La tecnica della psicoanalisi, Sette Lezioni su pratica, metodo, cura, Un contributo indipendente alla teoria freudiana

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6 dicembre, 2018 - 14:15
Autore: Ella Freeman Sharpe a cura di A. Iossa Fasano
Editore: Luca Sossella
Anno: 2018
Pagine: 146
Costo:
Gianluca Garrapa: La tecnica della psicoanalisi, di Ella Freeman Sharpe, a cura di Augusto Iossa Fasano, traduzione di Luca Rosi, nella collana diretta da Sergio Finzi edito per Luca Sossella nel 2018, è anche, e forse soprattutto, un’arte. Per essere e ascoltare in quanto analisti, o analiste, è necessario avvalersi di una conoscenza che vada aldilà del sintomo, sia in chiave psicologica che neurologica, insomma: conoscere l’altro implica che si sappia quella che è la struttura dell’Altro, le sue letture, i suoi hobby, lo sport, la musica che ascolta, che vestiti preferisce indossare. In psicoanalisi non si può tralasciare nulla e, come nel teatro, ogni dettaglio è precipizio e vertigine di senso, che può distogliere o far indovinare la strada giusta o deviarci verso fraintendimenti e fasi di stallo in cui si arena il rapporto con l’analizzando o con l’analizzante. In questo senso, come scrive Augusto Iossa Fasano nell’introduzione: all’analista sono indispensabili i dettagli di un dramma, almeno quanto il conoscere il funzionamento di macchinari, le procedure delle arti plastiche o di regolamenti sportivi o altre nozioni oppure forme della credenza che il paziente presenta in seduta, e in particolare il teatro, il theatron del vedere oltre il sintomo-etichetta di certo tecnicismo che non tiene misura del soggetto hic et nunc, che abbiamo davanti, in seduta.
Il dramma della storia, la sua iconologia, ci aiuta, e aiuta Ella Sharpe, a comprendere: Prendete questo esempio: una paziente ha un’esitazione mentre sta esprimendo un pensiero. Dice: “Mi sono interrotta all’improvviso pensando a Porzia, non a quella Porzia, ma alla Porzia di Bruto. Non voglio pensarci, lei non mi piace”. La paziente torna allora agli argomenti precedenti. Ora, se io conosco la storia della Porzia di Bruto, posso individuare immediatamente il tema inconscio contro cui sono dirette le resistenze. So che c’è un legame tra i sintomi di conversione di questa particolare paziente e il fatto che la Porzia di Bruto si sia inferta una ferita per uno scopo preciso. La paziente ha inconsciamente selezionato, con fiuto infallibile, una rappresentazione della sua psicologia inconscia. Ecco: il riferimento al personaggio storico che, a quanto narra Plutarco, sappiamo essersi ferita per far comprendere a Bruto, suo secondo marito dopo la morte per malattia del primo marito, Bibulo, l’odio nei confronti del dittatore Cesare, a causa del quale Catone l’Uticense, padre di Porzia, si suicidò pur di non cadere nelle sue mani, del dittatore. Porzia, dunque, fa passare sul suo corpo un significante ben preciso. L’intransigenza e la vendetta diventano rappresentazione del corpo tagliato. La ferita del corpo diventa segno, sintomo, metafora. L’inconscio ha ben sentito quale parole proporre per legittimare i sintomi di conversione della paziente. Non di sole parole ‘quotidiane’, importantissime, per altro, dunque, può vivere un’analisi, ma pure di corpi e ferite nascoste e ferite raffigurate a simbolo di drammi interiori, di storia e di iconografie, immagini, riferimenti letterari, leggende: in un’analisi, ho dovuto ricorrere a un’intima conoscenza del Peer Gynt per un pronto riconoscimento dei ruoli che Asa, Ingrid e Solveig ricoprivano in quel momento nelle identificazioni della paziente. E anche i tempi storici e politici si rispecchiano, si rimandano, politici in quanto la psiche non è uno spazio-tempo concluso dentro un corpo, o dentro un circuito psichico o neuropsichico, niente affatto! L’inconscio si estende all’esterno, alle forme, alle quantità e alle serie che avvengono nel materiale e il corpo, in quanto superficie, non smette di iscriversi in uno svelamento di ferite, cicatrici e profondità evidenti: e non smette di muoversi elicitando percorsi e gesti, all’apparenza asemici, ma significanti agli occhi e al senso di chi li ha già visitati dentro il proprio inconscio, come scrive Fasano nell’introduzione: l’apparato psichico non va mai disgiunto dallo spazio corporeo (la piccola ferita al piede che Porzia si infligge) né da quello politico, nel senso delle tensioni dinamiche o delle pratiche di negoziato nella “polis” (uno dei contesti dove la psiche si estende) e più oltre: Le proprietà del metodo freudiano non si limitano alle funzioni psichiche del singolo soggetto; da possibilità l’attitude si trasforma in attualità nel campo sociale e naturale.
 
Ecco, cosa s’intende per spazio corporeo e per contesto politico, luoghi da cui l’apparato psichico non può disgiungersi? e come si realizza l’attitude?
 
 
Augusto Iossa Fasano: L’attitude non è solo l’attitudine intesa in senso semplice e riduttivo come cognizione con le relative implicazioni quali l’intelletto, la motivazione, la decisione e altre funzioni che potremmo considerare appannaggio dell’Io. Va considerata la dimensione dello spazio esteso (Latitude) in relazione all’apparato psichico, all’Es che accoglie ed elabora le rappresentazioni del visibile come luce, forma e colore che permettono al soggetto di conquistare il suo posto nell’economia (Politeia/Polity/Policy) della natura. Dove il secondo termine, Polity, è quello che meglio tocca le corrispondenze tra psiche e ambiente attraverso la nozione di barriera molle o permeabile, una barriera che impedisce e che facilita. La medicina, l’idraulica e la biologia, ma soprattutto geometria, architettura e grafica si reggono sulla nozione di barriera e di rappresentazione in relazione alla Darstellung, la raffigurazione, prima che alla Vorstellung, ovvero agli aspetti filosofici e concettuali.
 
G.G.: Ho letto con molto interesse questo libro sia perché ho conosciuto personalmente il percorso analitico, che mi ha letteralmente spalancato le porte della percezione, come direbbe il poeta William Blake, sia perché uno dei tanti aspetti affascinanti di questo saggio sono i consigli di lettura di Ella Sharpe agli aspiranti psicoanalisti, sia, infine, perché la lettura si è rivelata ben presto autoanalitica: conoscere sé stessi è importante per ogni esistenza umana, e di più per chi agisce la propria professionalità nell’ambito dell’ascolto del disagio dell’Altro.
Dunque vediamo le indicazioni letterarie, che Fasano definisce, almeno per i primi testi consigliati, piuttosto bizzarre, e che contribuiscono, insieme all’analisi personale, a coltivare l’attitudine alla scienza come all’arte: Ella Sharpe ne parla nella Prima Lezione, dedicata all’Analista, e intitolata ‘Requisiti essenziali per l’acquisizione della tecnica’: la ricostruzione del periodo infantile è un processo essenziale nell’analisi di un adulto. Le fantasie, le finzioni, i giochi fatti, quelli non fatti, saranno la via principale alla vita inconscia. In un’ideale lista di letture per la formazione analitica, inserirei, come testi obbligatori, questi libri: Le filastrocche, Alice nel paese delle meraviglie, La caccia allo Snark, Grimm, Andersen, i libri di Fratel Coniglietto, I bambini acquatici, Pierino Porcospino, Ondina, Tremotino, Peter Ibbetson, Miti e tragedie greche, le opere di Shakespeare.
Freud sapeva che i poeti anticipano, come scrive anche Virginia Finzi Ghisi, nell’appendice al volume, riferendosi alla poesia che Winnicott evoca all’inizio del suo saggio. I poeti l’hanno già detto, io devo affrontarlo, anticipano, o per lo meno fanno emergere, certe tematiche psicoanalitiche che saranno il cuore di grandi rivoluzioni nella Storia delle Idee, l’Edipo re di Sofocle è la prima opera che mi viene in mente, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll l’associo più che alla Logica del Senso di Deleuze, a quel testo che anche Fasano cita nell’introduzione al volume, cioè l’Inconscio come insiemi infiniti dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, nel paragrafo in cui si racconta l’importanza che la seduta psicoanalitica deve attribuire al suono della voce: l’immateriale che presentifica concreti conflitti inconsci: il suono della voce umana, è a un tempo strumento e oggetto di lavorazione inconscia: figure retoriche, allitterazioni, similitudini sono fenomeni che, tra l’astratto e il concreto, correlano stati mentali, spazio corporeo e spazio esteso: una sorta di consapevolezza che in ambiente psicoanalitico bisogna fare propria, esercitandosi a uno stravolgimento delle percezioni quotidiane, anche antropologiche, e preparandosi ad ascoltare l’inaudibile, sorprendere i fantasmi di quella scenografia inconscia in cui un ‘attore’ in analisi si muove nel suo rapporto con il desiderio, praticare e inserirsi nelle difese del paziente tradite dal suono della voce: Ho trovato che le modificazioni della voce possono essere un indice attendibile delle variazioni a carico dei conflitti, scrive Ella Sharpe tradendo anche la natura esperienziale di quello che, a ragione, può apparire un diario di bordo in cui teoria e clinica si intersecano e remano a favore di un bastimento carico sul mare della conoscenza interminabile di sé.
Dunque più piani di conoscenza si intrecciano e il rapporto dell’arte con la psicoanalisi non è affatto inteso come un’interpretazione coatta e simbolica degli stilemi e dei contenuti di un singolo artista, sì invece come un modo di accostare il linguaggio dell’inconscio a quello dell’arte, di considerare la conoscenza tecnica al pari di quella artistica e scientifica. Quello di Ella Sharpe, però, è un pensiero ‘predigitale’.
 
Ci spieghi come questo spazio esteso, come la lettura di classici poetici e letterari, come la pazienza dell’auscultazione interiore e dell’ascolto dell’altro si sono trasformati in quest’epoca profondamente digitalizzata e narcisista? C’è da essere ottimisti? Il virtuale può essere un buon amplificatore inconscio, un ‘inconscio elettrico’?
 
A.I.F.: I due conflitti mondiali hanno immesso il fuoco nella società civile e nella vita quotidiana: il medium comunicativo viene dapprima elettrificato poi regolato dall’elettronica e infine dall’intelligenza artificiale. Non c’è scelta, non c’è scampo. Il vivo e il morto, l’autentico e l’inautentico, l’esterno e l’interno si sono ibridati in termini ormai indistinguibili, ma ancora analizzabili. Analizzabili a patto di tener conto di queste aporie. Il contributo di Ella Sharpe sottolinea il registro psicoanalitico della tradizione, del narrativo, del dispositivo materiale meccanico e analogico. Virtuale e digitale sono un potentissimo amplificatore del contenuto inconscio che rischia di sbilanciare la componente dell’INC, quel dato inconscio. La lezione della Sharpe ci conferma che è possibile tenere in piedi entrambi i registri: materiale e immateriale, analogico e virtuale, scritto (cartaceo) e orale (audio/visivo digitale multimediale). Registro della realtà esterna e dimensione onirica a partire dalle leggi e regole del livello manifesto del sogno.
 
G.G.: La psicoanalisi smette di essere una scienza viva nel momento in cui la tecnica cessa di essere un’arte, scrive Ella Sharpe. Mi verrebbe da dire che la psicoanalisi cessa di essere un’arte laddove non si riuscisse più a percepire, e dunque ascoltare, rispettare l’altro, l’altro soggetto, lo sfondo politico, sociale, quello spazio che divide separando la figura dello sfondo.
Verrebbe a mancare l’arte e la scienza laddove, probabilmente, non ci fosse una giusta misura di ordine e spontaneità. Un termine molto usato da Sharpe è ‘fantasia’: Raggiungere la segreta vita di fantasia significherà eventualmente non solo pervenire alla verità del conflitto psichico, ma anche alla verità dell’infanzia reale sottoposta al meccanismo della negazione. E anche la realtà ha il suo specifico peso, e una fuga nella realtà a discapito della fantasia è altrettanto patologica e letale che la fuga inversa, il rifugio nella fantasia psicotica, delirante. Trasformare la magia, il sintomo di una coazione, il rifugio nella fantasia delirante, significa, innanzitutto, far venire a galla il nodo del conflitto: quegli atti magici e quei sistemi di fantasia, che non rivestono alcun valore di realtà, scompariranno quando portati alla coscienza. La magia si trasformerà in arte, scienza, medicina, psicoanalisi, in tutto ciò che è alla portata del talento naturale dell’individuo.
Per secoli l’arte figurativa ha sempre concepito una cornice, un dentro e un fuori: lo spettatore è stato educato a percepirsi come dentro il flusso e fuori dal flusso, nel limine, a esperire l’estetica dentro la cornice come sostanzialmente opposta, anche se altrettanto vivificante, all’esperienza reale. Anche opere come la Pietà del Sacro Monte di Varallo, per quanto pervasiva rispetto alle opere dell’epoca, lasciava ancora adito alla speranza del bello artistico come catarsi del meccanismo né bello né brutto della vita reale, persino il trompe-l’oeil, le illusioni barocche, vertiginose verso l’alto, vorticose dentro l’altro, persino il teatro dopo l’abbattimento della quarta parete, mantiene il limite del simbolico rispetto all’immaginario e preserva la giusta via etica all’interno dell’esperienza del reale. Nella realtà immersiva, siamo immersi in un mondo altro, in cui non vi è più cornice: siamo dentro quello che vediamo, a differenza della realtà virtuale aumentata in cui un nesso con la realtà rimane ancora. Sembrerebbe un discorso, questo, lontanissimo mille miglia e mille tempi, dalle parole di Ella Sharpe, e invece, proprio leggendo un passaggio della sua lezione sull’angoscia, (più il senso di realtà viene inficiato, più aumenterà l’angoscia ogni volta che l’Io si ritroverà circondato da queste forze), ho avuto la sensazione che ci fosse uno stretto rapporto tra il mondo delle immagini costruite al computer, il debordare di fake news, la digitalizzazione della realtà e la crescente violenza come reazione a una profonda angoscia, anche nelle scuole, per esempio.
D’altra parte, più avanti, nella lezione sulle Variazioni della tecnica nelle diverse nevrosi, Ella Sharpe spiega che raggiungere la segreta vita di fantasia significherà eventualmente non solo pervenire alla verità del conflitto psichico, ma anche alla verità dell’infanzia reale sottoposta al meccanismo della negazione.
La realtà aumentata è molto usata in ambito medico, anche le protesi non sono che un innesto di inorganico su un organismo. La realtà immersiva e quella aumentata stanno iniziando a farsi avanti nella cura dei disturbi dell’autismo.
 
Cosa ne pensi? Come potrebbe essere una seduta psicoanalitica immersiva, con un paziente che visualizza le storie che elicita?
 
A.I.F.: Credo che occorrano ricerche/intervento compiute con nativi e con didatti formatori di derivazione freudiana, corretta secondo le scoperte del Piccolo Hans: luogo della fobia, protesi, l’essere figlio del Godimento-del-Padre e Madre-misura, cui ho aggiunto il PBP, il Paradigma Bionico Protesico, che distingue protesi esterna da quella esterna. Su questa base ho condotto due trattamenti su Second Life che hanno evidenziato l’idea di Gabriele Frasca relativa alla persistenza dell’emozione della guerra mediale cui il Nevrotico di guerra in tempo di pace si uniforma secondo i lineamenti descritti da Sergio Finzi.
 
G.G.: Il testo di Ella Sharpe interessa tutti e tutte: anche il concetto di normalità non sfugge al vaglio della clinica. Dopo aver trattato la nevrosi, il delirio e la conversione (Variazioni della tecnica nelle diverse nevrosi), la cui sostanziale cifra comune è l’inadeguatezza nei confronti della realtà e la sicurezza cui si vuol pervenire è ottenuta o con il diniego della realtà, nel caso del delirio, o con il sistema ossessivo dei rituali o con i sintomi di conversione corporea, per cui l’espiazione del peccato è stata raggiunta tramite la sofferenza corporea. Si tratta di questo: sensi di colpa che l’Io cerca di attutire, a fronte della potenza dei desideri inaccettabili dell’Es e dell’ostilità, per reazione, del severo Super-Io, meccaniche conflittuali che, come ci viene insegnato nella lezione successiva, La tecnica nell’analisi del carattere, non sono caratteri di reazione esclusivamente dei diversi tipi nevrotici, ossessivi, deliranti o isterici, o dei diversi modi psicotici di pervenire a patti con il reale della realtà alla ricerca esasperata e dolorosa di una “giustificazione dell’esistenza”: Sharpe, infatti, sfata il mito del normale vs patologico, riducendo la differenza solo a un diverso rapporto tra realtà e fantasia: L’unica differenza essenziale che ho trovato tra nevrotici e normali non sta nel fatto che i desideri dell’Es siano meno ostili, o che la severità del Super-Io sia meno implacabile, o che manchino credenze magiche, o che l’onnipotenza infantile sia minore; quanto piuttosto in un qualche sistema di realtà nel quale il conflitto viene giocato, o risolto, in relazione a persone reali e cose reali.
A mio parere, quel che di rilevante è in queste affermazioni, è l’opportunità di estendere un discorso clinico-scientifico a un regime etico di convivenza civile: questo tipo di logica include ogni diversità tale da permetterci di non creare ghetti predefiniti tra normale e patologico. La psicoanalisi non può che essere etica nel senso di far aprire gli occhi e la mente sulle diversità apparenti: la psicoanalisi, che sorse come una branca della medicina, si trova ad affrontare non solo la malattia mentale, ma l’intero problema dello sviluppo psichico del genere umano. Nel cosiddetto normale abbiamo un esito del conflitto interno diverso rispetto a quello che vediamo nelle nevrosi manifeste, ma non c’è alcuna differenza nel vero e proprio conflitto inconscio che giace al di sotto della coscienza.
 
D’altra parte, Ella Sharpe, già alcune lezioni prima, in quella sull’Analista, per esempio, scrive: Ha detto un poeta a proposito di Virgilio:
 
Nelle tue mani hai preso tavolette incerate,
e dalla rabbia hai intagliato tranquille storie di casa.
 
Fuori dalla stanza di consultazione, abbiamo bisogno di vedere la vita nella sua interezza e di ricordare che la nostra cultura è inseparabile dai nostri conflitti.
 
E non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. O forse sì, aggiungerei quello che scrive Fasano nelle sue pagine introduttive: Ella Sharpe, insegnante di letteratura, approda alla psicoanalisi poco prima della fine della Grande Guerra, evento che l’aveva privata di persone cui era legata da rapporti di profondo affetto: amici, colleghi e allievi. Quindi non solo lo spazio tipografico del libro di medicina, o le foto di neuropatologia, le mura della clinica, il pavimento percorso e ripercorso dello studio psicoanalitico, non solo il sogno che pare nostro e che è di tutti, (‘il sogno è comunista’, direbbe Sergio Finzi, che è anche il curatore della collana cui appartiene il volume che stiamo trattando), rientra nell’interesse della psicoanalisi, ma anche lo spazio fuori, quello del balcone, della piazza e della storia politica e sociale di un popolo. Scrive Sharpe nella lezione sull’Angoscia: crisi e risoluzione: “Che farabutti saremmo se facessimo per noi quel che facciamo per la patria” disse Cavour. Machiavelli e Napoleone sono paradigmatici in questo senso. La pulsione interna data dall’angoscia costringe il conquistatore a esteriorizzare le sue problematiche in riferimento alla sua nazione, con la quale egli si identifica.
 
Ma tornando al capitolo sulla tecnica nell’analisi del carattere, ecco le parole che chiudono questa lezione, parole che oggi suonerebbero quasi provocatorie nei confronti di un certo tipo di politica e addirittura deliranti alle orecchie di una certa tendenza reazionaria, claustrofobica, razzista del pensiero unico: in psicoanalisi, più che in tutte le altre scienze e arti, dovremmo essere in grado, tramite la conoscenza di noi stessi, di scoprire un’unità e una solidarietà oltre tutte le individualità, in cui la nostra singolare, prefissata ricerca della verità dovrebbe dare i suoi frutti, attraverso noi in quanto individui e noi in quanto comunità.
 
Che bella la parola: ‘comunità’! In questo senso, quale ruolo potrà avere la psicoanalisi in una società, ahimè, sempre più violenta e segregazionista?
 
A.I.F.: Credo che tutti gli operatori del campo psi debbano tenere conto del contesto in cui operano e prendere posizione nella misura in cui viene consentito e in rapporto a modelli e concezioni che spesso sono mutuati dal pensiero psicotico o da quello marginale che chiedono di dialogare con la dimensione nevrotica e isterica come argine e prevenzione alla perversione che invece mira (la mira dell’INC) al sabotaggio, al collasso e alla distruzione della psiche, specie nelle sue componenti creative, imprevedibili, non omologate.
 
G.G.: Fasano scrive: Il “Contributo presentato a un simposio sull’analisi infantile” è il resoconto di un pionieristico trattamento di una quindicenne interrotto dopo poche sedute, forse in relazione a una precoce interpretazione dell’analista.
Una caratteristica fondamentale di questo saggio è l’idea, e la pratica, che per diventare psicoanalisti o psicoanaliste, prima di affrontare un paziente nei suoi deliri e nelle sue nevrosi, è fondamentale lavorare sui nostri limiti, sulla nostra tendenza a giudicare l’altro in base a quel Super-Io infantile che inquina la lettura del mondo e la carica di pregiudizi: un compito questo che dovrebbe riguardare tutti, a esempio nella scuola, o nelle situazioni in cui si opera con gli adolescenti, in ogni caso quando si ha a che fare con lo specchio di noi stessi bambini. Ogni incontro con l’altro, che dobbiamo aiutare per fargli superare il suo inferno, cela la trappola del nostro inferno che abbiamo razionalizzato, o persino rimosso, o camuffato con le parole-etichette di un manuale diagnostico, ogni analisi dell’altro è un’analisi del nostro altro interiore: Dopo questa seduta, cominciai a provare un certo disagio. Mi ritrovai a dubitare della giustezza di un’interpretazione così diretta e precoce circa il simbolismo della masturbazione. La mia intima difficoltà mi convinse a guardare meglio dentro di me. scrive Ella Sharpe e nella conclusione del Contributo presentato a un simposio sull’analisi infantile dichiara, appunto, come quel Super-Io infantile può diventare un incomodo, un disturbante fantasma nella relazione tra analista, bambino e genitori: di qui la necessità di sottoporre a analisi lo strato più profondo dell’analista.
 
Da questo punto di vista, qual è lo stato attuale, per quanto riguarda l’autoconsapevolezza della psicoanalisi a analizzare sé stessa?
 
A.I.F.: Se prendiamo il numero 3 del 50° anno di una rivista parallela e coeva al Piccolo Hans, cioè Psicoterapia e Scienze Umane, leggiamo le risposte di autorevoli psicoanalisti, rileviamo una grande eterogeneità di questioni e dunque una certa ricchezza di temi, ma in effetti notiamo una forte autoreferenzialità, scarsa auto-critica e insufficiente consapevolezza dei mezzi specie in relazione al rapporto tra teoria psicoanalitica e spazio ovvero mondo esterno, realtà materiale. Se non c’è una concezione forte a tal proposito non ci sarà un modello relativo al virtuale, al bionico, al mutante. E nemmeno alle neuroscienze di cui si rincorre metodo, privo di clinica, e teoria priva del senso dell’ignoto (e relativo spaesamento o turbamento)
 
G.G.: La nota finale del volume sulla Magia dei nomi è del 1946, l’anno precedente la morte di Ella Sharpe. Due paginette dense, e impressionanti per la modernità del pensiero, in cui la ‘magia’ richiama proprio il pensiero magico che guida le masse su cui si è anche concentrato lo studio di Freud. La critica è rivolta all’uso improprio, secondo l’autrice, dei termini ‘buono’ e ‘cattivo’: Il fatto che non siamo in grado di reperire epiteti maggiormente discriminanti, non lo si potrebbe forse addebitare al potente incantesimo che viene messo in atto attraverso la semplice ripetizione di “l’Oggetto Buono”, “l’Oggetto Cattivo”? E non potrebbe essere la prova sufficiente di una comune, inconscia credenza nella magia bianca e nera? Queste parole mi fanno venire in mente, per contro, un certo modo di ragionare dicotomico e egocentrico della società attuale: noi e loro, gli uguali e i diversi. In sostanza, anche qui, l’impegno di Ella Sharpe, non si chiude mai nella clinica del caso e della patologia, ma si apre al sociale, alla struttura profonda delle masse. Fasano scrive, a proposito, introducendo le Sette Lezioni di Ella Sharpe: Se la sua tesi avesse ricevuto maggior attenzione sul piano teorico e se avesse ricevuto ascolto, la storia della psicoanalisi sarebbe cambiata.
 
In che senso sarebbe cambiata la storia della psicoanalisi?
 
A.I.F.: La comunità analitica sarebbe stata meno preda delle suggestioni alla Jung o Reich e meno rigidamente ancorata a tecniche interpretative dogmatiche come nel Kleinismo del quale è criticabile non la teoria, ma il metodo “ortodosso”.
 
G.G.: Poche pagine prima, scrivi: Ella Sharpe, dopo Freud, e Virginia Finzi Ghisi, dopo Freud e Lacan, sono autrici che qualsiasi psicoterapeuta e psicoanalista non può ignorare, specie se alle prime armi. Credi che il movimento psicoanalitico soffra ancora di un certo maschilismo?
 
A.I.F.: Di sicuro, ma non in senso “femminista”, ritengo che persistano modalità autoritarie e di repressione del pensiero che mantengono forti tendenze perverse. Abbiamo volutamente omesso di tradurre la presentazione di Ernst Jones ai Collected Papers che fa buon viso alla presenza di una letterata, lui neurologo gallese ostile alla presenza femminile laica nel nascente movimento psicoanalitico.
 
G.G.: Queste Lezioni sono state tradotte da Luca Rosi, la curatela è di Augusto Iossa Fasano e in appendice è il saggio di Virginia Finzi Ghisi dal titolo Vuoto di sapere e istinto di ricerca. Nel saggio che chiude egregiamente il volume edito da Luca Sossella, oltre al tema del titolo, si tratta della questione dell’assenza di una parola inglese che equivalga al tedesco “Angst” o all’italiano “angoscia”.
Le parole di questo saggio rivalutano l’angoscia da sistema che blocca, a vuoto da colmare e propulsivo: L’angoscia, di fatto, si colloca proprio sull’orlo di un vuoto di sapere. E lo minaccia del venir meno di qualcosa che si sa, di fronte alla misura del divario che si annuncia tra il soggetto e il resto, desiderio che avvia l’istinto di ricerca. Un ampio terreno da conquistare e irrigare. La fobia è quella di antichi conquistatori alle prese con il vasto vuoto da nominare e ordinare. Un’operazione geografica e poetica, psichica e urbanistica, meccanica e letteraria.
 
Dunque quali difficoltà comporta ‘tradurre’ l’inconscio da una lingua all’altra? In particolare penso alle culture che non hanno quella concezione di inconscio caratteristica dell’Occidente freudiano, per così dire. Come cambia il sintomo al variare delle parole che usiamo per spiegare l’angoscia?
 
A.I.F.: Angoscia (Angst in tedesco), ansia, ansietà, in italiano abbiamo più gradi e nuance dell’affetto cardine, l’Affekte freudiano, mentre in inglese hanno solo anxiety e semmai agony, dunque un estremo terminale a fronte di uno stato d’animo annacquato che non sembra in grado di spingere il soggetto dal sintomo e dall’inibizione alla domanda di analisi e alla sua in-terminabilità, (“un-endlichkeit”). Probabilmente tra referente, significante e significanti c’è molta più fluttuazione multidirezionale di quanto la linguistica strutturale di derivazione saussurriana ci faccia pensare. Non solo Bollas, ma anche autori come Akhtar che provengono dalla filosofia ontologica contemporanea, chissà perché, hanno studiato la psicoanalisi in Cina, Corea e Giappone. Forse il sistema ideografico, la struttura economico-demografica spingono piuttosto che precludere l’analisi della soggettività. C’è multi-linearità a partire dalla psicologia delle masse e della folla. È vero che il sintomo, performativamente, muta in rapporto ai significanti, ma oggi le variabili sono il villaggio globale sospinto dall’accelerazione tecnologica che coinvolge e stravolge il sistema sanitario –medicale, prima di quello psicologico/psicoanalitico e sociale, tra loro mal correlati e tutti da ridefinire e riposizionare (si prenda ad esempio il proliferare di mode terapeutiche e formative che spesso sono forme di resistenza massiccia e ottusa all’analisi, contagio di ignoranza e spargimento di “sentito dire” rispetto a cui le persone di scienza non si smarcano, né si sottraggono in modo critico e colto). La tecnica e la psicoanalisi di Ella Sharpe vuol essere un ulteriore inizio di proposta culturale e scientifica, tenendo conto delle fonti e delle proposte intercorse (I saggi di Virginia Finzi Ghisi, 1966-1999, un secolo dopo l’Interpretazione dei sogni di Freud).
 
G.G.: Dirò, in conclusione, qualcosa di poco scientifico e... viscerale: queste Lezioni mi hanno fatto innamorare di un libro che ho letto e studiato con il piacere e le incombenze con cui si affronta un viaggio in un territorio familiare e straniero, perché ha aperto finestre della mia psiche che ancora l’esperienza lavorativa e quella psico-autoanalitica non erano riuscite nemmeno a farmi intravedere sulla superficie della mia interiorità. Le parole di Ella Sharpe mi hanno aiutato a risolvere alcuni problemini d’ansia, tra cui quello di una colite che perdurava da mesi senza che riuscissi a capirne la causa! J
 
Le parole con cui Ella Sharpe principia le sette Lezioni, sono: Queste Lezioni sono indirizzate ad allievi che, come voi, tramite un’analisi personale, si sono convinti della verità della scienza psicoanalitica. Vi vengono offerte nella speranza che un ulteriore punto di vista personale, maturato sulla base di una lunga esperienza, possa risultare prezioso nel vostro lavoro.
 
Perché hai deciso di curare magistralmente la traduzione di questo libro, nell’ambito della collana curata da Sergio Finzi, altro grande maestro che mi ha letteralmente sconvolto i canoni del sogno, e a quale pubblico è destinata La tecnica della psicoanalisi?
Ci puoi dire qualcosa della collana, cui appartiene il volume, La tradizione del piccolo Hans, Per un nuovo progetto di Psicoanalisi?
 
A.I.F.: Ti sono grato di questa tua testimonianza, così rara tra gli analisti/analizzanti/autoanalisti sul sintomo e sulla sua risoluzione relativa a curvature del sapere davvero inedite e inaudite. Ecco era destinata a te, a tanti amici, colleghi, allievi che attendono ulteriori idee, copertine, esiti di ricerche e volumi del Piccolo Hans, Cefalopodo, Ambulatorio, forme della natura, posti, luoghi, siti ed esiti di un sapere che restituisce l’oggetto al postumano e all’extra-umano, mutazioni epocali che Darwin avrebbe accolto e studiato con la passione che gli era propria.
 
La collana prevede in primis la digitalizzazione dei 100 numeri della rivista, quasi ventimila pagine di articoli, saggi, editoriali, recensioni scritti dai maggiori intellettuali del Novecento, ha pubblicato Le giunture del sogno e Nevrosi di guerra in tempo di pace di Sergio Finzi oltre a Ella Freeman Sharpe, accingendosi a ulteriori traduzioni e curatele della psicoanalisi classica con un nuovo numero di Ambulatorio e nuovi saggi degli autori che ruotano intorno alla nostra scuola
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