IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Sull'altro come altro corpo

Share this
15 agosto, 2017 - 06:55
di Antonello Sciacchitano

Sull’altro come altro corpo
 
 

Congetturare, sapere, confidare, attendere, dubitare, esser chiaro, esser certo, sospettare, attribuire qualcosa a qualcuno, sono processi che stanno sullo stesso piano.
E. Bleuler, Affettività, suggestionabilità e paranoia

 
Quando non ricado in qualche teoria algebrica o topologica, mi dedico a tradurre testi psi, meglio se classici. Dopo aver passato due anni a (ri)tradurre integralmente le 394 pagine del capolavoro di Bleuler, Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie (1911) per i tipi informatici di Polimnia Digital Editions, ho passato metà delle ferie estive traducendo e commentando il precedente libretto bleuleriano del 1906 (139 pagine), intitolato Affettività, suggestionabilità e paranoia (ASP), che in Italia non ebbe molta fortuna, non essendo stato tradotto neppure dopo 11 anni e un secolo. (Fu citato da Lacan nella sua tesi di psichiatria del 1932 proprio sulla paranoia).

Cosa mi acchiappa di Bleuler? Lo dico senza reticenze: la sua posizione vicina/lontana da Freud. In lui trovo il punto di leva per prendere le distanze dalla dottrina di Freud (la metapsicologia pulsionale), ma al tempo stesso per rivalutare e inquadrare scientificamente le innovazioni freudiane fondamentali: innanzitutto l’inconscio, poi la rimozione originaria e la Nachträglichkeit.
Prendo un punto qualsiasi di ASP, riguardante la suggestionabilità: “In tutti gli animali che vivono in comunità la suggestione svolge un grande ruolo”. Mai e poi mai Freud avrebbe enunciato una cosa simile. L’espressione lebende Tiere (“animali viventi”) non ricorre nelle 7070 pagine delle Gesammelte Werke.

In biologia Freud va preso con le molle, perché era fondamentalmente, forse volutamente, ignorante. Non conosceva Mendel, i cui testi tornavano alla luce mentre scriveva i Tre saggi sulla teoria della sessualità. Per giustificare la trovata della pulsione di morte, si aggrappò a Weismann, un darwiniano da strapazzo. Preferiva Lamarck a Darwin, in base al pregiudizio dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Mai avrebbe osato pensare all’affinità tra psicologia animale e umana; tanto meno concepire la continuità tra istinti sociali animali e sentimenti morali dell’uomo (C. Darwin, LOrigine dell’uomo e la selezione sessuale, 1871, che pure Freud aveva nella sua biblioteca). Ancora oggi certi lacaniani pretendono dire la verità su Freud, affermando la soluzione di continuità tra biologia e psicoanalisi con l’avvento del linguaggio. Da dimenticare o citare come esempio di resistenza alla scienza (ci torno alla fine di questo post).

Continuo a leggere in ASP:

“La suggestione si cura dell’unità e della durata degli affetti e dell’azione di una comunità nel senso che trascina tutto in una determinata direzione e inibisce le aspirazioni che vi si contrappongono. […] La suggestione si cura dell’affetto collettivo e quindi dell’unitario aspirare e agire collettivi [corsivo dell’autore]. Nell’essere umano il rapporto da persona a persona è determinato principalmente dall’affettività [collettiva], a prescindere da simpatie o antipatie personali [corsivo mio].”
Quasi spaventato dalla propria idea innovativa, che articola il soggetto individuale al collettivo, per ridurre la portata del passo appena fatto, Bleuler si affretta a precisare in nota:

“Definirei espressamente questo “affetto collettivo” solo come somma degli uguali affetti individuali. Naturalmente non esistono unità psicologiche estese a più individui, come una “coscienza comune” o una “volontà comune”.

La dimensione collettiva dell’affettività e della suggestione è una novità prudentemente introdotta da Bleuler, un’audacia rispetto a Freud, che aveva una concezione individualistica del collettivo. L’insegnamento di Bleuler portò Jung a parlare di inconscio collettivo, forse più sulle orme della “volontà generale” di un altro grande svizzero, J.J. Rousseau, che del suo maestro al Burghölzli. Freud, invece, rimase insensibile alla proposta della scuola svizzera. Perché? Perché ignorava Spinoza, oltre a Galilei, Cartesio, Mendel, Heisenberg e tanti altri, le cui opere mancavano alla sua biblioteca. (Mancava persino l’Origine delle specie di Darwin!).

Per comprendere qualcosa dell’affettività bisogna risalire a Spinoza, alla terza parte della sua Etica, dove il grande filosofo tratta degli affetti.

Degli innumerevoli professori che hanno preteso correggere i supposti errori di Cartesio, Spinoza fu l’unico (non professore) ad apportare una sostanziale correzione a Cartesio, che si rivelò un proficuo completamento del pensiero cartesiano. In sostanza, ripulito dalla teologia panteistica che lo incornicia, lo spinozismo si riduce a una tesi molto semplice ma anche molto facile da censurare. Un soggetto e un predicato: il corpo pensa.

Come e cosa pensa il corpo?

Dico subito come. Il corpo pensa in falso. Da idealista Spinoza non dice che il corpo pensa il falso.
Da Platone in poi (Teeteto, 188c), per l’idealista il falso è impensabile, perché a differenza del vero non può essere confermato. Il falso comincia a essere pensato in via congetturale solo nel discorso scientifico, come premessa per la successiva confutazione. Spinoza si arresta sulla soglia del discorso scientifico e pensa che il corpo pensi in falso, cioè in modo non chiaro e non distinto. Nella teologia spinoziana il corpo non è Dio che, lui sì, pensa i pensieri nella propria mente in modo chiaro e distinto. Non svilupperò il punto, limitandomi a riconoscere la simmetria tra i pensieri chiari e distinti, quindi veri, nella mente, e i pensieri non chiari e non distinti, quindi falsi, nel corpo.

Con un corollario etico rilevante (non a caso Spinoza ne parla nell’Etica): pensare in falso non vuol dire essere in errore, ma… lo vedremo alla fine.

Non sto abbozzando una lezione di storia della filosofia; mi sto avvicinando alla psichiatria di Bleuler, che presuppone una psicologia alla Brentano “senza anima” (eine Seele gibt es nicht). La mia affermazione non è letteralmente vera per Bleuler, che a ogni piè sospinto parla di “psiche”, come equivalente dell’intraducibile Gemüt,[1] ma lo è sostanzialmente. Infatti, Bleuler presuppone un ente psicorporeo che non è l’astratta mente cartesiana o l’immaginario apparato psichico freudiano, per Bleuler insopportabili semplificazioni della cosa psichica, ma è la concreta cosa viva, più animale che spirituale, che ospita il soggetto umano interattivo con gli altri soggetti del proprio ambiente. (Non c’è sistema sociale senza “interpenetrazione” con il proprio ambiente, insegna Luhmann).

Allora la questione è: cosa pensa il corpo?

Bleuler parte dallo stesso presupposto di Spinoza: il corpo pensa in modo non chiaro e non distinto; da lì arriva a presupporre lo stesso oggetto del pensiero psicocorporeo, intuito da Spinoza: il corpo pensa gli affetti. Spinoza e Bleuler danno definizioni diverse di affetto. Intendo dimostrare che la definizione di Bleuler è inclusa in quella di Spinoza.

Comincio allora da Bleuler.

Innanzitutto Bleuler si premura di distinguere gli affetti dai processi intellettuali (intellektuelle Vorgänge). In proposito non va dimenticato che con “processi intellettuali” Bleuler intende “processi cognitivi”. Bleuler è di fede kantiana. Per lui là fuori esiste la realtà oggettiva empirica, che il pensiero è chiamato a riconoscere, applicando le proprie categorie cognitive (trascendentali). L’empiria, in particolare quella clinica, è per Bleuler la fonte di ogni scienza, strettamente intesa come conoscenza vera di ciò che c’è.

Prima di procedere, faccio notare che in campo psi il presupposto cognitivo è discutibile; almeno due ragioni ne segnalano la debolezza.

Primo, la realtà psichica non è già data (“non esiste” prima, nel senso tedesco di es gibt nicht, “non si dà” prima); non è preconfezionata prima dell’osservazione ma, come in meccanica quantistica, esiste solo se e quando si osserva. Qui si annoda la questione del reciproco transfert intellettuale e affettivo tra osservatore e osservato, un’interazione determinante per ogni ulteriore analisi, che nel suo presunto oggettivismo il cognitivista tranquillamente ignora.

Secondo, l’approccio cognitivo interpreta i fatti consci e inconsci a livello puramente descrittivo. Esclude altre possibilità, per esempio topiche ed economiche, che sono per Freud altrettanto importanti quanto la conoscenza descrittiva. Per contro, in Bleuler le descrizioni dei fatti psichici sono spesso più chiare e distinte che in Freud, soprattutto quelle della vita affettiva.

Comunque non pretendo criticare (il positivismo di) Bleuler. Riconosco che ogni ricercatore ha diritto di adottare la filosofia adeguata alla propria ricerca. Per altro l’empirismo di Bleuler non è molto diverso da quello altrettanto medicale di Freud (facilmente scambiato per positivismo). In particolare, a sua giustificazione, dico solo che in Bleuler l’opzione cognitivista è funzionale alla sua pratica di perizie psichiatriche nel foro di Zurigo. In generale, poi, per il medico è professionalmente difficile abbandonare la posizione cognitivista: diagnosi, prognosi e terapia sono operazioni abduttive secondo Peirce, che presuppongono l’esistenza di una complessa realtà oggettiva da riconoscere in base a informazioni parziali e da trattare con strumenti in gran parte aleatori.

In ASP la cura principale di Bleuler è stabilire la differenza tra processi intellettuali e affettivi. Le differenze sono almeno due ma strettamente correlate, quasi fossero una sola. I primi sono deterministici, i secondi indeterministici. I primi obbediscono alla logica aristotelica, nel pensiero, e al principio di ragion sufficiente, nella realtà. I processi intellettuali sono conseguenziali (a una causa consegue un effetto) e possono sempre essere giudicati in base al millenario principio di verità oggettiva: l’adeguamento dell’intelletto alla cosa (verum et factum convertuntur, nella concezione giuridica di Vico di verità fattuale). La patologia mentale, in primis la follia, comprenderebbe i processi che distolgono il pensiero dalla realtà oggettiva, soprattutto per l’azione di agenti affettivi.

Questa è la differenza oggettiva, ma gli affetti veicolano un’altra verità, più soggettiva. I processi affettivi sono la risposta globale del “tutt’uno” somatopsichico agli stimoli ambientali; in questo differiscono dai processi intellettuali che danno risposte localizzate a specifiche circostanze ambientali. Poiché non conosciamo del tutto l’intero psicocorporeo (das Ganze), le determinazioni affettive, essendo globali, in gran parte ci sfuggono. Bleuler non dice che l’affettività è il nostro inconscio; dice che l’affettività, che è globale, è concettualmente indeterminata (non è chiara e non è distinta), mentre l’intellettualità, che è locale, è concettualmente determinata (è chiara e distinta, obbedendo alla logica aristotelica e al principio di ragion sufficiente). Ciò non toglie che il processo affettivo possa associarsi a qualche processo intellettuale, che a sua volta ha l’effetto di portare l’affetto alla coscienza, quindi alla parziale conoscenza. Una volta connesso all’affetto il processo intellettuale è “affettivamente connotato” (gefühlbetont) e si può parlare di “sentimenti intellettuali” (intellektuelle Gefühle), che sono forse l’unica via di accesso alla conoscenza dell’affettività.

Prima di sviluppare il discorso dei rapporti tra le due serie: (intellettuale –> deterministico <–> locale) e (affettivo –> indeterministico <–> globale), faccio notare che sullo sfondo dell’elucubrazione bleuleriana e come sua premessa ci sta la semantica della lingua tedesca che non corrisponde esattamente a quella italiana. Mi spiego con un esempio. Quando molti anni fa, per esercitarmi in tedesco scrivevo lettere al mio amico di Berlino, una volta invece del solito Herzliche Grüsse (“cordiali saluti”) chiusi la missiva con Mit Affekt (“con affetto”). Il mio amico mi rispose in italiano, per farsi meglio capire: “Guarda che non sono omosessuale!” Mi stava dicendo che aveva inteso che io volessi “eccitarlo”. Insomma, in tedesco Affekt non significa come in italiano “voler bene o male a qualcuno”; significa “eccitazione psichica”, “moto dei sentimenti”, innanzitutto dei sensi sessuali. Insomma, gli affetti non sono sentimenti. “Vanno nettamente distinti dall’affettività tutti i processi cognitivi che, come i moti affettivi (Gemütsregung), si indicano con il nome di sentimenti” (ASP, Resumé). Su posizioni simmetriche è Freud, per il quale gli affetti e i sentimenti sono “processi di scarica (Abführvorgängen), le cui manifestazioni ultime sono percepite come sensazioni” (S. Freud, L’inconscio, Cap. 3 Sentimenti inconsci, Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. X, p. 377. In questo testo Freud afferma che “non esistono affetti inconsci come invece esistono rappresentazioni inconsce”.)

A prescindere da Freud, per il  tedesco l'affetto è quasi un “atto”; prepara all’azione (Handlung), al rapporto con l’altro. Per questo Freud potrà imbastire una teoria quantitativa dell’affettività, basata sull’energia psichica dell’azione, che chiamava libido. Un italiano non ci sarebbe mai arrivato, anche se la psichiatria italiana ha da sempre riconosciuto le psicosi affettive, che non sono le psicosi del voler bene o del voler male, ma conseguenze di affetti esaltati (mania) o inibiti (melanconia). Non conosco l’olandese, che mi suona come un “tedescaccio”, ma certamente Spinoza concepiva gli affetti alla tedesca come azioni.

Chiarito il punto semantico, passo a illustrare due tratti caratteristici del pensiero bleuleriano. Il primo avvicina il pensiero di Bleuler al pensiero scientifico, il secondo al pensiero di Spinoza; entrambi ricorrono nel pensiero matematico moderno.

Ho già detto della prima caratteristica: i processi intellettuali sono locali e deterministici; gli affettivi globali e indeterministici. La contrapposizione tra locale (“in piccolo”) e globale (“in grande”) è geografica: sono locali le carte di un atlante; è globale la superficie della terra. Dalla geografia si passa per astrazione alla topologia: sono locali gli intorni di un punto, è globale tutto lo spazio; ovviamente la distinzione ha senso quando, come nella moderna geometria non euclidea, si ha a che fare con più spazi diversi, distinti sia localmente sia globalmente. Dalla topologia la distinzione torna a farsi concreta in meccanica, che tratta simmetrie spazio-temporali globali e locali (o di gauge), importando nel discorso la coppia determinismo/indeterminismo. Segnalo la data di nascita della contrapposizione locale/globale, correlata a determinismo/indeterminismo: il calcolo infinitesimale, avviato da Leibniz e Newton. Il calcolo differenziale è locale e determina la tangente a una curva in un punto. Il calcolo integrale è globale e indeterminato: calcola l’area sottostante a una curva a meno di una costante additiva arbitraria.

L’originalità psicologica e il merito di Bleuler fu di aver trasferito alla psicologia l’impronta “matematica” che associa località a determinismo e globalità a indeterminismo. Così la psicologia acquisì una semplice verità della meccanica, che è deterministica a livello locale, governato dalle equazioni differenziali del moto, ma è indeterministica, addirittura caotica, a livello globale. Infatti non sappiamo dire quale sarà la configurazione del sistema planetario tra dieci milioni di anni (pochi a livello astronomico). Perché? Perché il calcolo parte da dati di posizione e velocità dei corpi planetari imprecisi oltre la settima cifra decimale e l’errore si amplifica esponenzialmente man mano che il calcolo procede.

Siamo distanti da Freud, il quale riconosceva solo il determinismo delle forze pulsionali anche in campo affettivo. Non sapeva (non voleva sapere) dell’indeterminismo quantistico, proposto da Heisenberg ai tempi della seconda topica. Fino a un anno prima di morire parlava del proprio “imperativo bisogno di causalità” (L’uomo Mosè e la religione monoteistica, 1938). Il nesso causale era la sua superstizione avrebbe detto Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 5.1361). Inoltre non distinse mai tra processi psichici locali e globali, se non a proposito della distinzione tra nevrosi e psicosi (perdita di realtà locale nella prima, globale nella seconda). Poco male, la contrapposizione locale/globale era ignota perfino a Euclide, il grande maestro di geometria fino al XIX, quando emersero le geometrie non euclidee, che distinguevano spazi diversi in base alla curvatura: spazi ellittici a curvatura positiva, iperbolici a curvatura negativa, parabolici piatti come lo spazio euclideo. Euclide non si accorse che il suo famoso quinto postulato era di natura locale. (Non aveva bisogno di capirlo, dato che per lui esisteva un unico spazio, quello che oggi chiamiamo euclideo.) Non posso in proposito non far notare che la dimensione locale è ben presente in Lacan, che situa il soggetto nel rimando da un significante all’altro, localizzati in punti precisi della batteria significante inconscia.

La seconda caratteristica del pensiero di Bleuler è ancora più moderna, perché tocca l’originaria incompletezza del sapere scientifico moderno, in questo differente dall’antico, che è completo, essendo idealistico. Nel 1931 Gödel ne diede la definitiva ratifica formale con il teorema che stabilisce l’esistenza di enunciati aritmetici indecidibili (né dimostrabili né confutabili), se l’aritmetica è coerente. Oggi coerenza e completezza del sapere non vanno più a braccetto come ai vecchi tempi della classicità; bisogna scegliere o l’una o l’altra (o la botte piena o la moglie ubriaca). La fede sceglie la completezza e perde la coerenza; la scienza sceglie la coerenza e perde la completezza.

L’incompletezza scientifica si manifesta spesso in collezioni che non possono essere indicate come tali: sono le classi proprie secondo von Neumann, che non sono elementi di altre classi. L’esempio più semplice è la classe di tutti gli insiemi (vedi anche il paradosso di Russell dell’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di sé stessi). Una versione particolare, e in psicoanalisi particolarmente importante, di universali irriducibili all’uno elementare, pensabili solo in modo non chiaro e non distinto, è il “non tutto” secondo Lacan. Questo universale negativo riguarda i rapporti tra femminilità e castrazione. Per Lacan non tutte le donne sono castrate, ma non esiste una donna che non lo sia. Più intuizionista che paradossale. Come si vede, anche qui locale e globale si oppongono: la castrazione femminile è localmente ma non globalmente determinata. In un certo senso, essa è il rovescio dell’infinito della serie numerica, che localmente non esiste (è potenziale, direbbe Aristotele), ma globalmente sì (è attuale, direbbe ancora Aristotele). Tuttavia, dopo Cantor sappiamo che la verità dell’infinito non è categorica, esistendo diversi (infiniti) modelli non equivalenti di infinito. È così anche per la castrazione femminile? Imbarazzata, la metapsicologia freudiana non sa cosa rispondere. Balbetta qualcosa sull’invidia del pene. Che paradossalmente non è una risposta di traverso. Se il pene è una metafora di ciò che la donna non ha, può bene metaforizzare l’infinito.

Secondo Bleuler l’affettività ruota intorno all’incompletezza epistemica. L’affetto, essendo una reazione globale, è destinato a essere non categorico, a rimanere non chiaro e non distinto, cioè incompletamente determinato, come il tutto psicocorporeo, di cui è espressione. Gli affetti formano una classe propria. Di ciò si avverte una smorzata e deformata eco nella dottrina freudiana, secondo cui esisterebbe la rimozione originaria di rappresentazioni che non saliranno mai alla coscienza, quindi non sono rimosse dal conscio all’inconscio, perché non sono mai diventate consce. In ASP Bleuler non fa uso della nozione freudiana di rimozione.

Fin qui il discorso è ancora molto astratto (“astratto” non è una parolaccia) ma è ragionevole. Per renderlo più concreto bisogna tornare a Spinoza, il quale si mantiene a livello locale. L’affetto è sì un pensiero del corpo, ma è anche una risposta all’altro corpo; precisamente è la mia reazione all’azione locale del corpo dell’altro sul mio. Spinoza, primo tra i filosofi occidentali, considera le interazioni meccaniche tra corpi in contatto: all’azione del corpo dell’altro su una parte del mio corrisponde una reazione del mio, l’affetto, che è il pensiero pensato dal mio corpo. Il terzo principio della meccanica newtoniana (pubblicata praticamente pochi anni dopo l’Etica) stabilisce l’equivalenza tra azione e reazione tra corpi che si urtano. Un’analoga simmetria vale a livello psichico.

Alla psicologia sociale freudiana questo tratto meccanicistico della convivenza civile come interazione localizzata tra corpi manca completamente. Per Freud gli individui di una massa non reagiscono l’uno sull’altro; non si toccano; è come se non avessero corpi; stanno insieme unicamente perché sono identificati al Führer. Il Führer è l’oggetto che tutti pongono in posizione di Ideale dell’Io, la componente immaginaria del Super-Io; è la funzione sociale che trasforma i molti in uno. (Il termine Führer non ricorre in ASP)

Riconosciamolo senza polemica: la psicologia freudiana del Führer è molto povera. Come dicevo, non prevede interazioni né positive (cooperazioni) né negative (conflitti) tra singoli, che sono praticamente delle monadi senza finestre e senza corpi. L’eventuale aggressività di ciascuno verso l’altro è introflessa su di sé, provocando un doppio disagio civile: dopo la repressione sessuale, subentra la repressione dell’aggressività. L’eteroaggressività si localizza in modo residuale nel soggetto collettivo, che la esercita verso altri soggetti collettivi, cui dichiara guerra. Bisogna riconoscere che il quadro freudiano della civiltà è miserevole: l’altro praticamente non esiste, se non come fattore di identificazione e di unificazione. Nonostante l’elogio dell’altro paterno all’inizio del VII capitolo della Psicologia delle masse, il legame sociale è per Freud il puro assoggettamento (Unterwerfung) al padre originario (ucciso dai fratelli ed elevato al rango di padre simbolico).

E per Bleuler?

Per Bleuler il rapporto con l’altro è sostanzialmente un rapporto di suggestione. La suggestione è la vera fonte degli affetti: affettività e suggestionabilità sono correlate, nel senso che l’affettività dell’altro condiziona la mia, cioè io sono suggestionato dagli affetti altrui, che suscitano miei affetti. Sembra di sentire il discorso di Lacan del desiderio dell’uomo che è desiderio dell’altro, ma senza connotazioni logocentriche. Attraverso la suggestione gli affetti si connotano come azione fisica dell’altro, e precisamente del corpo dell’altro sul corpo del soggetto. Addirittura esiste l’autosuggestione come azione del corpo proprio su sé stesso (autoipnosi, training autogeno, yoga). Bleuler non accoglie la nozione freudiana di narcisismo, esattamente per lo stesso motivo per cui rifiuta quella di libido, una grandezza priva di unità di misura.

Bleuler è più vicino a Lacan che a Freud e forse, a sua volta, Lacan è tornato a Bleuler prima che a Freud, per via della propria formazione psichiatrica. In questo senso dico che la psicologia collettiva bleuleriana rientra come caso particolare nella psicologia collettiva spinoziana. (Non dimentichiamo che Spinoza scrisse un Trattato teologico-politico, l’unico testo pubblicato in vita). A Bleuler manca l’altro inteso come Dio. Quella di Bleuler è una psicologia fondamentalmente laica, che tuttavia non misconosce il valore politico delle fedi. La stessa attività politica è per Bleuler una questione di fede politica, quindi è interamente regolata da affetti non del tutto deterministici e non del tutto consci. (Da ricordare per una teoria delle ideologie).

È curioso notare l’antiparallelismo di Bleuler rispetto a Freud. Il quale, inventando la psicoanalisi, “dimentica” la suggestione. La dimentica in pratica, ponendosi alle spalle del paziente, e la dimentica in teoria. Il risultato della “dimenticanza” è che Freud sopravvaluta il transfert e sottovaluta il controtransfert (che sarà debolmente ripreso da Lacan come desiderio dell’analista). In questo senso riaprire i testi bleuleriani può servire a correggere le omissioni freudiane, a partire dalla “dimenticanza” del corpo, ridotto a un fascio di pulsioni che agiscono “al confine [immaginario] tra somatico e psichico”. Allora insieme a Bleuler conviene rileggere Spinoza per superare le inibizioni intellettuali (mediche) di Freud. (Sulla dimenticanza del corpo da parte di Freud, quello proprio non escluso, ci sarebbe da riaprire il discorso sul suo cancro alla mascella.)

A proposito di Spinoza – e concludo – devo completare il discorso lasciato aperto da quei puntini di sospensione di qualche riga fa. Dicevo che pensare in falso non vuol dire pensare nell’errore. Pensare in falso, cioè tenendo conto di pensieri non chiari e non distinti, significa pensare l’incompletezza del pensiero, soprattutto del pensiero morale. Ciò ha una portata etica enorme, ma finora poco apprezzata dal pensiero occidentale. Poiché il pensiero scientifico è incompleto, l’azione che esso dirige non è predeterminata come eticamente giusta. In epoca scientifica la morale è indeterminata esattamente come l’affetto. Come l’affetto la morale è azione, la quale, come l’affetto, è concettualmente indeterminata, cioè è regolata da un pensiero non chiaro e non distinto. Per il soggetto della scienza non esiste la morale scientifica universale e categorica che prescriva quel che in ogni caso si deve fare e vieti quel che non si deve fare (con una quota di terrorismo ideologico). La morale dell’uomo di scienza, essendo come l’affetto in falso, può fallire; allora andrà riformulata. Non diverso è il discorso etico di Cartesio per il quale la morale può essere solo par provision. L’azione morale mi porta di necessità a interagire con l’altro, quindi è l’interazione stessa a essere sub judice, ma il giudice non è quello del tribunale, tanto meno di quello della ragione. Il giudice è il collettivo che giudica a posteriori il risultato della mia azione. L’azione morale si inserisce in un contesto collettivo come l’esperimento scientifico si inserisce nella pratica del collettivo di pensiero scientifico. L’esperimento morale può riuscire o può non riuscire. Il risultato è contingente. Il soggetto è responsabile di un risultato che ancora non conosce. Se esiste l’inconscio freudiano, questo esito è inaggirabile: tu sei responsabile anche di conseguenze del tuo atto che né sai né puoi prevedere prima. Rispetto a questa evenienza il soggetto è inerme, hilflos.

Riconosciamo che ci vuole una grande forza morale per sostenere l’incertezza morale. Non è da tutti. Chi si ostina a cercare certezze incontrovertibili a sostegno della propria debolezza soggettiva ha in psicopatologia un nome: sia chiama paranoico e vive di deliri. Sono quasi certo che la diffusa resistenza “affettiva” alla scienza, nonché alla psicoanalisi, si basi sull’incertezza morale che essa pratica, sulla sua irriducibile contingenza. Piuttosto che adottare morali provvisorie, la civiltà preferisce sottoscrivere le “fedi” più peregrine – dall’omeopatia a quel che si vuole –, tutto va bene purché dia certezze a priori inoppugnabili, non importa se false. Il gioco di parole alla base di ogni psicoterapia lo dice bene: si cura la psiche individuale e collettiva con la sicurezza (il programma politico della destra). La credulità (la Gläubigkeit di cui parla Bleuler) ha una portata politica non da poco; direi che è la principale fonte di stabilità dell’apparato politico. Se il volgo adotta una fede vissuta come certa, chi è al governo può governarlo con la certezza di essere seguito e sostenuto nella misura in cui asseconda la fede popolare. Si chiama “populismo”.

C’è ancora un’ultima conseguenza da considerare. Il potere può sfruttare la scienza a fini industriali e commerciali. Il capitalismo lo ha fatto da sempre e continua farlo: prima con il proletariato, poi con il terzo mondo. Tuttavia il potere non potrà mai adottare la scienza come ideologia politica, perché alla scienza manca la componente indispensabile all’ideologia collettiva e al delirio individuale: la certezza categorica, già caratteristica della scienza precartesiana e successivamente gettonata da tutte le varianti individuali e collettive di paranoia (una follia che gli antichi non conoscevano, avendo esperienza solo di psicosi affettive: la furia e la melanconia).

Regolarmente l’assoggettamento della scienza al potere avviene identificando la scienza alla tecnica. (I filosofi lo chiamano “scientismo”). Con questo trucco a una procedura che procede per confutazioni (la scienza) il potere sostituisce una che procede per conferme (la tecnica). Naturalmente il potere sceglie le tecniche favorevoli alla propria gestione. Non riconoscere questa manipolazione politica fu l’errore teorico di Heidegger, che in pratica lo avvicinò al nazismo, in quanto dispensatore di certezze ontologiche.

Allora l’atteggiamento comune nei confronti della scienza postcartesiana – comune perfino tra gli scienziati – è di ostilità: non si vuole sapere di sapere in modo incerto. Lo dimostra in modo paradigmatico il movimento antivax. (Movimento è a livello collettivo l’esatto contrario di scientificità, ma di questo in un prossimo post). Per il debunking delle fake news non vale accumulare e contrapporre evidenze scientifiche, che magari sarebbero anche credute, ma rimarrebbero inefficaci contro la forza delle convinzioni deliranti, che per definizione sono incontrovertibili come dogmi di fede (una fede senza dio). Da questa diffusa resistenza alla scienza si può forse uscire mantenendo un atteggiamento “affettivo” di benevola accondiscendenza per chi le professa, una sorta di empatia (Einfühlung, termine che per altro Bleuler non usa); sarebbe qualcosa come da piccolo con me faceva mia mamma per farmi bere l’olio di ricino.
 



[1] Nell’Interpretazione dei sogni Freud riporta la definizione di Gemüt secondo Spitta: die konstante Zusammenfassung der Gefühle als des innersten subjektiven Wesens des Menschen (“La sintesi costante dei sentimenti intesa come la più intima essenza soggettiva dell’essere umano”. Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. II-III, p. 61).

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 2823