperienza sempre rinnovantesi da cui emergono configurazioni e formalizzazioni precarie, nuovi sintomi tra solitudine e apertura, accoglimento e misconoscimento. Inoltre, qualunque cosa si dica, è un’impostura per il semplice fatto che siamo condannati al linguaggio. Gli schizofrenici, ma non solo loro, sono ben attrezzati per disfare i nostri argomenti fino a renderli, qualche volta, risibili. La posta in gioco non è separabile da una lotta consapevole contro tonnellate di alienazione e contro i “gadgets” del pensiero corrente. Nel corso di questi quarant’anni ne ho sentite di tutti i colori: sono stato accusato di essere riformista, dogmatico, idealista, cane sciolto prigioniero di un discorso frammentario con tonalità poetiche. Ma come si può schiacciare un lavoro incardinato sull’Impossibile, su categorie pre-costituite? Si rischia sempre di monumentalizzare e di rendere esaustivo ciò che non può essere che precario e molto spesso fallimentare. Invece si assiste, proprio là dove meno te lo aspetti, nei dintorni di Lacan tanto per intenderci, a una sorta di “rigor mortis” dentro a qualche tablatura teorica imbalsamata a chilometrica distanza dal maestro. In questa intervista ho cercato di fissare alcuni punti teorici che avrei potuto rivedere e ampliare, ma ho preferito lasciarla così com’è, insufficiente. C’è un tempo logico che va rispettato perché possa emergere anche la possibilità di esprimersi in modo non convenzionale, persino gratuito, “pour rien”, direbbe Jean Oury. Successivamente a quella intervista ho scritto cose apparentemente inutili, quattro romanzi gialli, che io preferisco chiamare “resoconti ocra”. Mi sono allontanato dalla psichiatria e dalla psicoanalisi? Non credo proprio. Ho ritenuto di consacrare del tempo a una epifania segreta per il solo fatto che ciò che conta non si può dire. Si possono solo tracciare delle linee, dei punti, dei tratti che preservano una specie di non-luogo dove tutto si decide. Una sorta di letteratura antropopsichiatrica attraverso cui mi sono messo in gioco per rispettare ciò che, da qualche parte, non può che scriversi sui bordi di una beanza strutturale. Il cammino si fa passo dopo passo e lungo la strada, tappa dopo tappa, di stazione in stazione, il pensare inconscio, non il pensiero, si apre un varco. Naturalmente dopo tanto sforzo mi rammarico se tutto è inutile, se questa specie di “passe” non passa. Freud, nell’”Entwurf” dice che il pensare ha una qualche efficacia se si situa nel registro del “pragma”. Ora cosa c’è di più pragmatico della propria soggettività, specialmente se non è avulsa da un percorso analitico? In fondo quando si scrive si dà testimonianza di qualcosa per evitare passi falsi, più che probabili quando le emozioni incrociano un certo imbarazzo. La migliore via di uscita è l’angoscia, la quale implica una messa in gioco del proprio itinerario personale. C’è un filo che lega la psichiatria a questi “resoconti”, quelli vecchi e quelli nuovi, che battono sentieri disseminati di sottili biforcazioni. Le porte della segregazione si possono aprire, ma non è che un primo passo. Gli altri devono rispondere alla logica per eccellenza dell’analisi: la logica castrativa. Altrimenti, come dice Lacan, ci si consacra al “servizio dei beni” e non si va oltre. Come si può parlare in psichiatria di progetti se non si tiene conto di un “fuori tempo”, di una dimensione in cui il corpo lavora lentamente i suoi ritmi? Comprendere è importante, ma non è tutto. Vale di più un sorriso conquistato sul campo, un “punto di transfert”, un’illuminazione anticipatoria, di una formula icastica. Tutto si gioca, in fondo, nella vita quotidiana, purtroppo misconosciuta. Ci sarebbe molto altro da dire, ma non insisto. È giunto il momento di ringraziare la d.ssa Gaetana Nappo, che ha trascritto l’intero testo, consentendo la riproposizione a distanza di questo scambio tra me e Doriano Fasoli. La ringrazio di cuore ed estendo la mia riconoscenza alla scuola di Napoli diretta dal dr. Antonio Maiolino dove da qualche anno porto avanti un “resoconto” che assomiglia a una favola più che a un insegnamento. Ringrazio inoltre il dr. Michele Bianchi per il suo contributo e per lo spirito di apertura con cui guarda a questa narrazione.

 

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