IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

O la scienza o la vita

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19 febbraio, 2019 - 09:52
di Antonello Sciacchitano

Sono in tema. Questo titolo è un aut aut. È come “o la borsa o la vita”: se scelgo la scienza, perdo il senso della vita; se scelgo la vita, resto ignorante per quel che mi resta da vivere. Cosa voglio dire? Voglio introdurre un discorso né accademico né popolare sul numero 379 di aut aut, intitolato “Il Freud che abbiamo rimosso”. La mia tesi è semplice: il Freud che abbiamo rimosso è in quel che Freud stesso ha rimosso. Sarò breve. Detto quel che Freud ha rimosso, e noi con lui, avrò finito.

Un po’ di storia – poca – per cominciare. Durante la gestazione del numero, in redazione proponevo di intitolarlo “Il ritorno diFreud”, simmetrico al più famoso “ritorno aFreud” di Lacan. Cosa intendevo? Proponevo di tornare al punto in cui Freud fece la sua rimozione – dirò subito di cosa – per offrire in seconda battuta a noi freudiani la possibilità di dire quel che Freud stava per dire, ma non disse perché si precipitò ad agire.

Ho detto che sarò breve, ma non brevissimo.

Premetto che mi sono diligentemente preparato su questo tema. Come? Traducendo l’Entwurf einer PsychologieIl progetto di una psicologia, un testo che non parla d’amore, abbandonato da Freud nelle mani di Fliess il 5 ottobre del 1895. Questo fu l’acting outdi Freud, conseguenza del transfert negativo che ebbe con il suo supposto analista. Cestinando le 90 pagine di un progetto scientifico, cosa rimosse Freud? Adesso è facile dirlo, anche se non ci garba: Freud rimosse la scienza. E noi freudiani con lui. Questa è la tesi impopolare che devo dimostrare nei prossimi nove minuti. Non ci vuole molto.
Freud partì per fare la teoria scientifica della psicologia. Fu una falsa partenza. Fin dalle prime righe rivelò la fallacia di marca positivista che lo guidava. Progettava una scienza quantitativa, quasi battendo la strada delle attuali neuroscienze; voleva fondare una scienza che trasformasse le quantità degli stimoli esterni in qualità delle rappresentazioni psichiche interne.

Da dove gli veniva la convinzione che la scienza dovesse trasformare la quantità in qualità? L’esterno in interno? Ma certo, non dalla moderna scienza galileiana, bensì dall’antica scienza euclidea, dalla geometria delle proporzion! Si sa che Freud aveva in biblioteca i primi sette libri degli elementi di Euclide con annotazioni giovanili di suo pugno, ma non aveva il Dialogo dei massimi sistemi. Purtroppo Freud non curava l’aggiornamento scientifico. Ignorava che un suo contemporaneo, Georg Cantor, stava costruendo una teoria scientifica del tutto qualitativa: la teoria degli insiemi, che avrebbe rivoluzionato la matematica a venire, consentendo generalizzazioni impensabili ai tempi di Euclide. Cantor inventò il criterio per stabilire se un insieme è più grande di un altro senza misurarli, cioè senza ricorrere a rapporti con unità di misura, in modo puramente qualitativo. A dire il vero anche Freud nel Progettousò un’enigmatica quantità neuronale Q senza darne il metro. Più tardi, nel 1911, Bleuler gli contesterà l’incongruenza, ma senza capire la portata innovativa dell’operazione freudiana.

In un certo senso neppure Freud capì cosa stava combinando. Quando cominciò a capirlo, abbandonò il progetto di fare scienza. Lo rimosse come per dire: questa scienza non s’ha da fare, anche se non è del tutto errata. Cosa era successo? Perché rinunciava alla padronanza scientifica? Aveva capito che stava delirando? Che la sua scienza era strutturata come una paranoia, come in certe scuole lacaniane si sostiene che la scienza sia? No, era successo che durante la stesura del progetto scientifico emerse la spinta della vita: der Drang des Lebens. Era un ritorno di romanticismo?

No, fu un passaggio dall’in vitro all’in vivo, come si dice in biologia, dall’artificiale al naturale, dal laboratorio alla clinica. Freud era medico. Il medico ha a che fare con la vita. La vita soffre e chiede di essere curata; soffre perché desidera non sa cosa, ben prima di averne bisogno. La vita non chiede di sapere; non chiede scienza; chiede d’essere alleviata dalla sofferenza di vivere; chiede la cura. Non importa che sia una cura medica o filosofica. Può essere la cura medica del ripristino dello stato premorboso, l’Heilen e il Genesen dei tedeschi; oppure può essere la cura filosofica della Sorge, che si prende cura dell’essere dell’esserci, come preconizzava Heidegger. Importa che la cura curi. La vita non vuole saperne di sapere. La passione per l’ignoranza è più forte delle passioni dell’odio e dell’amore e, oscurandone le cause, rende tanti odi e tanti amori incomprensibili, gli odi paranoici, gli amori nevrotici. L’ignoranza non turba la vita, il dolore invece la mobilita. Sul dolore la vita non fa scienza; al più ci scrive sopra romanzi, poesie, teatro; racconta storie, insomma, quelle biopolitiche comprese, buone per conciliare il sonno.

Facendo scienza o solo immaginando di farla, Freud si trovò da subito confrontato con l’istanza vitalistica. Nel via vai da un neurone all’altro delle quantità di energia Q – solitamente tradotte “cariche” – che occupano – solitamente tradotto “investono” – neuroni più o meno permeabili, Freud si trovò di fronte alla necessità vitale – dieNot des Lebens; per le sue quantità Q doveva costruire un magazzino, un Lager, certamente nell’Io. Wozu? Si direbbe nella sua lingua. Quoi faire? in franceseA che scopo? in italiano. Per far fronte al dispendio energetico necessario all’Io per l’azione specifica, cioè quell’azione che consenta l’una di due cose: o soddisfare il bisogno o evitare il dolore. La necessità vitale lo richiede imperativamente; gebieterisch, è l’aggettivo freudiano.

Ecco l’aut aut: o la scienza o la vita. Non c’è terza via; o no? Allora, verso la fine del 1895, Freud scelse la vita irreversibilmente. Una scelta etica. Se avesse scelto la scienza, non avrebbe inventato la psicanalisi come terapia delle psiconevrosi e noi non saremmo qui a parlare del Freud che abbiamo rimosso. Sì, perché anche noi con Freud abbiamo rimosso la scienza. Non ne vogliamo sapere di scienza, sin dai tempi del processo a Galilei. Da quando ho imboccato la strada della psicanalisi scientifica – anch’io ho il mio progetto nell’armadio – ho registrato un calo verticale delle domande di analisi a rischio di sopravvivenza personale, come mia moglie può testimoniare. La gente non vuole la scienza; vuole essere curata dal male di vivere e basta. Per il resto le basta godere di quel poco che ha da godere. Non posso darle torto. Si chiamano pazienti quelli che vanno dall’analista per riacquistare il godimento perduto della vita e pazienti per lo più rimangono. Pochi, pochissimi, diventano analizzanti, passando dalla “necessità della vita” alla “necessità della scienza”. Alcuni, non si sa come, arrivano ad amare il lavoro analitico su un desiderio che non conoscono. Gli altri restano come sono: indifferenti al sapere, magari indottrinati da qualche scuola di psicanalisi.

Non c’è da recriminare. È naturale. Tutti noi resistiamo alla scienza. Dalla scienza ci difendiamo come dal peggior nemico, perché mette in dubbio le nostre certezze, soprattutto quelle indimostrabili, a cui teniamo di più. Anche gli scienziati resistono alla scienza. Tutta la vita Einstein bisticciò con Bohr sulla meccanica quantistica. Non ammetteva l’indeterminismo della misura – “Dio non gioca a dadi” – né l’azione a distanza tra particelle. Tuttavia, proprio grazie alle proprie idiosincrasie, Einstein produsse per paradosso i maggiori progressi della meccanica quantistica: dall’effetto fotoelettrico ai fenomeni di entanglement.

Noi e Freud non facciamo eccezione: resistiamo alla scienza, perché è meccanicista e fuorclude il soggetto, perché è quantitativa e non qualitativa. Chissà, forse anche le resistenze di Freud e nostre alla scienza un giorno promuoveranno la psicanalisi, facendola uscire dal sonno psicoterapeutico.
Ho detto che sarei stato breve. Ecco la mia conclusione, che in un certo senso assolve in parte Freud.
Tra la scienza e la vita, in verità, c’è una terza via, sperimentata da millenni in ogni civiltà e difficile da smontare, perché dà risultati sicuri e stabili. È la via della dottrina o dell’ideologia; né l’una né l’altra sono scienza, perché la dottrina non ammette confutazioni ma solo conferme, ma sono baluardi di ignoranza a difesa della vita, che proteggono dalle minacce dell’ignoto offrendo false spiegazioni a tutto.

Freud scelse la dottrina pulsionale, eziologica e finalistica come molte dottrine che hanno a che fare con la vita (darwinismo escluso), e l’impose ai seguaci attraverso la classica via dell’insegnamento magistrale, l’ipse dixit. Allora nacquero le scuole di formazione psicanalitica. Tuttavia rimase a Freud una spina in gola: la nostalgia per la scienza pura, che è indifferente alla formazione, perché la pratica strada facendo; la realizza in collettivi di ricerca formati da pari, dove non vale il fai-da-te. Il Progetto per una psicologiaè pieno di spunti, molti andranno persi, molti diventeranno ripartenze metapsicologiche nelle opere successive. Le curatrici del testo ritrovato, Angela Richards e Ilse Grubrich-Simitis li hanno accuratamente segnalati e doviziosamente annotati nel 1950.

Passando alla metapsicologia, Freud rimosse il suo Progetto scientifico, ma non lo dimenticò mai; desiderava farvi ritorno. Il suo cuore, il suo sintomo, come il mio, rimase lì. Le anticipazioni del Progettoritornano con malcelata nostalgia in molti testi: si va dalla Interpretazione dei sogni, al Witz, alle Pulsioni e loro destini, ad Al di là del principio di piacere, all’Io e l’Es, al Problema economico del masochismo, ecc.In un certo senso tutti i lavori successivi di Freud sono un sintomo, nel senso freudiano del termine; sono il ritorno del rimosso, rimosso con il progetto di scienza. Dico allora: vuoi essere freudiano, apri il Progetto; vuoi chiudere con Freud,leggi il Progetto; vuoi disinteressarti a Freud, chiudi il Progetto.

Segnalo e concludo con le dichiarazioni di Freud nel Poscritto del 1927 a La questione dell’analisi laica, saggio che ho tradotto con Davide Radice per Mimesis (Milano-Udine 2012). Al popolo delle Opere di Sigmund Freud, che forse non lo sa, ricordo che si tratta del Problema dell’analisi condotta da non medici, cervelloticamente tradotta come Analisi finita e infinita, che è diventata terminabile e interminabile. All’interlocutore imparziale con cui colloquiava Freud dichiarava: “Sin dall’inizio in psicanalisi è esistito un legame inscindibile tra cura e ricerca”. Ein Junktim, è il termine giuridico usato da Freud nel senso di insieme stanno e insieme cadono. “La conoscenza portava al successo” – continuava Freud. “Non si potevano fare trattamenti senza imparare qualcosa di nuovo. Non si otteneva alcun chiarimento senza sperimentarne l’effetto benefico” (ivi, p. 115). Poco prima si espresse in termini ancora più crudi, che molti non conoscono perché lost in translation: “Voglio solo sentirmi al sicuro dall’eventualità che la terapia uccida la scienza” (ivi, p. 112).

Insomma, o la scienza o la vita. L’aut aut fonda l’etica della psicanalisi.

Grazie per l’attenzione e per l’ascolto.

(Letto alla presentazione del n. 379 di aut autil 16 febbraio 2019 presso la Casa della Psicologia, piazza Castello 2, Milano).
 
Poscritto.

Approfitto della sempre feconda Nachträglichkeit per apportare al mio testo la correzione di un errore che mi è sfuggito, trascinato come sono stato dalla mia stessa retorica un po’ (poco? molto?) provocatoria, e di cui la discussione che è seguita, in particolare con gli interventi di Mario Colucci, mi ha convinto.

Non si tratta di mettere in aut aut la scienza e la vita, perché LA scienza come La donna non esiste. Dopo Galilei e dopo Cartesio esistono le scienze. Non esiste il singolare in campo scientifico, neppure come caso clinico, ma già da subito esiste il plurale. Le scienze sono tutte par provision, essendo tutte congetturali; nessuna è padrona a casa propria; nessuna possiede la verità che pure pratica, spesso non sapendo di cosa si tratta.

Allora, prendendo in positivo il mio aut autsi tratta, come diceva Lacan (sarà la mia seconda e ultima citazione), di inaugurare un lavoro istituzionale ma non scolastico di riforma della psicanalisi, facendola transitare dalla metapsicologia freudiana, magari lacanizzata, organizzata come scire per causas, a scienza congetturale senza maestri.

Diceva Lacan nella sua conferenza viennese del 1955, intitolata proprio così: La cosa freudiana o senso del ritorno a Freud: “Cette réforme sera une oeuvre institutionnelle, car elle ne peut se soutenir que d’une communication constante avec des disciplines qui se définiraient comme sciences de l'intersubjectivité, ou encore par le terme de sciences conjecturales, terme où j’indique l'ordre des recherches qui sont en train de faire virer l'implication des sciences humaines”.

In italiano, repetita juvant: “Questa riforma sarà un’opera istituzionale, perché non può sostenersi su altro che sulla comunicazione costante con quelle discipline da definire come scienze dell’intersoggettività, o scienze congetturali, termine con cui indico l’ordine delle ricerche che sono sul punto di far virare l’implicazione delle scienze umane”.

Detto nel mio slang semilacaniano, per cui chiedo venia, l’opera istituzionale, ma non ancora istituita, di riforma della psicanalisi avverrà in collettivi di pensiero metaanalitico, dove analisti, analizzanti e amici della psicanalisi analizzeranno in tempo reale l’analisi che stanno conducendo, a prescindere, pur prendendole per buone, dalle dottrine circolanti freudiane, junghiane, lacaniane, bioniane ecc. Sarà una passe allora, non individuale ma collettiva.
  
 

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