Le necessità dell’anima e le ragioni del cuore in Eugenio Borgna

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12 agosto, 2018 - 12:22
Autore: EUGENIO BORGNA
Editore: Feltrinelli
Anno: 2011
Pagine: 194
Costo: €12.75
NDR: Sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia è pubblicata una Serie di Video realizzati con Eugenio Borgna dal Titolo : " EUGENIO BORGNA, Autoritratto di un Maestro gentile" raccolti in una Playlist raggiungibile seguendo il link.
Si tratta della prima e unica intervista articolata in 15 sezioni rilasciata da Borgna in video

Per natura l’uomo è portato a combattere la solitudine, e in specie quella dell’anima, per tutta la vita. L’uomo, hanno scritto i filosofi [Aristotele, Seneca, Spinoza], è animale sociale e, salvo particolari circostanze che non sono né rare, né sempre la conseguenza di una malattia, s’ingegna di essere-con, di accompagnar-si-a, di con-dividere.
 
Fra i più potenti strumenti di cui dispone per lenire i morsi della solitudine, a parte l’amore (e l’innamoramento), è solito ricorrere al dolce balsamo della poesia e al racconto dei miti che ci spiegano (pindaricamente, irrazionalmente, narrativamente, per incantamento) molto più e molto meglio di quanto noi vorremmo veramente sapere su noi stessi, che la scienza non dice, non sa o non può dire. Panacea, figlia di Asclepio e Lampezia, con i suoi cinque fratelli è in fama di grande consolatrice di spiriti inquieti, e tuttora invocata per le sue presunte portentose qualità terapeutiche.
Quando nel Convivio di Platone prende la parola Aristofane, da sapiente commediografo, narra la sua storia sulla differenza di genere: il “mito delle metà”. Un tempo - egli racconta - gli esseri umani erano perfetti, non mancavano di nulla e non v'era distinzione alcuna tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è alla perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione.
 
Ovidio nelle Metamorfosi (IV, 285-388) narra il mito della ninfa Salmacide. Ermafrodito, un giovinetto quindicenne, allevato dalle Naiadi, figlio di Hermes e Afrodite, di bellissimo aspetto, viene scorto dalla ninfa Salmacide mentre si bagna in uno specchio d’acqua nel paese dei Cari, presso Alicarnasso. Infiammata da violenta passione amorosa gli si offre, ma essendo rifiutata, si avvinghia al corpo del giovinetto amato chiedendo agli dei di non esserne mai più separata. Nasce così la nuova creatura dell’ermafrodito, appunto: mixta duorum corpora iunguntur, faciesque inducitur illis una (si congiunsero i corpi mescolati dei due, e di essi apparve una sola figura vv. 373-374).
 
La ricerca dell’altro, essenzialmente per fuggire la solitudine, in linea di massima, è consuetudine del genere umano; banalizzando ulteriormente il sempre enigmatico discorso sull’alterità, quante volte abbiamo sentito dire che si è “alla ricerca dell’anima gemella”? Un altro mito? No. Si torna sempre a Platone con altri dettagli. Nella notte dei tempi gli esseri umani, non essendo divisi per genere, possedevano quattro braccia, quattro gambe e due teste. Tale era la perfezione di codesta umanità primordiale che Giove con la folgore la separò in due parti: donna e uomo. Come conseguenza, ogni essere umano cerca di ritrovare la propria iniziale completezza cercando la propria metà perduta, l’anima gemella, appunto.
 
Il mito greco dell’androgino o dell’ermafrodito, merita qualche precisazione psicosemantica. Infatti, appare più comprensibile nell’accezione di mito di complementarità antropologica, di opposizione/ricongiunzione e, tutto sommato, di spiegazione di genere. Nondimeno, riferite all’essere umano, le connotazioni ermafrodito e androgino sono etimologicamente pertinenti sotto il profilo eidetico, lo sono meno sotto quello anatomo-fisiologico. Fuori dal mito, ossia in natura, entrambe sono locuzioni tecniche attinte dalla biologia per definire la presenza contemporanea di apparati e caratteri sessuali maschili e femminili in un individuo; tuttavia sono scarsamente utilizzabili in area medica, al di fuori della patologia neuroendocrina. La compresenza dei due apparati, infatti, induce condotte differenti a seconda delle specie in cui l’ermafroditismo si manifesta e di conseguenza muta anche la modalità riproduttiva che diviene tipica delle specie interessate. Vongole, ostriche, cozze e capesante (molluschi bivalvi) sono ermafroditi edibili ma poco mitologici ancorché conosciuti fin dalla notte dei tempi.
 
Anche se possiedono la medesima funzione (salvifica), non sono ritenute pagane, né mitiche, le vicende umane scritte nel libro della Genesi: «E Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1, 26-28). In un’altra versione un Dio misogino, chirurgo e anestesista opera Adamo, l’uomo della terra rossa, per offrirgli Eva, la sua compagna: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. » (Genesi 2, 21-22). 
 
Come che sia, l’essere umano senza socius o una umanità priva di socialità, è inimmaginabile. Quante volte, noi della medicina psicologica, della salute mentale, ma anche noi come singoli soggetti dell’umanità, (la nostra anima, posto che vi si creda) siamo stati invasi dai colori cupi della perdita, abbiamo incontrato le angustie della solitudine, conosciuto la disperazione dell’abbandono. Quante volte ci siamo trovati al cospetto del dolore straziante dell’abbandono – «Eloi, Eloi, lema sabactàni? (Marco 15, 33-37)» è il grido ripetuto dal Gesù di Nazareth sulla croce, in aramaico, e variamente tradotto come Dio e come Padre (che in questo caso coincidono) perché mi hai abbandonato? – e non solo quando, come diciamo comunemente, si sta per “rendere l’anima a Dio”.
 
L’anima, appunto, visitata nel suo versante più doloroso ed enigmatico: quello della solitudine [1]. Questo è il tema di uno dei tanti libri di Eugenio Borgna, di qualche anno fa. Cibo per la mente che, al contrario di quello per l’apparato digestivo, non ha scadenza. Lo puoi tenere lì sul comodino o sul tavolo da lavoro, ti torna sempre utile. Una frase, un’immagine, un verso poetico, e lo afferri. Ti viene in mente che l’hai letto lì… e trovi tutto, puntualmente.
 
Borgna è autore polimorfo e ricco di suggestioni fenomenologiche. Maestro di psicopatologia e acutissimo osservatore di vicende umane provenienti dalla psichiatria clinica. Sa parlare agli specialisti con la terminologia specifica e sa usare le parole preziose del linguaggio letterario. Sa cogliere grandi/piccoli sussulti e sentimenti della vita quotidiana, che racconta con la sensibilità (e i richiami) dell’uomo di lettere (il poeta). Le argomentazioni sono precise, puntuali, rigorose, quelle dell’uomo di scienza, il medico, il filosofo, l’antropologo e lo storico della vicenda umana. Mi rendo conto di usare uno stile che potrebbe apparire eccessivamente encomiastico, ma non è così. Si tratta di entusiasmo. Eugenio Borgna, non lo scopro io, contagia con la sua immaginazione inesauribile, accende il pensiero eidetico, trascina all’entusiasmo il lettore con una prosa che procede per metafore luminose. Nella sua ricca e vasta produzione, infatti, si avvicendano volumi di psicopatologia antropofenomenologica indirizzati ad un pubblico specializzato, frammisti ad altri maggiormente divulgativi per una platea più vasta di lettori, che lo seguono da anni in questo suo percorso di analisi (daseinsanalitica) dei sentimenti e delle emozioni. Esse, talvolta, sono avvincenti conversazioni intorno a semplici affanni o felicità della vita quotidiana, talaltra appaiono come malinconie e rimpianti dell’esistenza passata, altre sono rivelatrici di malessere e disagio (neurosi), altre ancora, introducono e chiariscono un più acuto disturbo mentale (psicosi).
 
La sua nuova esplorazione dell’esperienza umana della solitudine ha un incipit sfolgorante di speranza, ma non privo di crudo realismo della realtà  «Sono in cammino – egli scrive – verso i modi di essere, verso i linguaggi della solitudine perduta nella vita di ogni giorno, e divorata dalla mondanità e dalla ricerca di mete non di rado nutrite di illusioni e di apparenze: di stelle filanti». La chiarezza è esemplare, com’è nel suo stile (anche) di rigoroso ricercatore, oltre che d’immaginifico artista della metafora e puntuale rammentatore di versi poetici che riescono a pronunciare l’indicibile, il pensiero della sua parente povera, la follia.
 
Già quel «Sono in cammino… verso i modi di essere… i linguaggi della solitudine…» – inizio straordinariamente fenomenologico, metafora elegante del ricominciare sempre daccapo, senza preconcetti, pregiudizi, precognizioni, tipico atteggiamento daseinsanalitico – mi trova idealmente vicino come viaggiatore, viandante, compagno di strada (nel senso di Wanderer, Weggenosse, Wanderungen mit Eugenio Borgna), immersi entrambi nel mondo agro, ruvido ma non raramente piacevolmente meditativo della vita; con la tensione di chi cerca di comprendere il senso dell’esistenza; il proprio ed anche l’altrui.
 
In codesto cammino, Borgna, principia a distinguere due tipi di solitudine «la solitudine interiore, la solitudine dell’anima, la solitudine creatrice [dalla] solitudine dolorosa, la solitudine negativa, la solitudine-isolamento». Da qui parte, Borgna, e si è portati a seguirlo per questi sentieri impervi come si seguirebbe la guida alpina che ti fa strada nelle ascensioni più inebrianti.
 
Ogni capitolo de La solitudine dell’anima scopre un mondo di significati; ogni paragrafo ha titoli e sottotitoli come successione di inquadrature di un film su varie  narrazioni, spesso dolorose, dell’esistenza. Ogni titolo rimanda a sterminati orizzonti di senso, ogni parola scritta accende il pensiero, spinge al dialogo il lettore, gli fa compagnia. Insomma, in una, vince la solitudine. Lungi dal fornirgli certezze, le tematizzazioni affrontate, nell’esperienza del dolore, nella dimensione della solitudine, nella percezione del tempo e nelle palpitazioni dell’anima, gli suscitano dubbi, instillano aporie. Fin dalla lezione di Socrate e di Platone abbiamo appreso l’ineguagliabile funzione euristica del “dubbio” nella ricerca della verità. Il dubbio platonico, in particolare, – che investe il mondo della natura, ma non abita il mondo delle Idee (dominio inesauribile della scienza certa), non costituisce mai il «fine», ma è sempre il «mezzo». Il lettore di questo libro di Eugenio Borgna, ma (forse) anche di molti dei precedenti e dei successivi, è portato ad interrogarsi su una catena lunghissima di questioni aporetiche della vita umana, dalle più banali alle più ardue.
 
Prendiamo una prima questione di squisita pertinenza spirituale. L’estasi è un’alterazione dello stato di coscienza, una condizione amorosa di tipo ascensivo, l’eros come lo intendevano i Greci dell’antichità, ma anche la filantropia, l’amore disinteressato per il prossimo che spinge a promuovere l'altrui benessere e felicità, oppure un amore discensivo, l’agape come lo intendono gli ebrei e i cristiani? I mistici, i grandi e famosi mistici dell’indiamento, (Teresa d’Avila, per esempio) che abbracciano il mondo e l’umanità smarrita per ricongiungerla al Padre, sono autenticamente in comunione con tutti per alleviarne le sofferenze, annullandosi, o sperimentano una condizione psicotica?
 
«La solitudine, un’arcana solitudine, una solitudine che è distacco dal mondo, e insieme misteriosa comunità di destino con un Altro-da-sé, è stata la premessa alle esperienze mistiche di Angela da Foligno e di Maria Maddalena de’ Pazzi, di Teresa d’Avila e di Thérèse de Lisieux, ma anche di quella di Teresa di Calcutta che si è realizzata mirabilmente non chiusa in un monastero ma nelle frontiere aperte e sanguinanti di una vita consumata dal dolore […] nei luoghi della sofferenza estrema… La solitudine, la grande solitudine mistica, non è stata solo alla radice di esperienze umane e spirituali: come quelle lontane, e vicine, nel tempo […] ma è anche nel cuore di una vita monastica benedettina, o carmelitana, dei giorni nostri». (p. 13)
 
Passando alle spazialità levissime della solitudine eremitica, Borgna cita il «monastero benedettino di Isola San Giulio: sospesa sulle trakliane acque azzurre del lago d’Orta» della badessa e scrittrice profondissima Anna Maria Cànopi, nel novarese. A noi echeggiano nella mente le sagge e vigorose riflessioni di Enzo Bianchi il priore di Bose, nel biellese. Riflessioni che, ispirate dalla manniana atmosfera incantata diffusa dal prospiciente massiccio del Monte Rosa, sgorgano copiose leggendo Il pane di ieri (Einaudi, 2008) che, come recita per intero l’adagio, “è buono domani”. E di rimando, Borgna gli fa il controcanto con le parole di Jean Guitton:
 
«… è sufficiente vivere un giorno nella solitudine perché si operi una divisione tra coloro che si erano incontrati nel mezzo del chiasso dell’esistenza: il volto di alcuni si oscura, mentre si vede risplendere il volto di coloro che portavano il segno della solitudine. Un monastero invisibile, costruito con le pietre del silenzio, si eleva in ogni solitudine» (pp. 96-97)
 
Ecco allora disegnarsi tenuamente – come ombre di lanterne cinesi, evocate da Borgna sulla pellicola della memoria eidetica in quest’atmosfera rarefatta di misticità – una lunga teoria di sagome di monasteri e abbazie, benedettine, cistercensi, clunyacensi, in Italia (mi sovviene che il Collega Romolo Priori, traduttore di Jaspers, era un competente appassionato) e in Francia (quella di Sénanque in particolare, mi pare vederla), con l’imponenza delle loro mura, la geometria della loro architettura a difesa del contado, il rigore della regola, della gerarchia per la vita interna e… un intensissimo, inebriante profumo di lavanda.
 
La contemplazione (δεωρέσις, la teoresi dei Greci, la teoretica che Plotino distingue dalla prassi) è ozioso isolamento, vacuo otium, o non piuttosto lavoro eidetico, fare artistico, aspetto creativo dello spirito (il poetare), ma anche opera generativa biologica (la funzione poietica cellulare)? Il silenzio dell’anima è l’annientamento della psiche nella terribile presentificazione della depressività, la morte della speranza, la sospensione dell’intenzionalità o biomedicalmente l’elettroencefalogramma piatto? Nel cammino di Borgna troviamo questo passo, profondissimo, sulla contemplazione della solitudine.
 
« La solitudine è una metafora del silenzio, e il silenzio una metafora della solitudine: l’una intrecciata con l’altra e l’una distinta dall’altra. La solitudine è un’esperienza interiore che non è possibile non rivivere, almeno in alcune ore della nostra vita, e che è facilmente oscurata dalle molte maschere che, scendendo sui nostri volti, la nascondono agli occhi degli altri. La solitudine nella sua dimensione metaforica, è una condizione ineliminabile della vita; e in essa si riflettono desideri di riflessione e di contemplazione, di tristezza e di angoscia, di silenzio e di preghiera, di attesa e di speranza. Ma nella solitudine non viene mai meno lo slancio vitale che ci porta ad ascoltare quello che avviene nel mondo, e ad essere in consonanza con i valori della vita e della solidarietà; senza rimanere imprigionati nelle maglie aride e prosciugate dei nostri io: del nostro egoismo » (p. 26).
 
E ancora. L’anima parla (e con che voce), ti dice (e con quali parole), oppure comunica in silenzio, ti avverte, ti fa sapere (e con che segni)? Allora ti chiedi spontaneamente: qual è il linguaggio dell’anima? Per parlarne serve un lessico particolare? Si deve operare una scelta delle parole? Ecco dunque una prima risposta, anzi un primo suggerimento sommesso: il linguaggio scritto di Eugenio Borgna ti guida ad imparare ad ascoltare, dal silenzio, il sottile e palpitante linguaggio dell’anima. Ascoltare i racconti, la narratività, il linguaggio dell’anima dalle parole di Eugenio Borgna, può essere la via maestra per giungere all’umano.
 
Citarne un passo in proposito è più illuminante di qualsiasi argomentazione
 
« Non è facile ritrovare in noi le parole che consentano di comprendere, e di alleviare, le ragioni del dolore e della solitudine. Le parole, che vorremmo dire, e quelle che vorremmo ascoltare quando dolore e solitudine sono in noi, non sono di questo mondo; nel senso che le conosce solo ciascuno di noi nel segreto della sua interiorità lacerata. Qualche volta certo il linguaggio delle parole si fa oscuro e almeno apparentemente indecifrabile, e allora non c’è dialogo possibile se non quello che ci offre il linguaggio del corpo che grida in silenzio per essere riconosciuto nel dolore.» (La scelta delle parole, pp. 171-72)
 
E poco oltre, ecco fornirci una puntuale e appassionata raccomandazione della poetessa russa Marina Cvetaeva, scovata proprio per chiarirci questo passo fondamentale della scelta della parola nella confezione del linguaggio della sofferenza dello spirito.
 
«“La scelta delle parole è prima di tutto selezione e decantazione dei sentimenti: non tutti i sentimenti vanno bene – oh, credetemi, anche qui c’è bisogno di lavoro! Il lavoro sulla parola è lavoro su se stessi”. Sono parole queste che ci dicono di quale importanza siano le parole non solo in poesia ovviamente, ma nella vita e nella vita di chi cura con le parole del cuore». (ibid.)
 
Si procede nella lettura e Borgna ci fa riflettere sulle “parole del silenzio”. Già! Il silenzio parla. Eccome. Ha parole affatto particolari, e non solo per il tramite del linguaggio del corpo, che rimanda sempre a qualcosa, comunica, interagisce sempre, tanto nell’osservazione che nella cura, sia da sano e che da malato (si pensi alla fissità stuporosa del melanconico, al mutacismo del catatonico), com’è detto benissimo dall’Autore.
 
« Il linguaggio delle parole è strumento essenziale di comunicazione e di relazione, di domande e di risposte, di dialogo e di antidialogo, di ascolto e di negazione dell’ascolto: di cura; ma in essa non c’è solo il linguaggio delle parole. A questo, nello svolgimento della cura, e anche in quello dei quotidiani incontri della vita familiare e sociale si affianca il linguaggio del silenzio. Il silenzio è lo scoglio che in molte umane situazioni, e non solo in quelle psicopatologiche, si costituisce nelle sue ambivalenze e nelle sue ambiguità semantiche: tale da rendere difficile, e talora insondabile, una relazione. Quante volte, in un incontro terapeutico, un paziente rimane pietrificato nel silenzio che è necessario decifrare nei suoi significati; ma senza aggredirlo, e senza interromperlo, con domande che possano ferire l’anima di chi sta male, e di chi non ha nemmeno le parole che dicano il suo dolore, e la sua solitudine». (p. 173)
 
Parole acutissime, queste, sue, del silenzio, e sul silenzio, ed ecco scoccare, poco oltre, il dardo immediato dell’associazione, del rimando, della citazione poetica, dolorosa, impotente, stregata: l’intuizione visionaria, apodittica, ”sfolgorante” di Franz Kafka.
 
«… ogni silenzio, lascia intravedere ombre di oscurità e di mistero, di fascinazione e di sfida, di salvezza e di disperazione: come nella parola sfolgorante di Franz Kafka: “Ma le sirene hanno un’arma ancor più potente del loro canto  ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile, che qualcuno si possa salvare dal loro canto, ma dal loro silenzio certo no”». (pp. 173-74)
 
Per un bibliofilo, questo testo è un dono sfarzoso, oltre che utile a vincere la solitudine. Mi viene in mente Henri Ey, circondato di libri, lo psichiatra catalano celeberrimo “custode” della biblioteca parigina del “Saint Anne”, au premier étage du Pavillon de l’horloge, ora a lui intitolata. Per un amante dei libri, che li serba coltivando segretamente una passione feticistica (e io in una certa misura ne sono affetto), non solo è importante la datazione dell’oggetto, il contenuto del volume, le etichette, i timbri, ma anche la qualità della carta, i caratteri della stampa, il profumo che traspira quando lo si sfoglia, l’abito, la morfologia esteriore, la rilegatura, la copertina di parata…
Subito colpisce (mi colpisce) l’immagine di Sant’Orsola ritratta sulla copertina, non tanto perché evoca a me affetti tenerissimi della città di Genova, dove è conservata l’opera di Francisco de Zurbarán, che la raffigura. Una Genova ferita che, vituperata dal Poeta senza colpa specifica se non quella di aver generato Branca d'Oria («Ahi Genovesi, uomini diversi / d'ogne costume e pien d'ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi?» (Inf. XXXIII, 151-153). Quando scrivevo codesta recensione, era sott’acqua, purtroppo, e nel fango per la terribile e ferale sciagura alluvionale che li afflisse nel novembre 2011. Sant’Orsola, mi colpisce piuttosto, perché tocca la mia anima giovanile. Mi coinvolge, infatti, doppiamente perché essendo io nato e cresciuto a Bologna per i primi sedici anni, capitava frequentemente (per incidenti dovuti alla eccessiva vivacità adolescenziale) che fossi accompagnato da mia madre al pronto soccorso del “Sant’Orsola” (lo storico Ospedale felsineo del XVI secolo, che oggi chiamano “Azienda Ospedaliero-universitaria Policlinico “S. Orsola-Malpighi”). Codesta santa bretone del IV secolo, ritratta anche da Benozzo Gozzoli, si dice parlasse con messaggeri divini, cui chiedeva aiuto per sottrarsi allo sposo, che non amava, impostole dal padre. Con migliaia di compagne, prese a migrare per il continente europeo, per mare, per monti, per passi alpini, per laghi, per fiumi, per la Via Francigena verso Roma e nuovamente di ritorno a Canterbury, inseguite dalla concupiscenza di molti re barbari del tempo, fu martirizzata a Colonia, con tutte le consorelle, da Attila re degli Unni. Vergine di eccezionale bellezza può essere ritenuta l’antesignana delle grandi migrazioni interne dell’Europa barbarica e dei primi pellegrinaggi verso Roma, capitale dei cristiani.
 
Scorrendo questo testo di Borgna, capita dunque d’imbattersi anche nei temi (acutissimi e cogenti) della migrazione, del cambiamento di cultura, di linguaggio, di contesto storico. Di trovarsi erranti, divisi, lontani dalla patria a scrutare mutamenti d’orizzonte antropologico, esperire stati d’animo di solitudine, e non certo casualmente: un altro grande capitolo delle solitudini dell’anima. Temi, quelli migratori, che mi hanno assorbito pressoché totalmente negli ultimi quarant’anni, come studioso e, in misura modesta, anche come protagonista, e tuttora mi vedono coinvolto. Ho lavorato, in qualità di “primario” nei manicomi dell’area cagliaritana, per un paio d’anni nei primi Settanta, dov’erano ricoverati con fittizie diagnosi psichiatriche importanti, ex emigrati che avevano fallito il loro progetto lavorativo all’estero ed erano rientrati sulla dimensione luttuosa della perdita, della sconfitta e della solitudine. Argomenti, quelli dell’abbandono del suolo natio (Heimat), della lingua dei padri, delle tradizioni degli avi, che mi hanno perfino condotto a trascurare la mia antica passione per la psicopatologia daseinsanalitica, non però al punto da non cessare di applicarla all’osservazione clinica, ogni qualvolta me ne fosse presentata l’occasione. Conservo ancora una benevola e lusinghiera recensione di Eugenio Borgna al mio testo Psicopatologia dei migranti, Lombardo, Roma 1992, che ebbe la cortesia di scrivermi, circa una ventina d’anni addietro, per la Rivista Sperimentale di Freniatria (RSF).
Fin dalla copertina, dicevo, il libro si rivela (sia pure indirettamente) prezioso suggeritore anche di tematizzazioni migratorie: ripetute, periodiche, perenni lacerazioni dell’anima e destini dell’umano, da quando l’uomo è comparso sulla terra. Mentore straordinariamente autorevole, il Borgna, non tanto perché (come posso leggere nella cortese dedica autografa, di cui ha voluto onorare me e Luigi Scapicchio per un recente articolo sul tema in discorso, comparso in “Psichiatri Oggi”) “integra” le solitudini da noi descritte (di migranti e anziani), ma piuttosto perché ne schiude orizzonti di senso più vasti, soprattutto sul versante dello sperare e del creare. Dopotutto, un libro, questo, è un quadro finito, un articolo, il nostro, è appena una gouache.
 
Scorrendo le pagine dall’ultima (la Bibliografia e l’Indice dei nomi che chiudono il capitolo “Nella invisibile ultrainteriorità del cuore”) alla prima (Ricordando anni lontani e felici, la dedica della memoria che si mette “In cammino verso il linguaggio delle solitudini” con l’inimmaginabile, vertiginoso esergo della Dickinson Forse sarei più sola / senza la mia solitudine), e viceversa, dal principio alla fine, per cogliere più efficacemente l’insieme dei più reconditi orizzonti delle solitudini spirituali, ecco comparire, in questo piccolo zibaldone dell’esistenza, poeti innanzitutto, ed epigrafi poetiche sull’abbandono, l’isolamento, la lontananza, il ritiro, lo stare da soli. Con particolare efficacia, e ripetutamente, l’autore sottolinea “le reciproche articolazioni tematiche fra psichiatria e poesia” – chiosando a conclusione delle sue riletture dei testi  poetici – “non si può non essere affascinati dalla radicale significazione che le intuizioni liriche assumono in ordine alla comprensione e alla chiarificazione di alcune esperienze psicopatologiche” (p. 114).
Sfilano, bardi, vates, antichi cantori, e poeti più vicini a noi, meno profetici, più oscuri, raccolti, enigmatici, dolenti, intenti a sondare le vibrazioni (o l’angoscia) della solitudine nelle pieghe, nelle falde più riposte della loro interiorità. Sono loro in persona, che vengono alla ribalta a parlarci della solitudine, della loro solitudine. E codesto sentimento (potente e indispensabile compagno dell’essere) affiora dalle loro parole, rime, canti, versi celebri e meno noti. Risuonano Emily Dickinson, Ingeborg Bachmann, Antonia Pozzi, Celan, Goethe, Hölderlin, Leopardi, Petrarca, Rilke, Shakespeare: Borgna li esibisce in un suggestivo avvicendamento, alternandone citazioni, memorie, passi, tratti di vita. Ma anche rappresentazioni, ci propone l’autore, persone, presenze, immagini, film che ci dicono intorno ai tormenti dell’anima. E “Psichiatrie”, sì anche “psichiatrie”, meno remote alla psiche, all’anima, di quanto non lo siano le cosiddette neuroscienze. Scopriamo, infine, una autentica perla sulla poesia di Silvano Arieti. Si, proprio il professore pisano, esule in America a seguito delle leggi razziali antiebraiche, l’autore dell’imponente “Manuale di Psichiatria”. Una gemma, svelata da Borgna, che riportiamo per la suggestiva leggerezza delle citazioni, che ci consentono di librarci alti con lo spirito, ancorché prigionieri della finitudine del nostro soma (sema)
 
« “Per me, la poesia è una di quelle sintesi magiche che ci fanno superare la vita quotidiana e trovare bellezze insperate e verità insospettate. Questo superamento non significa il rifiuto del mondo. La magia ci fa riscoprire, ritrovare con Thomas Gray le gemme delle oscure inesplorate caverne dell’oceano, e dissolvere con Richard Lovelace le sbarre delle gabbie ed i muri delle prigioni. È la magia che attua una sublime metamorfosi quando, col poeta di Stratford-on-Avon, ciascuno di noi ‘potrebbe essere racchiuso in un guscio di noce e sentirsi un re dello spazio infinito’.”  » (p. 114)
 
Codesto clima letterario rammenta non solo la poesia surrealista di Bohumil Hrabal, ma ancor più la sua prosa bizzarra, antieroica, grottesca di Una solitudine troppo rumorosa. Ma soprattutto (per una strana sinossi dell’anima, è/sono possibili?) non è improbabile che faccia capolino nella mente di chi legge, la vita di Hanta, il testimone della vita e della morte dei libri, quel grottesco protagonista che lavora, silenziosamente solitario, in un macero fragoroso, pressando libri
 
(“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari”)
 
E mentre li schiaccia, quei libri, Hanta, la sua anima, è come se ne mandasse a mente le storie, ne succhiasse l’essenza, ne distillasse la sapienza. Tal quale, pare adattarsi la metafora letteraria del maceratore di libri dello scrittore moravo Hrabal, all’ultimo libro di Eugenio Borgna sulla solitudine dell’anima che, certo, non può né perire, né finire al macero, almeno per chi è dell’avviso di crederci, nell’anima.
 
Una lunga teoria di figure della solitudine, sono contemplate dall’autore (col suo magico lituo), analizzate, studiate, proposte variamente, anche come preambolo della tristezza e della depressività. C’è la solitudine dell’anacoresi, quella della clausura, la reclusione volontaria della meditazione, quella dolorosa delle situazioni abbandoniche, o quella tragica di chi la subisce per esperienza autistica. Ma c’è anche chi fugge la solitudine per febbrile spinta nell’oblatività mondana. Figure, persone, protagonisti, interpreti, (variamente clamorosi e clamorosamente silenti nei loro dialoghi con la propria anima) tutti molto familiari a quelli della salute mentale. Si tratta di Giganti fragili e piccoli Titani colmi della loro “più alta delle solitudini” (come titola un suo appassionato romanzo Tahar Ben Jelloun): solitudine, eppure, intenzionata e indefettibilmente volta a recare conforto e speranza agli ultimi; per tutti, Teresa di Calcutta, di cui s’è detto sopra.
L’essere, (quello/i che l’autore menziona) è celato nel pudore di una penombra di vibrazioni dell’anima, più o meno assorta e solitaria, meditativa e creativa. Le solitudini, la spiritualità di codesti personaggi, ciascuna delle loro esistenze e delle loro opere, son tratti, da Eugenio Borgna, (delicatamente, e in ognuna delle loro irripetibili originalità) e condotti sotto la luce abbagliante della-testimonianza-scritta, a sfilare fulgidamente sul proscenio della ribalta della vita. Riconosco – tra i tanti che mirabilmente racconta in intimità con l’anima (la propria e l’altrui) – quelli a me più cari.
 
Georges Bernanos (1888-1948), aspro, errabondo, controverso scrittore, dapprima monarchico, poi fra gli ispiratori della Resistenza in Francia, scrive febbrilmente, ormai condannato dal male, pagine memorabili [Madre Enrichetta, la vecchia priora, Madre Maria Teresa di S. Agostino, la nuova priora e soprattutto la novizia Bianca dell'Agonia nei Dialoghi delle carmelitane, ispirato da L'ultima al patibolo (1931) della scrittrice tedesca Gertrud von Le Fort (1876-1971), all'origine del film omonimo del 1960] sulla paura, sul martirio, sui peccati dell’anima, sul morire, che rinvia all’arbitrio della condanna a morte (Il Terrore, i sedicenti Comitati di salute pubblica, i Robespierre di turno, le ghigliottine, le proscrizioni, gli Émigré…) e all’insensatezza di tutti gli olocausti. I fatti rivoluzionari del 1794, e la ghigliottinizzazione delle sedici “Carmelitane di Compiègne”, ree di essersi rifiutate di abiurare la loro fede, ci rammentano (e inverano) l’affermazione foucoldiana a proposito della dissidenza nell’URSS che “il compito di condurre gli individui nella vita quotidiana attraverso un gioco di obbedienza generalizzata che assume la forma del terrore” ha un fine preciso: quello di terrorizzare per governare, e governare terrorizzando. Al contrario ciò rivela che il terrore non è soltanto frutto di fanatismo di pochi occasionali reggitori delle sorti pubbliche, poiché – “non esiste solo quando alcune persone comandano altre e le fanno tremare, ma regna quando anche coloro che comandano tremano, perché sanno di essere presi a loro volta, come quelli su cui esercitano il potere nel sistema generale dell’obbedienza” [2].
 
Thomas Mann [3], nei Buddenbrooks, coglie, nel dialogo tra Thomas, il maggiore, l’erede della fortuna dinastica di una famiglia tedesca alto-borghese e la sorella Tony, a proposito di Christian, il fratello minore, le inquietudini per gi eventi che si preparano (premonizioni sinistre dello spirito del tempo: fine ottocento, decadenza della elite commerciale di Lubecca). Non si può non vedere in quest’opera giovanile (la prima, dello scrittore: ha 26 nni e il declino dell’assetto sociale che descrive, e di cui avverte acuta nostalgia è ormai avviato alla conclusione) un rinvio esplicito all’Europa dei regimi totalitari che si sta approssimando all’orlo del baratro della seconda guerra mondiale. Il romanzo di Mann, è, in un certo senso profetico. Borgna ha ottime ragioni per richiamarlo. Nondimeno, posto che la via maestra per l’indagine interiore sulla solitudine dell’anima, sia l’introspezione – lasciando in secondo piano “considerazioni di matrice psicopatologia, o psicologica” – egli vuole innanzitutto sottolineare che
 
« … Thomas Mann […] nei Buddenbrook […] ci dice cose tuttora attualissime e, anzi, sconvolgenti per la loro modernità sugli sconfinati confini della interiorità, e sulle influenze che nella nostra vita discendono dalla ricerca degli orizzonti di senso delle esperienze vissute, delle risonanze soggettive agli avvenimenti, che si hanno in noi ». (p. 20)
 
Vale qui, forse, la pena di aprire un inciso. Sulle questioni delle solitudini dell’anima, delle perdite, dei lutti, del dolore, delle infinite crudeltà umane non si può non parlare della guerra, delle due guerre mondiali, di entrambe. In particolare, non può esser taciuto, dal punto di vista fenomenologico, segnatamente daseinsanalitico, ciò che è successo durante l’interguerra, ossia tra la prima e la seconda. Anche dopo, forse, allorché si registrarono radicali e improcrastinabili urgenze di riscatto e di rinsavimento dell’umano. Borgna vi fa cenno, vi allude, più o meno esplicitamente, ed ogni vicenda, ogni testimonianza, ogni parola scritta degli autori da lui citati possiede un filo risso con le vicende più critiche, più dirompentemente patogene nei confronti dello spirito (le jaspersiane situazioni-limite), accadute ed esperite nel cosiddetto “secolo breve”.
 
Vladimir Jankélévitch (1903-1985), nato a Bourges, la Gallia di Vercingetorige, da ebrei russi immigrati, insegnante di francese a Praga (1927-1932) nel periodo preparatorio delle persecuzioni razziali, studioso di Bergson, pianista e musicologo di acutissima sensibilità, resistente, sessantottino convinto, professore di filosofia morale alla Sorbona, impareggiabile narratore di un sentimento come la nostalgia, ma anche del ri-sentimento come impossibilità dell’oblio (Le Pardon, 1967), come eco indimenticabile dell’orrore verso coloro che sono rimasti inattivi, non si sono opposti e hanno dimenticato il male (la shoah, il disastro, l’olocausto, lo sterminio) pur avendolo visto e conosciuto in tutta la sua impietosa, meticolosa, determinata ferocia, è citato quel tanto che basta per farci apprezzare la sua raffinata analisi metaforica dei silenzi e delle solitudini.
Questo il commento di Borgna a due suoi testi famosi: La musica e l’ineffabile. Bompiani Milano, 1998 e, La morte. Einaudi, Torino, 2009
 
«… La solitudine è una metafora del silenzio, e il silenzio una metafora della solitudine: l’una intrecciata con l’altra e l’una distinta dall’altra. La solitudine è un’esperienza interiore che non è possibile non rivivere, almeno in alcune ore della nostra vita, e che è facilmente oscurata dalle molte maschere che, scendendo sui nostri volti, la nascondono agli occhi degli altri. La solitudine nella sua dimensione metaforica, è una condizione ineliminabile della vita; e in essa si riflettono desideri di riflessione e di contemplazione, di tristezza e di angoscia, di silenzio e di preghiera, di attesa e di speranza. Ma nella solitudine non viene mai meno lo slancio vitale che ci porta ad ascoltare quello che avviene nel mondo, e ad essere in consonanza con i valori della vita e della solidarietà; senza rimanere imprigionati nelle maglie aride e prosciugate dei nostri io: del nostro egoismo ». (p. 26)
 
« … Le vertiginose archeologie della solitudine, mai esaurite dal discorso della psichiatria e della filosofia, non si possono rivivere se non con il linguaggio delle metafore e della immaginazione: come è stato quello di Vladimir Jankélévitch: di questo filosofo ebreo dagli sconfinati orizzonti di pensiero e di poesia: ai quali guardare quando le speranze infrante dilaniano il nostro cuore, e hanno bisogno di aiuto». (p. 27)
 
Simone Weil (1909-1943), parigina di facoltosa famiglia ebraica, padre medico, emula di Francesco d’Assisi, insegnante di filosofia che si rifiuta di mettere i voti agli alunni, scandalosamente ascetica perché dona il suo stipendio, operaia alla Renault, attivista sindacale, antifranchista nella guerra civile spagnola, convertita ad Assisi, mistica della povertà, può essere compresa nella sua interezza e nella complessità del suo pensiero solo attraverso la sua precipua passione per il tema della ragione, come scrive Federica Negri. Si spegna di tubercolosi all’età di 34 anni. Borgna, quasi ad esplorarne la vastità spirituale ostinatamente e perennemente aperta ad incontrare l’alterità, le dedica un capitolo intitolato I confini della solitudine. Eccone alcuni stralci.
 
« …Nella vita e nella morte di Simone Weil, […] e nei suoi testi, siamo indotti ad intravedere come in uno specchio, le infinite figure del dolore, della sventura, della solitudine, e della impossibile speranza. Fra le sue pagine più dilaniate dal dolore, dal suo dolore e dal dolore degli altri, rivissuto come suo, ci sono quelle che riemergono dall’esperienza lavorativa nelle officine automobilistiche della Renault a Parigi ». (p. 52)
 
La solitudine, il silenzio, favoriscono l’introspezione, la meditazione, affinano la capacità di cogliere l’essenziale di sé e dell’altro, il dolore soprattutto, di sublimare il proprio: Simone Weil accede all’esperienza mistica. L’atmosfera di queste riflessioni riecheggia nelle pagine intensissime dello starec Zosima (che prega per i peccatori del mondo) sull’essenza del monachesimo, della solitudine ascetica e della preghiera, ne I fratelli Karamazov. Il novizio Alioscia Karamazov, resta turbato, sconvolto all’idea che si arrivi a pensare di poter espiare per le “colpe” degli altri. I temi soverchianti della responsabilità, della colpa e dell’espiazione sembrano (sono) raggrumati nella vita di questa donna, spenta dalla tubercolosi “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Proviamo a rileggere Borgna, anche sull’essenzialità dell’amicizia, con queste suggestioni nella mente.
 
« C’è una solitudine che, come stato dell’anima, nasce, e rinasce, in noi di giorno in giorno, di ora in ora, sgorgando dalle situazioni in cui siamo immersi, ed è la solitudine delineata da Simone Weil con la sua prodigiosa intuizione dell’indicibile e dell’inesprimibile. Come in queste parole: “Non lasciarti imprigionare da nessun affetto. Preserva la tua solitudine. Il giorno, se mai verrà, in cui ti fosse dato un vero affetto, non ci sarebbe opposizione fra la solitudine intima e l’amicizia; anzi tu potrai riconoscerla proprio a quel segno infallibile. Gli altri affetti debbono essere severamente disciplinati” […]. C’è una solitudine che si costituisce, direi, come una stagione, più o meno breve della nostra vita nella quale siamo indotti a fuggire dalla esperienza di un mondo che ci sembra divorato dalla follia dell’indifferenza e della distrazione, della banalizzazione delle cose essenziali della vita e della perdita dei valori; ed è la solitudine che si confonde con l’esperienza radicale e inestinguibile dell’amicizia, e che ci assedia con in suoi inesausti orizzonti di senso e con le sue nostalgie laceranti di silenzio». (p. 25) 
 
Ingmar Bergman (1918-2007), inarrivabile regista svedese dell’introspezione, della colpa, dell’eros e del tanatos, racconta (mette in scena, rappresenta) la storia di quattro donne in attesa della morte di una di esse, nell’intensità di Sussurri e grida, 1971. Fra i preclari della cinematografia mondiale, nativo di Uppsala (non a caso città di profondi studiosi del mondo terreno, Carolus Linnaeus, e osservatori del mondo stellare, Anders Jonas Ångström), Bergman ci parla degli stati d’animo di chi vive le fasi terminali di malattie inesorabili, della morte che alita intorno a chi assiste questi malati, delle attese di morte, delle angosce e dei silenzi mortali che tutto, ineluttabilmente, sembrano avvolgere. Borgna è interessato ad “alcuni radicali elementi tematici del film” e segnatamente al “mistero della solitudine, il mistero degli sguardi che rinascano dagli occhi, il mistero del vivere e del morire”.
 
«… vorrei cogliere – scrive – gli ultimi orizzonti di senso del film: quelli che la malattia mortale, e la immensa sofferenza che ad essa si accompagna, non confluiscono in una radicale e arida solitudine-isolamento quando dalle aree infinite dell’anima rinascano i vasti e indelebili quartieri della vita interiore e della vita emozionale, dell’amore e della solidarietà, così come sono stati da Bergman rappresentati nella stremata e luminosa figura di Agnese». (p. 31)
 
Dunque, utilizza le immagini del film proprio per continuare (“il mio discorso”) il suo tragitto lungo i sentieri (gli heideggeriani Holzwege) della solitudine.
 
«… Al tema della solitudine si associa nel film quello del linguaggio del corpo vivente: il linguaggio degli occhi e degli sguardi, dei volti e dei gesti, che i primi piani ci fanno cogliere nelle loro sconvolgenti dimensioni emozionali. Sono volti, e sguardi che ci immergono negli abissi del cuore umano: nel dolore del corpo e nel dolore dell’anima, nell’angoscia e nella tristezza, nella inquietudine e nella passione, nella gioia talora e nella disperazione, nel sorriso e nelle lacrime, nell’attesa e nella speranza». (p. 32)
 
E questa esplorazione della solitudine – nel caso specifico, imputabile alla malattia che avanza spietatamente reclamando il suo doloroso tributo: la distruzione e la perdita di un corpo umano, strappato alla consuetudine familiare ostentatamente affettuosa (in realtà conflittuale e rancorosa, come speso accade, quando non sia glaciale, arida o superficiale, come nel film) delle due sorelle (Karin e Maria) in visita, che assistono variamente alla morte di Agnese – Borgna la fa a modo suo. Un modo vibrante, lirico, alato, ma allo stesso tempo spietato nell’analisi di sentimenti umani, scollati e individuati nel magmatico universo emozionale. Lo fa come se un esperto anatomista incidesse, col bisturi del logos, sulla colata lavica dei ricordi, o se le isolasse, codeste risonanze dell’anima, per evidenziarle, seguendo ignoti piani di clivaggio del sentire umano, solo a lui noti, complice la rilettura di un diario, quello di Agnese, ritrovato da Anna, la quarta donna del film, la fedele, amorevole e materna badante. Rileggiamone un passo
 
«… è negli sguardi e nel volto di Agnese, che i linguaggi del corpo assumono una tensione e una lacerazione di indicibile incandescenza; e insieme una vertiginosa metamorfosi nel corso della vita. Dal volto che al primo flashback è quello, bellissimo, di una adolescenza ferita dalla timidezza e dalle incomprensioni, dalla solitudine e dalla nostalgia, al volto che grida nel silenzio e nel dolore, nell’angoscia della morte e di morire, chiedendo disperatamente aiuto nella sua solitudine: si muore soli. Ma c’è infine il volto dell’ultimo flashback: quello che rinasce, nel lago umbratile e doloroso della memoria, della dimensione perduta del passato, quando, nella temporanea remissione della malattia, e le parole del diario lo ricordano, le tre sorelle si ritrovano vestite di bianco nel grande parco; e il volto di Agnese, è l’ultima immagine del film, risplende della luce degli occhi che si aprono all’infinito, e dello stupore di un volto che testimonia di una solitudine, e di una sofferenza, trasfigurate dalla gioia e dalla speranza». (p. 32-33)
 
Cosa si può dire di questa competente, sontuosa critica d’arte di Borgna ad un’opera d’arte del regista svedese. Al di la delle note di regia, utili per leggere le intenzioni dell’artista e per interpretare il linguaggio delle immagini, nelle situazioni terminali di malattia, contrappuntate dai rimpianti delle felicità trascorse, della salute perduta, va senz’atro lodato l’affresco reso da Borgna con passione e partecipazione intensa. Da queste sue pagine se ne riporta una narrazione su un possibile volo dell’esistenza, quello di una malattia el corpo e della disperazione dell’anima, che resta pur sempre un fremito d’ali di farfalla, come scrive il poeta giapponese Bakin, al pari di una vertiginosa metamorfosi come non meno poeticamente dice il nostro. E questo volo drammatico dell’esistenza, rappresentato per immagini dal film di Bergman, parte dall’inquadratura del volto radioso di Agnese adolescente, per sostare, indugiare e concludersi su quello di Agnese morente che “invoca la presenza e l’aiuto della madre ma solo Anna risponde al suo grido disperato, e la stringe a sé in un ultimo gesto di amore e di pietà”.
Vengo via con un volo eidetico, e mi distolgo, per un attimo, dalla lettura, pensando ad un film più recente sul registro della religiosità, quello di Philip Gröning Il grande silenzio (Die grosse Stille, 2005) in cui il tempo silenzioso è scandito dallo scorrere delle stagioni, secondo le grandi leggi di madrenatura.
 
Con Sebald si entra nel vivo dei temi della memoria storica delle libertà dello spirito, conculcate per motivi abietti e insensati, nel secolo scorso. Nel cuore delle solitudini dell’anima, delle torture, delle feroci afflizioni, dell’annientamento “programmato e selezionato” dei corpi, fin qui, appena richiamati, seppure indirettamente nella rassegna di Eugenio Borgna sui tormenti dell’anima. Orrori inimmaginabili, indicibili, eppur commessi, dunque indimenticabili, perpetrati per odi razziali ed altre crudeli insensatezze verso ogni diversità, in nome di presunte “superiorità”. Superiorità inverosimili, di un ancor più incredibile contagio paranoicale collettivo, di qualche milione di ottenebrati seguaci di falsi sciamani (si qualche milione di europei, un’opinione pubblica credulona, ipnotizzata dall’arma micidiale della fabbrica del consenso).
La dimostrazione scelta da Borgna, e non poteva esservi scelta migliore, è caduta su Austerlitz un romanzo un po’ particolare di Sebald. GMW Sebald uno scrittore tedesco nato in Baviera (Wertach im Allgäu) e morto in Inghilterra. È certamente casuale, ma forse non privo di qualche significato, notare che, il 18 maggio 1944, giorno in cui vedeva la luce il piccolo Sebald, le avanguardie del generale Władysław Anders piantavano la bandiera polacca sulle macerie dell’abbazia, al termine del secondo leggendario assalto della cosiddetta "Operazione Diadem", (la quarta battaglia di Montecassino); undici mesi prima che Hitler si sparasse nel bunker della cancelleria, tra le macerie di una Berlino in fiamme.
La biografia di Sebald è semplice e coerente con le sue sensibilità. Preferiva non usare i suoi nomi di battesimo, Winfried Georg Maximilian, perché detestava in particolare il primo, ritenendolo un "vero nome da nazista". Fu in disaccordo col padre George che si arruolò nella Reichswehr, le forze armate tedesche della repubblica di Weimar nel 1929, e vi rimase anche successivamente, sotto il nazismo, quando l’esercito mutò il nome in Wehrmacht, finché fu fatto prigioniero e liberato nel 1947. Il giovane Sebald ebbe, al contrario, un ottimo rapporto col nonno che in pratica fu il punto di riferimento della sua adolescenza. Scrittore elegante, raffinato, malinconico, elegiaco, metafisico, a tratti, ha bisogno di corredare i suoi testi con documentazioni fotografiche: qualcosa di molto diverso da un vezzo snobistico e di meno patologico di una ossessività compulsiva. Nobel mancato, scarsamente popolare (non che di ciò si curasse), da leggersi con a fianco l’enciclopedia, un libro di storia contemporanea, un "Bignami" di filosofia e alcuni vocabolari. Ha insegnato letteratura tedesca prima a Manchester e poi a Norwich, dove è deceduto nel 2001, a cinquantasette anni in un incidente automobilistico, sembra per un infarto del miocardio, mentre era alla guida con a bordo la figlia Anna.
Spirito inquieto, quasi apolide scriveva in lingua tedesca, ma detestava la Germania nazista. Emigrò in Inghilterra nel 1963 e vi si trasferì definitivamente nel 1970, era sposato dal 1967. Prese ad interessarsi di immigrati. Studiava (e inventava) la storia di personaggi che, come lui, cercavano, in terra straniera, di orientarsi criticamente rispetto alle vicende politiche che, nel suo caso, tormentarono la Germania nella prima metà del XX secolo. Sebald non era ebreo, ma restò particolarmente colpito al fatto che gran parte dei tedeschi, a distanza di pochi anni, ignorasse le persecuzioni razziali e le immagini dell’olocausto. Il romanzo "Emigrati" (Die Ausgewanderten, 1992; Gli emigrati, Bompiani, 2000), pare una testimonianza esemplare, di questa presumibile, sensazione di onta e assunzione di colpa, inemendabili entrambi, delle quali si sentiva investito al posto dei suoi concittadini. Non è qui il caso di parlare di questo testo; nondimeno, la tematica dell’europeismo senza frontiere, del cammino a piedi, delle osservazioni ironiche e pungenti, della ricerca di senso dell’esistenza quotidiana (e dei suoi antefatti storici) è presente in quasi tutta sua opera, non meno di quella della necessità di serbare memoria storica delle persecuzioni antiebraiche della ferocia nazista e di ciò che Anna Arendt definirebbe La banalità del male.
Ecco “l’orologio ridicolo e mendace” di Jacques Austerlitz menzionato da Borgna
 
«”Un orologio mi è sempre sembrato qualcosa di ridicolo, qualcosa di mendace per antonomasia, forse perché, per un impulso interiore a me stesso incomprensibile, mi sono sempre ribellato al potere del tempo escludendomi dai cosiddetti eventi temporali, nella speranza – come penso oggi, disse Austerlitz – che il tempo non passasse, no fosse passato, che mi si concedesse di risalirne in fretta il corso alle sue spalle, che la fosse come prima o, per meglio dire, che tutti i punti temporali potessero esistere simultaneamente gli uni accanto agi altri, cioè che nulla di quanto raccontala storia sia vero, che quanto è avvenuto non sia ancora avvenuto, ma stia appunto accadendo nell’stante in cui non ci pensiamo, il che naturalmente dischiude peraltro la desolante prospettiva di una miseria imperitura e di una sofferenza senza fine”». (p. 35)
 
Ed ecco, come corollario del tempo cronologico e di quello vissuto, la nozione agostiniana del tempo unico dell’essere: fluente, embricato nel prima, nell’ora, nel dopo, nell’eternità, nozione e percezione eidetica cara a Borgna.
 
«… Il passato, il presente il futuro si intrecciano e si lacerano, si frantumano, senza che sia possibile coglierne la ragioni: e, ancora, memoria e speranza, passato e futuro, si mescolano l’una con l’altra: senza che sia possibile distinguerle. Ma, in questo modo crollano le certezze storiche, della storia di ciascuno di noi e della storia come scansione della vita, e non si sa nemmeno più se ci confrontiamo con qualcosa che è realmente accaduto, o con qualcosa che non è mai accaduto. E la conclusione di questo discorso è quella che una miseria imperitura e una sofferenza senza fine sigillano il mistero della nostra esistenza. In ogni caso, è la sconfitta del tempo dell’orologio, e la vittoria del tempo vissuto». (p. 36)
 
Austerlitz, il professore di storia dell'architettura, un po’ visionario, inventato da Sebald, alto, dinoccolato, zainetto in spalla da ricordare Wittgenstein, emigrato a Londra. Vi è giunto bambino, via mare, nella seconda guerra mondiale, con un gruppo di bambini ebrei polacchi, separati dalle madri condotte a morte, in quell’indimenticabile genocidio che si ricorda come olocausto. È rimasto orfano di tutto, è cresciuto privo di radici. È solo, in un appartamento disadorno, in attesa che affiori il suo passato dalle dolorose ferite ustorie delle persecuzioni razziali del nazismo. Nel romanzo – un po’ affastellato di pensieri che ritornano da specchi infranti della memoria passata – un libro disomogeneo, febbrile, lacerato, diviso in tre parti, succede ad un certo punto che arrivi il momento in cui il protagonista coglie (afferra, sorprende, carpisce) un dialogo tra due amiche in cui una ricorda all’altra
 
“la schiera di persone, tra le quali c’erano vecchi e bambini, gente semplice e gente distinta, che veniva avviata lungo gli strazianti sentieri della deportazione; e ciascuna di esse portava il suo numero di trasporto legato con lo spago intorno al collo, e presto sarebbe scomparsa nel silenzio e nell’oblio […] Agáta, si rivolge a Věra: indicandole un modo esile e impalpabile, segreto e luminoso, di non abbandonarla al silenzio e, soprattutto al drago dell’oblio quando, di li a poco, non ci sarebbe stata più.
 
Il commovente passo di Sebald riportato da Borgna è il seguente
 
Queste parole, di indicibile dolorosa bellezza di, Vĕra: “Dopo poco Agáta mi pregò di lasciarla. Al momento dell’addio mi abbracciò e mi disse: Laggiù c’è il parco Stromovka. Andresti qualche volta a fare una passeggiata per me? Un luogo così bello, che mi è sempre stato tanto caro. Magari se guardi nell’acqua scura degli stagni, chissà che in una bella giornata tu non veda il mio volto”.
 
Siamo dunque a Praga, al parco Stromovka. Come allora non rammentare anche il signor Theodor Mundstock, uscito dalla penna di Ladislav Fuks: un modesto e pavido ebreo che si aggira impaurito per le vie della Praga tragica e insanguinata del 1941; strade che è costretto a spazzare perché licenziato dal suo lavoro: quello di rappresentante della ditta «Manache Lowy. Canapa, corde e fili» per la discriminazione razziale.
È solo Mundstock, ineluttabilmente espunto (con altri ebrei) dal genere umano per arbitraria ferocia e insensatezza; è aggrappato alla “fragile zattera della solitudine”, granello di sabbia di una dolente duna umana, in attesa della deportazione in campo di concentramento, vissuta come una sorta di ananché. Un Mundstock qualunque, insignificante, “senza qualità”, anzi addirittura “ridicolo”, che nondimeno riesce ad inventarsi un’ombra di Dasein: “Mon”, l’ombra.
Come non pensare alla grande tematica husserliana della corporeità (la Leiblichkeit) e della coerenza nell’esperire il proprio vissuto temporale (Ricoeur), ripresa Bruno Callieri in Quando vince l’ombra: l’estraneità dell’occhio che scruta la propria identità (la mêmeté) intenzionalmente estraniata, osservata da fuori: il rovesciamento del corpo proprio che diviene alterità senza tuttavia tradire la fedeltà a sé stessi (l’ipséité). Una comparsa psicotica, quella di Mundstock, che viene giusto a parlare col suo doppio per vincere la paura e alleviare la solitudine della sua anima.
Terrorizzato dalla storicità incombente del reale, escogita per difendersi un gioco psicologico ironico, grottesco, delirante e si destoricizza. Il paradosso, l’ironia, l’assurdo metafisico della paura, soffia lontano da Mundstock codesta dolorosa paura del corpo e dell’anima.
Evaporandosi, quasi, per incantamento dell’essere, per intrusione psicotica della situazione-limite che volge altrove il suo pensiero, Mundstock può continuare a spazzare le vie di Praga, la sua città, invasa nel marzo del 1939 dalla Wehrmacht del “protettore” Konstantin von Neurath (lo spietato esecutore delle incredibili “leggi di Norimberga” del 1935) e ora martirizzata da Reinhard Heydrich, il "macellaio di Praga", che lo aveva sostituito per ordine di Hitler. E arriverà anche il peggio prima della liberazione dall’incubo: l’inaudito eccidio di Lidice (10 giugno 1942).
 
Austerlitz – il capofila citato da Borgna – richiama alla mente il piccolo cameriere di Bohumil Hrabal (Ho servito il re d'Inghilterra), il quale racconta di aver prestato servizio in Hotel viepiù importanti fino a preparare un pranzo incredibile al Negus, bramoso di arricchirsi. Ma contemporaneamente si trascina dietro il fantasma di Franz Kafka, l’orrida vertigine del quinto piano della “Maison Oppelt”, e ancora l’interminabile cammino di Robert Walser, e tutti quanti in fila: Austerlitz, Mundstock, il piccolo cameriere, l’insetto, il camminatore silente, si tirano dietro la mitteleuropa tutta, gli Imperi centrali il loro crollo e quanto ne è seguito, dittature e secondo crollo del mondo intero, compresi.
 
Codesti personaggi evocati da Borgna, drammatici, estatici, disperati, consolati, soli o in comunità, pressano, intrudono, irrompono con l’insistenza dei Sei personaggi pirandelliani, certamente con maggior discrezione e minor trambusto di parola, come più si addice ad ospiti della galleria del Silenzio dell’anima: François Mauriac; Simone Weil; Jean Guitton; Giovanni della Croce, il collega Jean Starobinski, tutti adeguatamente narrati col medesimo rilievo. Allora si vien presi dalla curiosità di tornare a rileggere i passi precedenti, magari anche solo per imparare, per proprio conto, a distinguere il mondo dei mistici da quello dei deliranti mistici e, forse anche a intuire le beatitudini dell’indiamento di pochi eletti. Volendo, da questo testo di Eugenio Borgna, si può
 
Una postilla.
 
« Il cuore ha le sue ragioni,
che la ragione non conosce »
(Blaise Pascal, Pensieri, 277.)
 
Ho lasciato per ultimo il tema pascaliano delle ragioni del cuore, non tanto perché esso non abbia, forse, almeno a mio avviso, una radicale e preminente importanza (antepredicativa della passione, del sentire, del cogliere l’autenticità?), ma perché Eugenio Borgna lo tratta alla fine del suo libro, come a voler suggellare la sua suggestiva, sfolgorante, appassionata “parabola” intorno alla solitudine dell’anima. Vuole “… tematizzare l’intuizione, la conoscenza a cui si giunge con le ragioni del cuore” e lo fa per bocca di Heidegger che commemora Rilke per il suo ventesimo anniversario scrivendo le seguenti parole:
 
“Quasi nello stesso tempo in cui visse Cartesio, Pascal scoperse la logica del cuore, contrapponendola alla logica della ragione calcolante. L’interiore e l’invisibile del cuore non solo è più interiore che il dentro della rappresentazione calcolativa e perciò più invisibile, ma abbraccia una regione più ampia di quella degli oggetti semplicemente producibili. Nell’invisibile ultrainteriorità del cuore, l’uomo è prima di tutto sospinto verso ciò che dev’essere amato: gli avi, i morti, l’infanzia, i nascituri”. (p. 182)
 
Per Blaise Pascal (1623-1662) nessun uomo sulla strada del conoscere può ignorare due ostacoli, due limiti, due finitudini dell’umano pensiero, in cui l’essere può, talvolta, smarrirsi o precipitare: l’inquietudine dell’infinito e la voragine del nulla. Nessuna scienza umana, sia essa naturale o spirituale, al pari dell’uomo, può ignorarlo, perché i prodotti della mente umana, la condizione stessa dell’uomo, ancorché possano, talvolta, dare l’impressione di infinitezza per la loro irripetibilità e di librazioni vertiginose sulle vette del sapere (la Hýbris di Odisseo che ascolta il canto delle Sirene), hanno un principio e un termine.
È possibile dunque – per il difensore dei Giansenisti, che pur giunge dalla strada dei numeri dei fluidi, dei triangoli – avere una conoscenza del mondo parziale, e ciò attraverso il sapiente dosaggio di due differenti ma complementari fondamenti del sapere.
L’esprit géométrique ossia la ragione analitica dei fenomeni scientifici, misurabili, verificabili, riproducibili, calcolabili in successione numerica, ma estranei all’uomo, insufficienti a comprendere la sua realtà. E l’esprit de finesse, ossia il pensiero indirizzato all’introspezione, all’analisi dell’esistenza, dei principi che pertengono l’ambito spirituale, i moti dell’anima. Ma per cogliere questo particolare movimento dello spirito, per “comprendere” la narratività dell’esistenza è indispensabile il contributo del cuore.
 
La conoscenza razionale, la ragione calcolante, e la conoscenza intuitiva, le ragioni del cuore, sono gli elementi costitutivi della conoscenza, in psichiatria, e non solo in psichiatria; e le une e le altre sono in un instabile equilibrio. Quando ci si confronta con esperienze emozionali, con situazioni-limite, come sono quelle della solitudine, e delle aree tematiche che fanno parte della solitudine, la sola conoscenza razionale non ci porta molto lontano; e sono le pascaliane ragioni del cuore, la intuizione, che aprono brecce nel castello interiore di situazioni apparentemente chiuse ad ogni comprensione. (p. 181-182)
 
La filosofia, la matematica, la geometria, la religiosità, la spiritualità di Pascal, si sprigiona da questi “pensieri” che sono straordinariamente anticipatori della corrente fenomenologica. Se ne accorgerà Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881), riflettendo su questa lezione, due secoli dopo, e  successivamente lo farà anche Martin Heidegger (1889-1973), per non citare che alcuni fra i maggiori, sono sopraggiunti dopo, tanto per continuare a cimentarsi sul tema della conditio humana.
 
Ma Eugenio Borgna, sempre garbatamente, ci richiama al nostro concreto: fare psichiatria e psicopatologia
 
«… Non c’è una sola psichiatria, certo, ma ci sono molte psichiatrie possibili: ciascuna di esse con un suo background teorico e pratico: conoscitivo e applicativo. Ciascuna di esse ha una sua ragione d’essere fondazionale e una sua storia: una sua articolazione, e una sua definizione, dei sintomi che si delineano nelle diverse forme di sofferenza psichica di malattia». (p. 167)
 
Con un ascolto e una parola gentili (entrambi) che diano veramente la dimostrazione di un prendersi cura con passione, il nostro, di recare sollievo, di tentare dì fare terapia psicologica, confrontandoci magari con un disciplinare che parta da
 
«… una psichiatria, quella che storicamente è chiamata fenomenologica, nella quale i modi di essere della vita psichica, incrinata o meno dalla sofferenza, sono considerati come incentrati sulla interiorità, sulla soggettività, di chi sta male, e come condizionati da una genesi multifattoriale: dalla presenza, cioè, di fattori talora biologici ma in ogni caso sempre personali e interpersonali: relazionali ». (Ibid.)
 
Su questo indirizzo, attento alla filosofia, si può fondare (è stata fondata, di Dasein in Dasein, ripartendo sempre da zero, ricominciando ad ogni incontro, come i principianti, eternamente, come fosse la prima volta, perché in effetti è una prima volta, ogni ascolto di cura e non solo) e lui, Eugenio Borgna, lo ha continuato a fare per tutta la vita, nella sua pratica clinica, nella sua relazione con l’alterità psicotica, particolarmente nella sua esperienza manicomiale. Su questo orizzonte fenomenologico, si diceva, è possibile immaginare ed è augurabile che si possa esercitare “una delle psichiatrie possibili… quella dei grandi maestri di una psichiatria” che abbiamo imparato a praticare e amare, come quella di Ludwig Binswanger, Viktor Emil von Gebsattel, Eugène Minkowski, Giovanni Enrico Morselli, Ferdinando Barison, Bruno Callieri, Kurt Schneider ecc. Ma sono già maturi quelli della quarta/quinta generazione.
E additatane la strada, di codesta pratica terapeutica di indirizzo, rispettosa dell’altro, insiste ancora Borgna, quand’anche la “cura” scelta, dovesse contemplare una fase farmacologica, non si limiterà ad esaurirsi in essa, ma sempre entro i confini di una più ampia relazione intersoggettiva “nutrita di dialogo e di ascolto: di introspezione e di immedesimazione, di partecipazione emozionale al destino, e al senso, dell’angoscia e della disperazione, della tristezza e della inquietudine del cuore”. Rammentandoci infine che
 
«… Questi modi di essere della cura non valgono solo nell’area della psichiatria, […] ma si riverberano anche nell’area delle nostre quotidiane relazioni di vita e in quelle delle relazioni che ogni medico dovrebbe con i suoi pazienti realizzare». (Ibid.)

Il dialogo condiviso, il transito della parola, la reciprocità dell’ascolto, il chiarore del ri-conoscimento, l’autenticità del colloquio (perché noi siamo un colloquio), questo è il punto nodale dell’esistenza, dell’esserci-con:, dell’Ich und Du, della Noità.
Il varco é qui? – si chiede Montale in mezzo al verso – (Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende …)” – nondimeno la memoria, come il dialogo, è deperibile se non è condivisa… e lei, la musa ispiratrice, ha dimenticato perché “altro tempo frastorna la tua memoria; dunque lo strazio della solitudine diventa grido inconsolabile del poeta – “Tu non ricordi la casa di questa / mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”. (Eugenio Montale, La casa dei doganieri).
 
La lunghezza e le divagazioni di questa recensione, sono eccessive, forse, ma quando si legge Borgna, si ascoltano le parole di Eugenio Borgna, i pensieri sgorgano facilmente dalla mente a riprova del fatto che Noi siamo un colloquio, proprio come lui ha titolato un suo libro del 1999. Quanto alla scelta di essere (fare) i medici dell’anima, anch’io sono perfettamente d’accordo con lui che “la psichiatria, e non solo la filosofia, ha bisogno della poesia”.
 
Per il resto, questo libro è colmo di autentiche ghiottonerie per menti che vogliano (possano e sappiano) ragionare, in periodi come questi in cui si ha spesso la spiacevole impressione di perdere il significato delle parole, la proporzione del dialogo, il senso dell’ascolto. In conclusione un’altra perla, un dono bellissimo di Eugenio Borgna che si aggiunge alla collana “I campi del sapere”. Per quanto mi riguarda, lo riporrò in uno spazio dedicato (il mio prediletto: quello della psicopatologia fenomenologica, della Daseinsanalyse, delle fenomenologie), della mia biblioteca, insieme alle altre sue opere, accanto ad Alterità e alienità di Danilo Cargnello che funge da capofila.
 
Note
1. Eugenio Borgna La solitudine dell’anima. Feltrinelli, “Campi del sapere”, Milano, 2011.
2. Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, tr. it. Paolo Napoli. Feltrinelli, Milano, 2005, p. 150.
3. Thomas Mann. I Buddenbrook. Garzanti, Milano, 2007. Traduzione F. Jesi S. Speciale Scalia. Titolo originale Buddenbrooks: Verfall einer Familie, 1901, Berlin.

 

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