RECENSIONE “L’amore che cura" La para-ontologia dell’informe

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20 maggio, 2018 - 12:43
Autore: GIOVANNI STANGHELLINI
Editore: Feltrinelli
Anno: 2018
Pagine:
Costo: €17.00
A dispetto dell’apparente mansuetudine del titolo, L’amore che cura di Giovanni Stanghellini (Feltrinelli, 2018, 215pp.) è una trappola per i filosofi accademici ed un osso in gola per i clinici, e credo di poter dire che sia proprio per questo spirito guascone che il volume costituisce una “seconda gioventù” per l’autore.  
Tra esso e la precedente trilogia (Psicologia del patologico, Psicopatologia del senso comune, Noi siamo un dialogo) si pone una relazione profondamente antitetica: da un lato, questo ultimo testo sconfessa il rigore dialettico degli ultimi tre, proclamandosi come un deliberato hegelicidio – basterebbe, per fare un esempio, mettere a confronto la dialettica volontario-involontario di Ricoeur cui Stanghellini ricorre in Psicologia del patologico con l’anti-dialettica dell’informe (tesi-antitesi-sintomo) che troviamo qui. Eppure, al tempo stesso viene conservata l’impossibilità di slegare completamente quest’ultimo testo dai suoi predecessori, perché è solo dall’interno della conoscenza della trilogia che si può aprire una prospettiva di scardinamento critico.
O meglio, se come vedremo nel corso di questa analisi il motto del testo si propone di essere anti-dogmatico (perché il dogma è, in fin dei conti, nientemeno che una doxa più ancestrale), la vera operazione non è tanto quella di smascherare la precarietà di ogni arché bollandola di cieco apriorismo, ma risolvere la sacrificale autoaccusa che l'intera indagine finisce con l'imputare a se stessa: il rischio è che questa non totalizzabilità dei saperi, questa soppressione della dialettica, ricada nella stessa impasse che essa si propone di denunciare, divenendo essa stessa dogma, come in una sorta di ateismo religioso. L’efficacia antifilosofica del libro risiederà allora nell’esito di questa valutazione o, detto altrimenti, nella risposta alla domanda che lo stesso autore si pone nel terzo capitolo: “L’informe può fondare un’ontologia che destabilizza la concezione binaria della realtà [senza pretendere di totalizzare questa realtà]?[i]



Può l’informe, detto altrimenti, assurgere a una forma di para-ontologia?
Nel corso della sua indagine, Stanghellini ricorre a quanto gli è più familiare per disfarsi del se stesso della trilogia, per compiere una – implicitamente annunciata - abiura filosofica. Richiamando a sé alcuni concetti costruiti nei libri precedenti, riporta nuovamente il noto davanti all’ignoto, ma stavolta senza stabilirvi una contiguità sintetica. Anzi, il suo impegno consiste nel creare tra loro una sorta di legame inspiegabile, un’escrescenza concettuale che non conosca possibilità di reintegrazione.
È una seconda gioventù quindi perché non si sostiene solo su di una (riuscita) irriverenza antifilosofica – la messa a morte del concetto e il buco nella membrana ontologica del reale –, ma perché sfrutta la precedente preziosa esperienza a vantaggio di questo dispendio. Come dice Pasolini, “chi obbedisce è destinato a disobbedire”.
Ma andiamo per gradi. Il libro si compone di tre parti (undici capitoli in tutto) e di un epilogo.
Nella prima parte, Visioni dell’informe, Stanghellini introduce l’informe, il resto reale non dialettizzabile cui ricorrerà nel corso di tutto lo studio. I quattro capitoli qui delineati si propongono di accompagnare il lettore attraverso una promenade di progressivo scomponimento rappresentativo (“la nominazione deve essere sabotata se si vuole avere una visione della materia perché le parole sono pietrificazioni che provocano in noi reazioni viscerali, cioè fanno parte integrante delle macchine delle somiglianze e delle differenze”[ii]) dalle tendenze wittgensteiniane: l’informe è in sé informulabile, “è un termine che si definisce tramite esempi”[iii]. Ciò che non può essere detto può essere dimostrato.
Nella seconda parte, Configurazioni psicopatologiche e pratiche dell’informe, Stanghellini applica le considerazioni precedenti a tre figure rappresentative della clinica psicopatologica (ossessivo, borderline e l’homo oeconomicus, forse la più emblematica delle tre patografie, sicuramente quella più sui generis), scuotendone, attraverso una loro originale rilettura, i punti di maggior sedimentazione nosologica.
La terza parte, Politiche dell’informe, formalizza la denuncia che scorre sotterranea a tutto il testo: l’indebita conversione che la medicina, “ancella della Scienza”[iv] fa della finitudine delle risorse umane, rovesciando la vulnerabilità intrinseca alla condizione umana (dunque contingente) in una forma di accidente.
L’Epilogo è un compendio dell’intero libro che cuce, secondo la mia personale lettura – che ritengo comunque rispecchiare gli intenti dell’autore – l’Alterità all’informe attraverso i lacci del sintomo.
Al di là della notevole flessibilità con cui l’autore riesca a portare alla luce virtuosi agganci letterari e filosofici e ad esaltarne i riscontri clinici reali per mezzo di un’epistemologia dichiaratamente antropologica, ritengo che la forza di questo lavoro risieda a livello della sua indagine antifilosofica. Quella che, muovendo da una sorta di platonismo materialista (“quando siamo di fronte a qualcosa dobbiamo chiederci se ciò che vediamo è la cosa e non piuttosto la sua rappresentazione”[v]) conduce, attraverso la progressiva riapplicazione della (non)dialettica dell’informe, a questioni ad oggi ancora oggetto di dibattito del panorama medico-clinico e non solo. Queste includono:

  • La non ancora conclamata natura del sintomo: tratto costitutivo della soggettività del paziente, epifenomeno personalissimo della sua storia singolare, oppure fenomeno in sé che denota, con richiami alla vecchia concezione positivista, un morbo impersonale da estirpare?
  • L’incapacità di separare il fatto in sé dalla sua rappresentazione, ovvero la non sovrapponibilità tra ciò che è reale e ciò che è invece nomotetico (compendiata nel dictum di Bentham “il reale ha la struttura della finzione”);
  • L’annosa questione della diagnosi come etichetta monodimensionale con cui il clinico appiattisce l’esuberante singolarità del paziente e, di conseguenza, l’asservimento dell’alterità alla logica procustea dell’idea, del concetto e della rappresentazione.
La mia lettura, in particolare, vuole evidenziare (l’inedita) portata antifilosofica che l’autore, rispetto ai lavori precedenti, lascia trasparire da questo libro. Organizzerò il mio commento al testo ripiegando le implicazioni della prima parte sulla terza[vi] riconducendone le conseguenze alle pagine cruciali dell’Epilogo.
Il libro si apre con la costruzione di un impianto sistematico “usa e getta” costruito su un binarismo elementare, un marchingegno ridotto all’osso che risponde alla logica del dispendio - un potlàc filosofico che offre due concetti da portare ben presto alla dissipazione. Secondo l’autore, “la Ragione è una macchina delle somiglianze e, insieme, delle differenze”[vii].
La prima macchina lavora sul noto, compiendovi un processo continuo di cifratura circolare e puntuale, che torna sempre allo stesso posto. In esso, ciò che non è assimilabile è mostruoso (“solo il mostro non assomiglia a niente”[viii]). Il potere fagocitante di questa macchina trova oggi desolante riscontro nelle logiche dell’omologazione e della conformità, per le quali “nessuno più si turba se gli vengono attribuiti caratteri che lo privano della sua individualità”[ix].
La seconda, la macchina delle differenze, “funziona in maniera più farraginosa”[x] e opera in due fasi che, sostanzialmente, la riducono ad una versione più sofisticata della macchina delle somiglianze: 1) separa il suo oggetto – inizialmente ignoto – sulla base di caratteristiche sempre più minute e, grazie a questo sminuzzamento 2) riconduce i pezzi ad una categoria più generale.
La sua epitome è il modus operandi della medicina convenzionale, infatti “nella prima delle due fasi, la macchina mette in luce le differenze, stabilendo ciò che in medicina si chiama ‘diagnosi differenziale’ (…), ma la scomposizione del paziente nelle sue componenti più minute non mira a personalizzare la diagnosi e la cura, bensì ad attribuire con maggiore affidabilità il paziente in questione a una categoria generale”[xi]. Essa, in sostanza, caratterizza per meglio classificare.
È a partire da questa apparente conciliazione dell’alterità nella medesimezza che si pone la questione centrale del libro, quella dell’informe. Difatti, se né la somiglianza né la differenza sono in grado di preservare l’individualità e la singolarità dell’Altro dalla presa spudorata del concetto – dalla sua letterale assimilazione -, l’unica via di scampo consiste nella valorizzazione dell’indifferenza, ovvero di “ciò che non ha forma, ciò che non reca l’impronta della somiglianza o della differenza”[xii]. Questa sorta di ombra senza margine, il non sapere che fonda ogni presunta conoscenza e che viene forcluso da ogni ricorso dialettico, è l’informe.
Ritengo che Stanghellini concepisca l’informe non tanto come un’entità positiva e concreta, cosa che lo porterebbe a cedere al miraggio consolatorio della rappresentazione, come sembra fare quando dice che “l’informe è l’ombra che circonda l’esiguo cono di luce in cui si attesta e si rifugia il sapere della Medicina”[xiii], quanto invece come il processo stesso di distorsione che, applicato alla forma, la rende un simulacro opaco: un po’ come nella psicoanalisi freudiana, in cui il desiderio inconscio non si annida nel contenuto latente, ma è il processo di distorsione con cui l’inconscio deforma il contenuto latente e lo muta in manifesto. Questa mia ipotesi credo venga confermata quando, qualche pagina dopo, Stanghellini dice che “definire l’informe sarebbe farne un concetto, tradurne la figuratività in concettualità sarebbe un tradimento” e poco dopo “l’informe non è qualcosa in sé. Piuttosto è un’operazione.[xiv]
 “Ciò che viene mostrato non è l’informe in sé, ma la forma che lo neutralizza e lo nasconde”. Esso dunque non è un fatto, ma un processo, un emergere della dismisura nella “funzione rassicurante delle rassomiglianze”[xv] che si risolve in una dialettica senza sintesi, che anziché condensarsi nella conciliazione degli opposti si deforma nella coesistenza di una sproporzione concreta. È a questo proposito che si palesa la necessità di introdurre un indice di sproporzione, un rappresentante fuor di sistema che piuttosto che armonizzare gli attributi del suo oggetto in una definizione puntuale e riproducibile, funga da segnaposto per indicare la giustapposizione delle contraddizioni che si vengono a creare tra la tesi e l’antitesi. Questi segnaposto sono i sintomi, la cui falsa dialettica si esplica nel cortocircuito tesi-antitesi-sintomo. Quali sono le implicazioni di questa scissione nella politica dell’informe?
Come fa notare Stanghellini, la riflessione medica e filosofica deve prendere atto di come ciascun confronto con la dimensione sintomale dell’esistenza non sia accidentale, bensì intrinsecamente e costitutivamente contingente (“il sintomo non è accidentale (…), ma rappresenta un’opportunità contingente”[xvi]). Mentre la prima guarda al sintomo come ad un’eccezione aliena, un’intaccatura esuberante che trabocca dai limiti dell’umano – e pertanto un’irrealtà da estirpare attraverso la normalizzazione -, la seconda riconduce questa estroversione entro i gangheri dell’umano, reintegrando lo scarto nel registro della possibilità. “Il sintomo è il contrario della sintesi tra tesi e antitesi in quanto è espressione di una dialettica riassunta nella formula tesi-antitesi-sintomo. Il sintomo non è la reductio ad unum della sintesi, ma un’arborescenza di associazioni e di conflitti di significato.”[xvii]
Il sintomo, in questo senso, è polimorfo – perché esito di una sovradeterminazione non riuscita, ciò che passa deleuzianamente da un ordine all’altro, maestro “di deformazione, agente di deformazione del corpo”[xviii] –, ma anche estimo: apparentemente, esso sembra denotare un’estraneità piatta e superficiale che aderisce al soggetto, che ne colonizza abusivamente lo spazio vitale, che lo possiede come – per citare un noto film di Cronenberg - un “demone sotto la pelle”, quando invece questa estraneità, questa macchia che deturpa il paesaggio, è l’espressione più eloquente e succinta della nostra vulnerabilità, la marca più pulsionale e intima che imprime in me la mia irriducibilità soggettiva. Ciò che mi è più intimo e viscerale è, al contempo, più estraneo, un non-me con cui sono chiamato a prendere confidenza. Per di più, la mia incapacità di staccarmi totalmente da esso – perché per quanto esso mi sia estraneo è pur sempre parte di me, incastonato inesorabilmente nella mia storia – collima con l’impossibilità di sussumere in esso la mia totale soggettività, o meglio: il sintomo non mi è coestensivo, ma neanche totalmente estraneo. Una relazione di incommensurabilità mi lega ad esso.
Ma questo, si badi bene, non significa che raggiungere un rapporto con la malattia voglia semplicemente dire invertire l’ignoto con il noto, sostituire l’altro con lo stesso. Sancire l’estimità del sintomo vuole dire compiere un passo in più, un capovolgimento di prospettiva che, apparentemente, ci lascia sul posto. È un ritorno del rimosso che ci riporta il fantasma di Hegel attraverso la negazione della negazione: ad una prima occhiata, si direbbe che il sintomo sia una chiazza estranea che deturpa la mia altrimenti integra individualità, ma se guardo meglio mi accorgo che è proprio con una radicale estraneità che ho a che fare, ma un’estraneità che, anziché annidarsi sulla superficie come il ragno-morte di Pirandello, emerge dal profondo. È una sintesi mancata, in quanto non riesco né a separare da me l’avulso, né a reintegrarlo come sempre già mio. L’imperturbabilità che mi abita non conosce sintesi dialettica, non trova appiattimento in una puntuale definizione che paralizzi il sintomo nella sua indifferenza. Se insomma il sintomo è la mia verità, di conseguenza, è la verità stessa a divenire una singolarità contingente, irriproducibile e a prova di concetto. Il sintomo-verità è una sospensione della dittatura dialettica che non trova alcuna definizione adeguata nel concetto, “una piega che crea un cortocircuito semantico (…) il cui fine non è risolvere le contraddizioni, ma al contrario mantenerle vive per liberare in ciascun segno la sua natura proteiforme.[xix]
L’apertura evenemenziale che essa pratica nel tessuto dialettico permette quella che Stanghellini chiama “confidenza” - un qualcosa di molto simile alla fedeltà all’evento proclamata da Badiou, poiché anch’essa occasione di autenticità a partire dal pertugio aperto dal vacillamento dei significati – che, in virtù degli scotomi scientifici, “la Psichiatria, al pari della Medicina, confonde (…) con una forma perversa di amore, cioè come un intollerabile residuo, irrazionale e antiscientifico, di misticismo o di nichilismo.”[xx]  La confidenza sarebbe pertanto la fedele resilienza in cui il soggetto si impegna una volta che le conseguenze dell’emersione dell’informe hanno dissolto le pseudo-verità meschine e ideologiche prodotte dalle due macchinazioni della realtà.
La differenza con Deleuze qui è fondamentale: mentre il filosofo post-strutturalista vede nell’evento un Uno pre-kantiano e immanente alla realtà, in Badiou (e, secondo il mio accostamento, Stanghellini) quest’ultimo è una rottura ontologica, un buco nell’ordine dell’essere in cui un ordine radicalmente eterogeneo si insinua nella pieghe simboliche della realtà e ritorna a galla attraverso una molteplicità di mondi e situazioni irriducibili l’uno all’altro. L’impossibilità di unificazione in una realtà trascendente fa sì che questa ipotesi si presti adeguatamente alla prospettiva clinica, poiché estremizza la condizione particolarissima di ogni singolo paziente.
Ricapitolando, la realtà è, per Stanghellini, il prodotto del maneggio di due macchine ideologiche ed euristiche con cui la nostra Ragione filtra e processa il mero reale: la macchina delle somiglianze e la macchina delle differenze.
L’elemento reale è invece “ciò che non ha forma, ciò che non reca l’impronta della somiglianza o della differenza”[xxi], quindi un’ecceità cruda, randagia, che inerisce sgradevolmente all’”abitudine con cui guardiamo il mondo e mette in pausa le macchine delle somiglianze e delle differenze”[xxii]. Anziché condensarsi per mezzo di un’elevazione dialettica e permettere una progressione speculativa, l’Aufhebung mancata della triade tesi-antitesi-sintomo si ritorce contro le sue stesse premesse, rendendo i suoi precedenti significati innaturali e inspiegabili, dispendio puro.
Ma in pari tempo, queste macchine ci sono necessarie affinché possiamo recepire questo scampolo di reale irriducibile. L’unico modo per cogliere la bruta forma dell’informe è attraverso il filtro della realtà simbolica, nel punto di non sovrapposizione tra la macchina delle somiglianze e quella delle differenze. In questo caso, l’informe è strettamente associato alla presenza reale che chiude l’elemento figurale, l’insimbolizzabile che, con la sua sola presenza 1) sancisce irreversibilmente il limite della simbolizzazione – l’elemento noumenico che sancisce l’inceppamento delle due macchine 2) disperde retroattivamente la consistenza delle sue premesse (tesi e antitesi), decretando l’incompletezza non solamente dell’intero sistema, ma anche dei suoi elementi particolari.
Tale elemento, essendo un “abbassamento verso qualcosa di più disordinato” e pertanto una “messa in evidenza del disordine che soggiace all’ordine”[xxiii], sebbene sia recepito come l’intoppo che blocca le nostre categorie, sebbene si presenti a noi sotto forma di ostacolo, è logicamente (ma non cronologicamente) primo. Infatti, possiamo inerire a tale elemento compatto di reale solo dalla prospettiva anamorfica delle nostre categorie simboliche – non è mai puramente esente da esse: per quanto ci riguarda, non vi è ricezione dell’informe puro. Esso necessita per definizione di una forma da far scoppiare, di una visione abitudinaria che lo preceda, da quelle “idee preconcette che ci legano al paesaggio antropizzato, rassicurante, a cui siamo tanto affezionati”[xxiv].
Ma  il puro elemento di reale suscitato dalla sclerotizzazione della realtà (altra similarità con Badiou: differentemente dal reale lacaniano, che è unico per tutti, questo tipo di reale risponde a quello che il filosofo francese delinea in L’essere e l’evento, cioè unico per ogni soggetto e per ogni circostanza, sempre diverso perché mai assolutamente afferrabile - è contemporaneamente anche l’elemento necessario affinché questo processo abbia luogo, cioè: rispetto a questa operazione, esso è parimenti resto, scarto irriducibile che produce l’inceppamento, ed effetto prodotto da questo inceppamento.
Di conseguenza, ritengo non azzardato imputare all’autore l’opinione secondo cui la sostanza del reale si sostenga solo grazie alla pura differenza dell’informe, che emerge successivamente nelle falle (simboliche) della forma, nelle sue fenditure dialettiche ma, al tempo stesso, non è ad esse riducibili, ergo: non vi è alcuna base, alcun fondo concreto e positivo su cui la significazione troverebbe appoggio. Essa piuttosto vorticherebbe ex nihilo attraverso la spinta continua della sintesi dialettica. In questo senso, mi sembra di capire che la denuncia di Stanghellini sia prima di tutto denuncia linguistica. Infatti, se da una parte il linguaggio somiglia alla cosa reale cui si riferisce, dall’altra l’informe dissomiglia questi effetti di significazione perché, evidenziando la fallacia dell’asintoto linguistico (la rappresentazione non è mai la cosa, pur ambendo parallelamente ad essa), “distrugge divorando ciò a cui somiglia”[xxv].
Questo punto viene chiaramente esplicitato da Stanghellini, quando postula che “rivendicare l’informe significa creare uno strappo sullo schermo della buona forma che, sa da un lato smaschera i meccanismi del nostro abituale modo di vedere, dall’altro mette a giorno qualcosa che prima restava celato a causa della cattura teorica del reale da parte della rappresentazione.”[xxvi]
In ultima analisi, sembrerebbe che l’informe (“un’operazione di destabilizzazione, sabotaggio, e insubordinazione che mostra ciò che è irriducibile alla forma, e rivela che la forma è una violenza operata dalle macchine delle somiglianze e delle differenze”[xxvii]) e l’Altro quale alterità preminente e ineliminabile (“l’Altro non può mai essere pienamente assimilato, ma solo approssimato”[xxviii] finiscano per sovrapporsi nelle conclusioni dell’Epilogo: neanche l’alterità, così come l’informe, è per Stanghellini tematizzabile. La loro costante fuga dal concetto, il disimpegno rappresentativo cui sottostanno, sarebbe puro processo che emerge “quando cede il bisogno di collegare il fatto a un concetto o a una rappresentazione”[xxix]
 
 

[i] G. Stanghellini (2018),  p.60
[ii] Ibid. p.34
[iii] Ibid. p.25
[iv] Ibid. p.167
[v] Ibid. p.45
[vi] Tralascerò l’esposizione clinica della seconda.
[vii] Ibid. p.13
[viii] Ibid. p.14
[ix] Ibid. p.15
[x] Ibid.
[xi] Ibid. p.16
[xii] Ibid. p.21
[xiii] Ibid.
[xiv] Ibid. p.27
[xv] Ibid. p.54
[xvi] Ibid. p.165
[xvii] Ibid. p.55
[xviii] G. Deleuze (1995, p.86
[xix] G. Stanghellini (2018), pp. 76-77
[xx] Ibid. p.166
[xxi] Ibid. p.21
[xxii] Ibid. p.25
[xxiii] Ibid.
[xxiv] Ibid. p.27
[xxv] Ibid. p.154
[xxvi] Ibid.
[xxvii] Ibid. p.29
[xxviii] Ibid. p.13
[xxix] Ibid. p.188
 
 
 
Bibliografia
  • Badiou A., L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2018
  • Deleuze G., Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 2008
  • Stanghellini G., L’amore che cura. La medicina, la vita e il sapere dell’ombra, Feltrinelli, Milano 2018
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