CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

L’OMBRA DELLA SERA

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26 agosto, 2018 - 07:47
di Gilberto Di Petta
Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo
spinge le sue radici nel nostro essere di uomini,
 perché la si debba abbandonare tra le mani degli psichiatri.
 Romano Guardini
 
 Per me si va ne la città dolente
Per me si va ne l’etterno dolore
Per me si va tra la perduta gente
 Dante Alighieri
 
 
 
25 Agosto. Ultime ore dell’estate. Aria disfatta, di vacanze che terminano. “L’estate sta finendo…” cantavano i Righeira nel 1985 “E un anno se ne va. Sto diventando grande, lo sai che non mi va…”. Il refrain mi assilla. Ero studente di medicina, allora, e sapevo già che avrei fatto lo psichiatra. La 180 era uscita da sei anni. Nel grande Manicomio provinciale di Calata Capodichino c’erano ancora mille “ospiti”. Lo chiamavano, sinistramente, “Residuo”. Ci andavo a trascorrere diverse ore ogni settimana. Allora ero convinto, sulla scia di Kierkegaard, che solo la profondità della follia potesse spiegarmi l’enigma della vita. Sono passati trentatré anni da quell’estate. Sono ancora dentro la psichiatria.  Forse un po’ con la stessa illusione di allora.
Turno lungo di sabato in SPDC, 12 ore. Reparto, consulenze. Non può mancare il PS. La chiamata, infatti, arriva verso mezzogiorno. L’ora che neppure la meridiana segna, l’ora della luce perpendicolare, quando gli oggetti coincidono con la propria ombra. Scrive Starobinski :“L’ora di mezzogiorno è quella del demone e dell’acedia esasperata. E’ l’ora in cui la luce apparentemente trionfante incita l’attacco del suo avversario”. E ci siamo.  La collega a telefono è molto allarmata. Il paziente da poco giunto dà visibilmente in escandescenze. E’ rabbioso. Ci sono personale del 118 e carabinieri. Avverto gli infermieri, mi infilo il timbro in tasca, controllo di avere la penna e mi avvio. Al mio arrivo la stanza del codice rosso è scomposta, per non dire devastata. Un uomo giace supino, su un lettino, trattenuto da due infermieri del PS e da due operatori del 118 in tuta color arancio fosforescente. Ha una flebo liscia attaccata. Lo stato di agitazione era tale che hanno dovuto sedarlo con il midazolam. Adesso il suo respiro è profondo. Si approfitta dello stato di sedazione per eseguire una serie di accertamenti, ematici e non, tipo una TAC cranica. Dopodichè il paziente sarà trasferito in OBI per essere monitorato. Ne approfitto per scambiare due parole con i parenti presenti. Ci sono la moglie e la nuora, anzi, ex nuora, ex moglie del figlio. La moglie è una donna sulla sessantina, tarchiata, un incarnato scuro, capelli neri, sguardo socchiuso, occhio destro leggermente strabico. Mi sembra meno turbata dall’accaduto di quanto mi aspetterei. Qui si dice che è una “toma”, ovvero una che difficilmente si scompone. La nuora, invece, una donna bionda, giovane, molto carina, direi anche avvenente, con una sua dolcezza ed un’affezione nei confronti di questi ex suoceri, cui è rimasta legata e che conosce dall’età di 15 anni, per esservi “entrata in casa”, come si dice da queste parti, in occasione del fidanzamento ufficiale. Il paziente ha 66 anni,  di bassa statura, magro, corporatura atletica, calvo. E’ agli sgoccioli della sua professione di portiere di un Parco in un quartiere medio borghese della città nel quale ha trascorso più di mezzo secolo, poiché il padre faceva lo stesso lavoro. A detta della moglie la crisi violenta è divampata all’improvviso, come un incendio che si sviluppa rapido e indomabile: il paziente ha dato in escandescenze rompendo il proprio telefono cellulare, rompendo oggetti circostanti, urlando e tentando di aggredire la moglie stessa, che, vistasi disperata, ha chiamato le forze dell’ordine. Quindi il paziente si è scagliato anche contro i carabinieri. La scena si è svolta nell’appartamento del portierato. A detta della moglie nei giorni precedenti il paziente era agitato, ha risposto anche male a qualche condomino, cosa, questa, che contrasta con il suo stile discreto, ossequioso e deferente. Non riescono a spiegarsi in alcun modo questa drammatica escalation. Un tipo tranquillo, gentile, mite, mai una parola di troppo.



Il passaggio all’atto di una persona, soprattutto quando non è già nostro paziente, spesso coglie impreparati sia noi che i familiari o gli amici del paziente stesso. E’ molto difficile leggere, per chi sta intorno, l’ultimo segnale prima dell’esplosione. Mi congedo con i familiari e mi ripropongo di tornare a parlare con il paziente quando si sveglia. Ritorno, dunque, alla mia giornata, fatta di visite, parenti, spiegazioni, reparto, infermieri, dimissioni. Il sabato si consuma, lento, fino a che, verso le 19, il PS mi richiama dicendomi che il paziente finalmente si è svegliato. E’ tranquillo, un po’ disorientato. Vado ad incontrarlo. Sono curioso. Anche emozionato. Questa vicenda mi ha intrigato. E’ più disteso. Disponibile al colloquio. Gli esami, inclusa la TAC cranica, sono completamente negativi. Ha una polo, dei pantaloni corti, dei sandali, porta degli occhiali a goccia leggermente fotocromatici, stile anni Settanta. Non ricorda nulla dell’accaduto. O preferisce non ricordare. Forse ricorda solo che ha rotto il suo cellulare. Iniziamo, dunque, proprio dal cellulare. Con orgoglio mi precisa che non lo possiede più. Dopo che lo ha rotto. E non ne sente la mancanza. Sembra ossessionato dal fatto che tutti, ma proprio tutti, oggi stanno perennemente con questo cellulare in mano. Anche la moglie… Mi salta l’idea, per la delusione/rabbia che mette nel pronunciare queste parole: “Anche mia moglie” (mi sembra il tu quoque di Cesare a Bruto, suo figlioccio,  mentre anche questi lo pugnalava insieme agli altri congiurati) che sospetti che la moglie abbia una relazione extraconiugale. Decido di prendere, allora, il toro per le corna. Gli chiedo se è geloso. Dissimula, naturalmente, si schernisce, proprio alla maniera di tutti i gelosi patologici. Ma poi aggiunge che se la moglie ha un’altra relazione, in fondo glielo potrebbe anche dire. Che male ci sarebbe. Ne prenderebbe atto…Se ne farebbe una ragione… Certo, adesso che lui si sta facendo anziano, potrebbe essere plausibile che la moglie abbia una relazione con un altro. Ma basta saperlo. Che sono tutti questi sotterfugi? Venire addirittura a letto con il cellulare in mano, stare continuamente sui social. Essere svegliato, di notte, dal rumore dei messaggini che arrivano a raffica. E’ possibile che solo lui il cellulare lo usa solo per telefonare? Nella mia mente si formula, a questo punto, automaticamente, l’ipotesi che la crisi pantoclastica si sia stata scatenata sull’onda di una gelosia patologica, fondata su di una interpretatività paranoide del paziente. Nella sua mente si è consolidata, evidentemente, a poco a poco, un’idea prevalente, e cioè che la moglie lo tradisca, perché adesso lui è anziano e sulla soglia della pensione. Dunque virilmente decaduto. Mi domando se, alla base di tutto, pur non essendo lui un paranoico conclamato, non ci sia piuttosto una struttura di personalità inclinata comunque in senso paranoide, con sospettosità, diffidenza. Ad ogni modo, mentre lo ascolto e questa ipotesi prende corpo, faccio uno sforzo per non chiudere il diaframma, per non scattare su di lui una fotografia definitiva. Per non attaccarmici, come si fa con una pista che trovi quando non sai la strada, debbo fare uno sforzo di “sospensione del giudizio”.  Sento, cioè, che debbo mantenere il più possibile aperto un film dinamico.
Ricapitolando: un uomo senza precedenti psichiatrici che, in una tranquilla mattina di sabato, sul finire dell’estate, dà in escandescenze con una crisi pantoclastica tale da richiedere l’intervento di forze dell’ordine e 118 va esaminato bene. Senza facili imbocchi di pregiudizi. Del resto il paziente non è reticente, si esprime con proprietà di linguaggio, nonostante non abbia studiato. E’ padre di tre figli, tutti adulti. L’ultima, una ragazza ventottenne è il suo cruccio, diplomata, corsi vari, disoccupata, non fidanzata, vive con loro a casa. Il primo lavora fuori e di recente si è separato dalla moglie, altro cruccio. La seconda è sposata e sta per conto suo. Il cellulare: il cellulare lo opprime, è diventato il suo nemico, anzi, il simbolo di una contemporaneità indigeribile. Lo opprime il rapporto che tutti i suoi familiari, proprio i suoi familiari (compresa sua moglie e tranne lui) hanno con il cellulare. Anche la domenica, a casa, si badi bene, nel sacrosanto pasto domenicale che riunisce tutta la famiglia, come nelle migliori tradizioni del Sud, l’atmosfera è rovinata da questi cellulari. Si alzano da tavola, tutti, chi va di qua, chi a di la, e spesso egli si ritrova a mangiare da solo. Tutti stanno con il cellulare in mano, continuamente, anche la moglie.  Anche la moglie! Ma come, lui si alza di buon’ ora, esce presto la domenica, va a prendere il pesce fresco, fa colazione, compra il giornale, poi inizia il rito della cucina. Fino a che tutto è pronto, apparecchiato. E qui comincia il tormento. Perchè non si sa mai a che ora si mangia. Chi viene all’una, chi alle due, chi alle tre. Si aspetta. Capita che, alle cinque o alle sei, si sta ancora a tavola. Mi si visualizza l’immagine del quadro di Paul Claudel, la tavola sparecchiata, con la figura del mio paziente seduto, solo, mentre tutti gli altri sono presi dal mondo. Quasi come un ultima vestale, di fronte ad una famiglia in disfacimento, con l’espressione del disgusto. Callieri mi diceva sempre che l’immagine più evocativa del mondo melancolico è proprio la tavola sparecchiata : non più la piena soddisfazione del pasto consumato, ma i resti, scomposti, della grande, ultima occasione perduta. Egli, il paziente, vorrebbe fare tutte le cose per bene. Ma gli altri, sempre gli altri, e per giunta quelli a lui più cari, stravolgono le regole..le regole, tutte le regole. Mi viene in mente, a questo punto, di colpo, che mi trovo di fronte ad una struttura ossessiva di personalità. Portiere, preciso, puntuale, sussiegoso, formale, legato ai cerimoniali. Il cellulare rappresenta, evidentemente, l’intrusione repentina e disarmonica del caos del mondo esterno nella pellicola del suo mondo interno, un’intrusione illegittima dell’estraneo informe nell’intimità del suo mondo: una visibile foratura continua del controllo, che trasforma in un colabrodo di messaggi il contenitore che egli ha confezionato con accuratezza per una intera vita. Ma le cose stanno veramente così? Forse sto andando dietro ad un’altra suggestione? Provo, allora, a lasciare andare anche questa pista. Faccio ancora uno sforzo. Metto  da parte quest’altra pista. Torno sui miei passi.  Il colloquio continua. Gli chiedo di dove è originario. In genere, i portieri dei condomini borghesi venivano dalle periferie di campagna. Personaggi ambigui i portieri, per lo meno alcuni. Facce sornione e imperscrutabili, di quelli che sanno tutto e non sanno nulla. Soggiungo, di proposito, per stimolarlo, anche che nel suo lavoro deve averne viste tante. Mentre gli dico questa cosa penso, però, anche a me. Proprio l’altro giorno mi soffermavo a riflettere su quanti esseri umani ho visto negli ultimi trentanni, con quanti ho parlato di giorno, di notte, mentre il sole sorgeva e tramontava.  Penso a tutto quello che mi hanno raccontato di loro, delle loro vite. Penso a quelli che sono andati via lasciandomi i loro segreti, le cose che non hanno detto neanche alle persone più care.  Mentre penso queste cose mi avvicino di più empaticamente al mio paziente. Penso che in fondo entrambi, io e lui, abbiamo avuto a che fare un vita con degli esseri umani. Il portiere, o portinaio, è un lavoro in via di estinzione. In fondo come lo psichiatra. In un mondo globalizzato, informatizzato, dominato dall’occhio ubiquitario del grande fratello, che futuro ha più il portiere? In un mondo dove la mente non si sa cosa sia, entità indefinibile, dove le deviazioni comportamentali vengono adattate chimicamente, con opportune correzioni neurorecettoriali, dove la psicoterapia è una pratica costosa, lunga, dai risultati incerti, opinabile, dove la follia in fondo è collettiva, che senso ha lo psichiatra? Di fronte ad una follia liberata, istituzionalizzata, contaminante, pervasiva, eretta al palcoscenico mediatico che senso ha lo psichiatra? “Negli ultimi due decenni dello scorso millennio, le fragranze e le atmosfere che la psicopatologia sprigiona erano divenute il privilegio di una nicchia di conoscitori. In epoca di prodotti di fredde tecniche geometriche, algoritmi insapori e inodori, espressamente confezionati per palati globali, pubblicizzati da operazioni di marketing planetario, imposti dalla grande distribuzione, corredati da etichette che ne riportano il valore calorico, non le proprietà organolettiche, cioè l’impronta sull’anima, disegnati a tavolino per ottenere consensi, non per diffondere conoscenza ed emozioni. Emivita: il tempo di un aperitivo. Ma il vento, da qualche tempo, è cambiato.”(G. Stanghellini, 2015). Mi auguro che possa essere così. Intanto lo psichiatra, il traghettatore, il portiere dell’inferno, una figura polverosa, occhialuta, che sa di secolo dei lumi, di parrucconi cotonati alla Pinel e alla Esquirol, di facce barbute e severe come quelle di Kraepelin e di Bleuler, che senso può avere ancora? Che futuro può avere, nel pianeta delle scimmie tecnomorfe, un medico-umanista creato dall’Illuminismo, ora che tutto il portato dell’Illuminismo è naufragato?
Ma torno al qui ed ora. Siamo due uomini, in questo momento, in questa stanza OBI di un pronto soccorso, in quest’ora del giorno, in questo punto del mondo, che ragionano, in fondo, entrambi sulla loro fine, ovvero sulla nostalgia o sulla malinconia un “ruolo” che stanno perdendo. Mi dice, ad un certo punto, con gli occhi lucidi, il mio paziente, che lui è l’ultimo portiere. Sono di fronte all’ultimo dei Mohicani. Anche io, allora, sono l’ultimo portiere. Lultimo Mohicano. Le porte del mio reparto, come le porte degl’inferi, si aprono e si chiudono sui sommersi e sui salvati, su chi viene espulso e chi viene ripescato. Io adesso, ad esempio, debbo decidere se lui deve varcare le mie porte, o se posso aprire la porta e lasciarlo andare nel mondo. Vincendo la paura che faccia qualcosa a qualcuno. Alla moglie per esempio. Vedo già i titoli dei giornali: “Femmincidio annunciato. L’omicida trattenuto in pronto soccorso poche ore prima del fatto. Lo psichiatra non si è reso conto delle gravità che covava, neanche dopo la plateale esplosione del paziente”. Con lui la dinastia di famiglia si estingue, e il portierato scompare. Con la sua andata via, tra pochi giorni, egli non sarà più rimpiazzato. La perdita del ruolo, dunque, è così importante per quest’uomo? Ruolo, identità di ruolo, identità idem, direbbe Paul Ricoeur. Sempre la mia mente, che ormai è programmata come un dispositivo precaricato da trentanni di storie, di letture, di incontri, mi tira fuori un’altra griglia di lettura: forse sono di fronte ad una personalità premelancolica, alla Tellenbach. Come ho fatto a non capirlo da subito… Attaccamento al ruolo, conformismo, perdita catastrofica delle certezze legate alla stima degli altri con la perdita del ruolo. “Remanenz”, diceva Tellenbach, rimanenza, ovvero restare indietro al cambiamento. La sua è una costellazione di personalità cristallizzata contro il cambiamento. Che proprio l’irrompere violento del cambiamento, sancito dal pensionamento imminente, frantuma. Ci sta tutto: ordinatezza. scrupolosità, coscienziosità, eteronomia, ipernomia, includenza, rimanenza, essere in colpa, disponibilità e sollecitudine, non volere essere di peso agli altri. E’ perfetto il quadro...provo, adesso, un senso di (stupido) compiacimento psicopatologico. Sono di fronte ad un uomo che non riesce ad adattarsi più, perché ha perso la sua pelle, la sua maschera sociale. Che ha stirato, da tempo, al massimo le sue flessibilità interne.  Dunque ha fatto una depressione melanconica. La malattia della nostalgia, in fondo, appartiene a noi occidentali, perché è connaturata ad una civiltà che dall’origine corre verso il tramonto, lasciandosi per sempre alle spalle il suo paradiso perduto. Ma è anche, la malinconia, la malattia dell’autoconsapevolezza, che la cultura occidentale ha tenuto in auge almeno dal V secolo a C. Con la sofferenza della malinconia siamo proprio al cuore dell’essere uomini in occidente, come scrive Bell in Melancholia (The Western Malady, 2014). Dunque di fronte a me un semplice portiere incarna la dolorosa coscienza che Aristotele dipana nel probema XXX?  Egli, a ben vedere, è l’uomo del tempo che fu: nel calcio è tifoso del Cagliari, perché lui del calcio è legato a certi virtuosismi che prima si vedevano, adesso non si vedono più. Gigi Riva, per esempio, “rombo di tuono”, è rimasto per sempre il suo eroe. “La mia generazione si è formata in un certo modo, io sono di un’altra generazione…Io sono uno scugnizzo, finito in un collegio. Io mi occupo di 31 vecchietti del Parco, rimasti soli, nell’inferno dell’estate, con i badanti, novantenni. Erano questi i signori che mi hanno cresciuto, da ragazzo, nella portineria. Mi telefonano tutti i giorni, per qualunque cosa. Che faranno questi vecchietti, adesso, senza di me? Chi si occuperà di loro? I figli hanno messo i badanti e non se ne preoccupano più. Mi preoccupo io di loro, tutti i giorni. Non ho mai fatto le vacanze, nella mia vita. Mi sono dedicato sempre al lavoro e agli altri. Se venite nel mio Parco e domandate di me, vedete cosa vi dicono (“eteronomia” alla Tellenbach, cioè poggiare la stima di sé sull’opinione convenzionale che gli altri hanno di sé, dunque dipendere da un codice esterno di valori). A disposizione giorno, notte e festivi, per qualunque esigenza.” Piange. Ormai piange a dirotto. Il colloquio è un profluvio avviato. Le lacrime squassano il silenzio surreale dell’OBI, sovrastando i bip bip dei macchinari di monitoraggio. Mi tornano le lapidare parole del diario di Kierkegaard “"Ecco…il silenzioso amico del dolore, l’infelice amante del ricordo, nel suo ricordare turbato dalla luce della speranza…I suoi occhi non sembrano aver versato ma bevuto molte lacrime, e tuttavia vi divampa una fiamma che potrebbe consumare il mondo intero, ma non una scheggia della pena che è nel suo petto." Mi racconta di quando, anni fa, quel ragazzo, l’ingegnere, accoltellò la madre uccidendola, poi accoltellò il padre. Lui era nella sua portineria quando sentì quelle urla bestiali. Corse per le scale, si imbattè nel padre stravolto con evidenti ferite da punta nel petto, pieno di sangue. Se lo abbracciò, se lo portò a spalla nel garage e via, verso l’ospedale, senza chiamare l’ambulanza, con il sangue della vittima sui suoi vestiti. Quell’uomo si salvò, grazie alla sua tempestività nel soccorso, è vissuto poi altri 15 anni. Gli ha sempre riconosciuto di essere debitore della vita. La frase che scatenò la furia omicida del ragazzo, instabile mentalmente, fu pronunciata proprio dal padre, geometra : “Se non sai fare l’ingegnere, allora vai a fare il muratore!” Mentre mi racconta questo episodio sottolinea che, effettivamente, un padre non è corretto che butti così a terra il figlio. La mia mente va indietro, a quell’episodio di sangue che scosse la città nel 2003. Ma va anche al mio paziente G. che, non più tardi di due mesi, fa ha ucciso la madre. Mi domando se ci fosse stato un portiere nel Parco dove il mio paziente viveva con la famiglia, chissà, forse la madre non sarebbe entrata in casa da sola. Non so. Effettivamente è malinconica questa idea della scomparsa dei portieri. Sacrificati alla nuova economia. Considerati inutili parassiti. Non ci saranno più film e romanzi con la figura mitica del portiere, come “Il portiere di notte” oppure “L’eleganza del riccio”. Essi, i portieri, rappresentavano con l’orgoglio del loro esserci la dignità borghese del palazzo. Mi vengono in mente alcuni librai di stampe e libri antichi. Il loro ritornello :”E’ finita”. Mi ricordo un antiquario di libri e stampe, nel ghetto ebraico di Padova, che mi disse, qualche anno fa: “Dottore, noi stiamo scomparendo con la borghesia”. Che non siano anche la psichiatria e la psicoterapia un’invenzione della borghesia? In un certo senso è così. La democratizzazione dell’inconscio ha esitato, contrariamente a quanto sperato, non in una proficua messa in discussione collettiva, ma nell’utilizzo globale di psicofarmaci. La via breve è quella della risposta breve. Il consumo non ammette identità. Il cambiamento vertiginoso non si può consentire radici.
Il nostro colloquio inclina, ormai, alla fine. Il mio paziente mi chiede, a bruciapelo, se è pazzo. Guardo l’orologio, penso che il mio smonto è arrivato da un pezzo. Quando esco il sole tramonta. Incontro l’ombra della sera, che prende il luogo dell’accecante, rabbiosa e panica luce meridiana. L’ombra della sera, quella affascinante statuina etrusca lunga lunga e sottile, mi accoglie fuori dal PS. L’aria è rinfrescata. E’ anche un po’ la grande sera, quella del romanzo di Pontiggia (1989), la sera degli affetti che cala sulla nostra società incapace di fornire contenitori adeguati al cambiamento dei contenuti. Ho fatto al mio paziente una prescrizione farmacologica, l’ho riaffidato alla famiglia. Gli ho dato un appuntamento a breve in day hospital. Per lui la porta del mio inferno è rimasta chiusa. Può andare a prendersi un po’ di aria nella sua piccola casetta sul mare. E poi, tra un po’ di giorni, tornare alla sua portineria, per il tempo che resta. Per tutto il tempo che resta. L’ho sentito, nel colloquio, come un uomo disperato, ma forte. Mi ha lasciato dentro, questo incontro, se così si può dire, il piacere del tramonto. Quella sensazione di quando il giorno finisce. Forse un piacere autentico è possibile solo quando non si sente troppo il dolore della fine. Quando il dolore della fine non si prende tutto il campo per sè. La sua tristezza, venata di disperazione, a tratti di rabbia impotente, mi ha trasmesso invece un senso di pace, forse la pace di una resa. Qualcosa sopravviverà. Qualcosa no. Ma questa è la vita.     

 

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Commenti

Una perla di fine psicopatologia. Lo psicopatologo che invece di attendere, solo, gli esami "oggettivi", si prepara sotto il caldo di fine estate al risveglio della coscienza del paziente dopo una crisi.
I passi che attraversano le vette della gelosia patologica, dell'avversità alla tecnologia che avanza, dell'estate che sta finendo, del portiere che diventa figura mitologica, portano a quella "ombra della sera" che resta l'unica ed essenziale struttura psicopatologica del paziente.
Un raro esempio di intervento diagnostico, ma anche terapeutico, di psicopatologia fenomenologica.
L'elemento nostalgico e quello melancolico, vengono colti dai vissuti personali del curante, che non può fare a meno di sentirsi oltre che "traghettatore", "passeggero" di quel malessere del paziente.
Come sè l'angustia vitale risuonasse a tal punto da aprire le fenditure delle cose che finiscono. Grazie Gilberto questo ci vuole per noi che permanentemente dobbiamo formarci.


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