RECENSIONE Le parole della psicoanalisi: Sogno, Paranoia, Godimento

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6 luglio, 2018 - 14:27
Autore: a cura di F. Leoni e R. Panattoni
Editore: ORTHOTES
Anno: 2017
Pagine: 186
Costo: €19.00
Il secondo volume della serie Le parole della psicoanalisi: Sogno, Paranoia, Godimento (Orthotes 2017) ha qualcosa in comune col primo: Transfert, Amore, Trauma (Orthotes, 2016) qualcosa che va al di là del loro manifesto isomorfismo. Le due triadi intrattengono, infatti, un rapporto più intimo perché, isomorfiche, le due serie, lo sono nella misura in cui ciascuna costituisce il rovescio dell’altra. Se la prima triade riassume quella che, nella ricerca psicoanalitica attuale, viene definita “matrice inter-soggettiva” o “inter-psichica”, la seconda si immerge, al contrario, nell’intrapsichico, sebbene questa inflessione, spiega Federico Leoni nel saggio che apre il volume, “non attinga a una storia abissale, a un passato puro, ma a una pura geografia, alla densità di una superficie di simultaneità” (p. 22). I lemmi che compongono ciascuna serie si implicano reciprocamente all’interno e all’esterno della triade secondo quella logica dell’obversione che Silvia Vizzardelli, nel suo contributo, propone di interpretare come la logica del godimento. “Il godimento – scrive – è il terreno di coltura dell’obversione: in esso la vita, l’esaltazione, l’eccitazione è se stessa e, al contempo, è già perduta in sé, depositandosi nel suo inverso, nell’oggetto, nella cosa, nel feticcio, e quindi esso è piacere e dispiacere insieme” (p. 167). Sinonimo di Wechselwirkung, lo scambio o azione reciproca che, per lo Hegel della Wissenschaftlehre costituisce l’alba del Concetto, l’obversione è l’operazione con cui la vita si mescola alla morte, l’amore all’odio, la regressione alla sublimazione, il fallimento alla riuscita. Obversione dice, cioè, l’eccitazione che si fissa sulla Cosa, lo spirito che diventa osso, il soggetto che si muta in oggetto e, naturalmente, viceversa. In quanto logica dell’inclusione autocontraddittoria cui si oppone il modello paranoideo dell’esclusione reciproca, la logica dell’obversione è la logica dell’impasto pulsionale (Vizzardelli parla di “ontologia incestuosa”), una logica fuzzy e non fascista.



La serie in cui si articola il volume è una costellazione e non una sequenza: ogni termine è contemporaneamente singolare e plurale, particolare e universale, virtuale e attuale. Ciascun lemma è un momento logico e non cronologico perché la triade si costituisce in simultaneità e non in successione. Più in particolare, l’obversione rende conto del fatto che ciascun momento può, all’occorrenza, rovesciarsi nell’altro. In logica, infatti, l’obversione è quell’operazione che permette di trasformare una proposizione categorica, mediante la potenza della doppia negazione, in una proposizione equivalente in cui il termine soggetto rimane invariato: il predicato viene sostituito dal suo opposto contraddittorio e la qualità cambia da affermativa a negativa o viceversa. Ma qual è il terzo, il precursore buio che, per dirla con il Deleuze di Differenza e ripetizione e Logica del senso, circola segretamente nelle due serie garantendo la vicendevole, ancorché imprevista, risonanza tra gli elementi che le compongono? Nel primo volume de Le parole della psicoanalisi, c’erano buone ragioni per credere che fosse la ripetizione: il trauma si ripete, l’amore ripete, il transfert è, essenzialmente, ripetizione. Nel secondo, l’oggetto=a x è, invece, la pulsione: l’affermazione assoluta o, come scrive Bernard Toboul nel suo saggio, “l’affermazione dell’impossibile”. Tra la ripetizione e quel resto della rimozione originaria che è la fissazione esiste, in effetti, una solidarietà irrefutabile, “che non può essere contraddetta” (p. 158). Freud chiama “pulsione” questo legame insubordinato e seduttore, “la cui forza di opposizione alla propria addomesticazione da parte dell’io” (p. 159) fa dell’uomo pulsionale nient’altro che un revenant: “colui che ritorna nel foyer oscuro del letto primitivo” (p. 159).
Ma è possibile vivere la pulsione altrimenti? Lacan se lo chiede alla fine del Seminario XI, quello dedicato ai quattro concetti fondamentali della psicoanalisi: inconscio, ripetizione, transfert e pulsione. Toboul riprende la domanda e la consegna al lettore di queste pagine come una chiave segreta per guadagnare l’intelligenza del filo rosso che tiene assieme questo secondo gruppo di lemmi fondamentali: sogno, paranoia, godimento. Si tratta, per certi versi, dei doppi ectoplasmatici dei primi tre: Transfert, amore, trauma. Dei loro rovesci speculari. La chiamata è reciproca perché, se il trauma è ciò che sveglia all’improvviso dal sonno-sogno, la paranoia è il contrario dell’amore (Gerard Pommier, col suo contributo, lo mostra bene nei riguardi di Heidegger) e il godimento, ciò che non ci vorrebbe nel transfert, ciò che si mette di traverso pervertendolo in nevrosi: è la nevrosi di traslazione. E tuttavia, in ciascuna serie, un solo termine è dominante, un solo termine, cioè, occupa il posto della causa. Il trauma è causa nella prima serie come il godimento lo è nella seconda, perché se il sogno è la via regia dell’inconscio e la paranoia quella della personalità (“la psicosi paranoica e la personalità non hanno alcun rapporto per il semplice fatto che sono la stessa cosa”[i]), la jouissance è la via regia per incontrare das Ding, per incontrarla nella e con la ripetizione come, però, essenzialmente perduta. È la rimozione originaria.
Vivere altrimenti la pulsione significa, soprattutto, una cosa: risvegliarsi, e ciò sebbene il risveglio completo e definitivo sia impossibile: “l’inconscio è precisamente l’ipotesi che non si sogna soltanto quando si dorme”[ii]. Si sogna continuamente perché, anche quando ci si sveglia dal sonno è solo per poter continuare a dormire, cioè a fantasticare, fantasmer dice Lacan. Da un punto di vista psichico, realtà = fantasma, dunque realtà = ciò che sostiene il desiderio, perché non è l’oggetto, il piccolo a, ciò che lo regge: a lo causa, ma lo causa alle spalle e a sua insaputa. E il desiderio più fondamentale, quello che ogni sogno, soprattutto il sogno ad occhi aperti, realizza è il desiderio di dormire: desiderio (Wunsch) e non bisogno (Bedürfnis). Proprio questo è il luogo comune, risolutivo di una complessa questione teorica, che Freud rivela a Fliess nella lettera del 9 giugno 1899. “Vi è un solo desiderio che qualsiasi sogno intende soddisfare, benché assuma forme diverse (…) Si sogna per non doversi svegliare, perché si vuole dormire. Tant de bruit….”[iii], commenta Freud: “tanto rumore per nulla”. E il rumore, si badi, è quello della macchina-decifra-sogni, anche di quelli nazisti (è ancora l’Heidegger di Pommier). Enigma è infatti sia il nome della macchina tedesca di cui Alan Turing doveva decodificare i segreti, sia il nome dell’inconscio freudiano. Entrambi lavorano, ma l’inconscio non è l’Arbeiter nazi-jungheriano.
 “L’inconscio lavora senza pensarci, né calcolare, nemmeno giudicare e, tuttavia, il frutto è là: un sapere che si tratta di decifrare poiché consiste unicamente in una cifratura … che non serve a niente, non è dell’ordine dell’utile, che è dell’ordine del godimento”. Lacan pronuncia queste parole al congresso dell’École freudienne nel novembre del 1973 ma, con minime variazioni, la stessa formulazione si trova anche in testi coevi, ad esempio, Télévision. Come la ragione freudiana, negli anni ‘70 Lacan ribadisce, con voce bassa, sempre la stessa cosa: l’inconscio è un lavoro, un lavoro di cifratura, un lavoro che non serve a niente perché è dell’ordine del godimento. L’inconscio non serve a niente né vuole dire nulla: decriptare non è comunicare, tradurre non è giudicare, codificare non è pianificare. Privo di intenzionalità, Lacan dice che nemmeno serve a godere. E questo è un punto molto importante. L’inconscio è un lavoro che non serve a niente nel senso che non è finalizzato, non è finalizzato neppure al godimento. L’inconscio non serve a godere: gode e basta. “Ça jouit” dice Lacan, e ça jouit è il titolo che Franco Lolli dà al suo saggio sul godimento, un godimento con cui l’Io non ha molto a che fare perché “Ça è il nome dell’inconscio, dunque, su questo, nessun dubbio” (p. 111). Ça è il nome lacaniano per l’Es freudiano, quindi per qualcosa che parla (ça parle), gode (ça jouit) e che non sa niente (ça sait rien). Das Es è una macchina cifrante che vuole solo cifrare: se è un “lavoratore ideale”, come dice Lacan in Télévision, lo è in senso marxista, ossia dal punto di vista del Capitale, di das Ding: la Cosa-Roba. “L’inconscio non calcola né giudica – scrive Lolli – si limita a produrre”. L’inconscio è produzione, ma produzione fine a sé stessa, praxis e non poiesis. “Ed è proprio in tale afinalismo utilitaristico che prende forma il tratto più pulsionale dell’inconscio” (p. 112), un tratto davvero rumoroso, insopportabile: è il reale.
Tuttavia, molto rumore per nulla non è soltanto una frase attribuita al poeta francese Desbarreaux, morto nel 1675. Much Ado About Nothing è anche il titolo della commedia di uno Shakespeare che, quindi, è presente nel testo almeno due volte: una prima, manifesta, nell’incipit del saggio di Federico Leoni: “Noi siamo fatti della stessa materia (stuff) di cui sono fatti i sogni scriveva Shakespeare in un passo famoso della Tempesta. Ma di che materia sono fatti i sogni?” (p. 9). Una seconda, latente, in ciascun contributo perché, che si tratti del sogno, del delirio o del godimento e del fantasma che permette di accedervi, resta in ogni caso che un nulla è causa di molto rumore. La materia dei sogni è, infatti, un’antimateria: stuff significa das Ding, perché la materia dei sogni è una materia freudiana, una materia che è un insieme, danzante, di “immagini-atto” (p. 44) le definisce Gianluca Solla, immagini “che hanno visto la Cosa” per usare le parole di Pierre Fédida, e che, perciò, sono ausdrücklose, “senza espressione” (p. 47). La materia freudiana è, allora, una materia bergsoniana perché anche quella di Freud è un’esperienza a occhi chiusi. Bergson vi si sottopone nei suoi lavori giovanili e nella celebre conferenza sul sogno del 1901, ma anche per il padre della psicoanalisi, gli occhi, gli occhi della coscienza, vanno chiusi non appena è possibile: quando sono aperti la pulsione, infatti, è evacuata. Il campo scopico delle immagini-ricordo e delle rappresentazioni di parola è un campo depulsionalizzato, ed è per questo motivo che Riccardo Panattoni ci invita a considerare l’oggetto piccolo a, quello che lo stesso Lacan ha riconosciuto come il suo più importante contributo alla psicoanalisi in quanto è, contemporaneamente, oggetto della pulsione, del fantasma, del desiderio e dell’angoscia, come un’immagine, un’immagine in senso letterale: la sua funzione, dice Panattoni, “si colloca nella schisi tra l’occhio e lo sguardo” (p. 25).
L’esperienza a occhi chiusi è un’esperienza a sguardo o a cielo aperto. Dunque l’esperienza dell’inconscio schizo (l’inconscio dello psicotico, secondo Lacan, è un inconscio “à ciel ouvert”): un’esperienza iconoclastica in cui si tratta di liberare l’immaginazione, la sintesi attiva dell’immaginazione precisa Panattoni, dalle immagini e dall’immaginario. Vedere è rendersi ciechi. Accecarsi è farsi veggenti, veggenti del reale, e attraversare, così, il fantasma fondamentale. Questo significa vivere altrimenti das Trieb: “dopo il reperimento del soggetto rispetto all’a l’esperienza del fantasma fondamentale diventa quella della pulsione”[iv]. Il piccolo a, però, non supera mai la faglia, la schisi di cui Matteo Bonazzi sottolinea, a ragione, il carattere originario rispetto a ogni soggettività, non solamente quella psicotica. a piccolo si presenta in ogni campo visivo come “l’oggetto che resta di traverso nella gola del significante”[v], come l’oggetto non inghiottibile da parte dell’Io ideale frettoloso di aspirare il reale del corpo in frammenti entro un’immagine narcisistica virtuosa e viziosa a un tempo. L’immagine allo specchio è contemporaneamente reale e ideale, attuale e virtuale, vera e falsa, e il paranoico è colui che rifiuta questa ambivalenza, sinonimo di divisione e responsabilità soggettive. Il paranoico le rifiuta nel senso che non vi crede – è l’Unglauben -, preferendo imputare all’Altro grande e cattivo la disidentità che, comunque, malgrado cioè le sue reiterate accuse, continua a costituirlo in quanto soggetto – è la proiezione. Alla necessità delle leggi di natura, il paranoico sostituisce l’arbitraria volontà di un genio maligno e persecutorio: è il capro espiatorio. Il caso diventa un complotto e il reale acquista un senso e un volto umani che, per sua natura, non ha.
L’intelletto paranoico è superstizioso in senso spinoziano: l’illusione paranoica è l’illusione della causa finale – quella che Spinoza, nell’appendice al primo libro dell’Etica, giudica la più pericolosa – e di una soluzione che, di conseguenza, non può che esserlo altrettanto (è la soluzione nazi-fascista). Captato malevolmente dalla sua immagine allo specchio e invaghito della perfezione ideale che questa gli offre in cambio della sua attuale miseria corporea, il paranoico, come il Dasein, è l’ipnotizzato, perché l’ipnosi è precisamente “la confusione, in un punto, del significante ideale in cui il soggetto si reperisce con a”[vi], ovvero con ciò che ci guarda prima che ci sia una vista per vederlo. a piccolo è il fascino della macchia anteriore alla vista heil und sauber (quella di Heidegger secondo Pommier), una vista che, sospettosa, in un secondo tempo (Freud dice dopo la pubertà) la scopre e che, bisognosa di certezza, in un terzo ma ancora secondo tempo, si impegna in un “lungo raziocinio”[vii] per eliminarla e realizzare, così, il grande sogno della chirurgia (eu)genetica e prosaica di stampo razzista: l’individuazione definitiva del nemico (la causa di tutti i mali) mediante un’applicazione del kantiano giudizio determinante che, tuttavia, è soltanto mitica, immaginaria. Secondo Lacan la paranoia consiste nell’identificazione del godimento con il luogo dell’Altro, un’identificazione delirante che, nondimeno, funziona come la condizione necessaria e sufficiente della decisione di eliminarlo e dell’atto con cui, di fatto, lo si fa fuori: è il crimine. Il postulato di innocenza alla base della paranoia tradisce infatti la certezza della colpa dell’altro mentre fonda la sua persecuzione: l’identificazione al Bene da parte dell’Io giustifica, in ogni contesto, il compimento del male nei confronti di colui o colei che è ha trasgredito il supposto Ordine del Mondo. Questa è la logica fascista di cui si alimenta la legalità paranoica.
Farla finita con l’ipnosi. Voila’ il programma del godimento che, “a partire dal 1968 (…) Lacan pone (…) non come parola d’ordine, tipica degli entusiasmi storici del momento, ma come concetto” (p. 141). Si tratta, spiega Toboul, di mettere il reale e l’inconscio alla prova del godimento, dunque di un secondo ritorno a Freud. A tornare, nelle pagine di Toboul, è il Freud del Progetto, della ripetizione demoniaca di Al di là del principio di piacere e della fissazione come problema economico-masochistico in quanto resto indiscutibile della rimozione originaria. Ed è un Freud che ha bisogno di un’estetica che non sia kantiana: “nell’inconscio il sopra e il sotto, l’esterno e l’interno, il prima e il dopo sono sovvertiti” (p. 156), perché il tempo e lo spazio sono degli a posteriori e non degli a priori e se il soggetto è stretto all’oggetto, è solo nella misura in cui è inchiodato al fantasma. Tutto questo, secondo Toboul, ha qualcosa di dionisiaco. “Al di là dell’Edipo”, come recita il programma lacaniano, significa, di fatto, “verso Dioniso” (l’altro grande, ma ausdrücklos, mito analitico), perché vivere con la pulsione vuol dire “prendere atto del dileggio e dell’atrocità dell’esistenza affinché la vita sia possibile, vivibile, vivente” (p. 107). Vivere con la pulsione significa, precisa Pommier, abbattere l’idolo (la madre del für-seine-Mutter-sein heideggeriano) e proclamarsi “colpevoli senza perdono”: il veggente è colui che “resta in piedi sulla soglia, pietrificato dal dolore forse, ma vivo (…) a discapito della colpa e grazie ad essa” (ibid). Vivere con la pulsione significa essere responsabili dei propri sogni o, che è lo stesso, stare agli ordini della propria notte assumendoli come desideri. “Ogni tuo ordine è un desiderio” avranno segretamente pensato Petrarca e Cavalcanti davanti alle loro dame: il sogno stilnovistico non è un delirio paranoico, quello di Schreber, ad esempio, per il quale ogni desiderio di Dio era un ordine, terribile ed eccitante allo stesso tempo. Per Lacan, com’è noto, lo Stil Novo ha rappresentato uno dei modi migliori per fare i conti con l’assenza del rapporto sessuale. La distanza che separa Beatrice da Dante è, infatti, una figura ante-litteram del sinthomo: anche la Commedia, come l’Ulisse di Joyce, è in fondo “un poema che si scrive malgrado abbia l’aria di un soggetto”, dunque qualcosa che, come l’analisi, produce un sintomo di supplenza: È il buon inganno (la bonne dupe), ciò che, secondo Bonazzi, pone fine all’analisi e alla paranoia (p. 69).
Sogno e paranoia sono i due modi con cui ci si può rapportare al nulla che fa molto rumore, ovvero a quel vuoto causativo di ogni rappresentazione di parola (Freud) e/o immagine-ricordo (Bergson) che è das Ding. Ma solo il primo è un modo creativo perché, sebbene il delirio costituisca il primo tentativo di guarigione, pure non è quella guarigione secondaria che Freud, nel ’37, chiama “posticipata rettifica della posizione soggettiva”. Il delirio paranoico supplisce all’assenza di rapporto in un altro modo, un modo che fa nodo, olofrase e non poema. La formazione delirante supplisce l’assenza di significazione fallica, ossia il fallimento della rimozione originaria il cui esito è la mancata costruzione del fantasma. La perdita di realtà che accompagna la psicosi è perdita del fantasma, della realtà condivisa perché significante. Perdita del padre quindi, o della pére-version. Silvia Lippi insiste giustamente sul fatto che, nella psicosi, non è la realtà ad esser persa: la realtà torna, spiega nel suo saggio, ma torna sotto forma di schegge (éclats) di reale o percepta sine subiecte (sono le allucinazioni) che paralizzano il soggetto in quanto res prive del loro intellectus, prive nel senso della forlcusione, ma sarebbe meglio dire pignoramento, del Nome del Padre. La psicoanalisi è, allora, un secondo tentativo di guarigione, qualcosa di simile a un deuteron pseudos, un secondo falso (la bonne dupe) rispetto a quel primo che Freud scopre, sin dal Progetto del 1895, all’origine dell’isteria. Per Lacan, “solo la psicoanalisi, in quanto sa come raggirare le resistenze dell’Io, è capace di far emergere la verità dell’atto, implicandovi la responsabilità del soggetto tramite un’assunzione logica che deve portarlo ad accettare il giusto castigo”[viii]: è la castrazione, la legge uguale per tutti.
L’atto analitico  è un atto etico e politico: esso mette il corpo – la res – in condizione di agire in modo conforme all’idea che sottende l’affetto –  l’intellectus – e lo fa grazie a un secondo tempo, quello dell’analisi, nel quale riecheggia qualcosa del secondo tempo con cui, per Bruno Moroncini, una donna, a differenza dell’uomo, giunge ad avere il fallo (p. 130). Come vi riesce? Emendando l’intelletto: ciò che, letteralmente, si ammala nella para-noia. Per Spinoza l’emendatio è il perfezionamento della mente, “un modo di curare l’intelletto e di purificarlo (expurgatio) all’inizio, per quanto è possibile, affinché intenda le cose felicemente”[ix]. Come un pesce fuor d’acqua, aggiunge Lacan, ossia come qualcuno che, sognando, “galleggia tra due discorsi”[x] e partecipa della vita beata, la vita, per usare un neologismo, del rêvenant



[i] J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII, Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 50.
[ii] J. Lacan, Une pratique de bavardage, in Ornicar?, n. 19, 1979, p. 5
[iii] S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), Boringhieri, Torino 2008, p. 391.
[iv] J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964-1965), Einaudi, Torino 2003, p. 269.
[v] Ivi, p. 266.
[vi] Ivi, p. 268.
[vii]  P.K. Dick, L’Esegesi, Fanucci, Roma 2015, p. 971.
[viii] J. Lacan, Premessa a ogni sviluppo possibile della criminologia, «La Psicoanalisi», n. 51, 2012, p. 11.
[ix] B. Spinoza, Trattato sull'emendazione dell'intelletto, in Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini,, Milano, Mondadori, 2007, pp. 29-30.
[x] J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX, Ou pire…, 1971-72, Seuil, Paris 2011, p.131. Traduzione nostra.

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