Breve storia del plusgodere (Recensione per J. Lacan, Il Seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro 1968-1969)

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2 aprile, 2019 - 17:36
Autore: Jacques Lacan
Editore: Einaudi
Anno: 2019
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È di recente uscito per Einaudi l’atteso Seminario XVI di Jacques Lacan, Da un Altro all’altro. Il volume, come al solito affidato alla curatela italiana di Antonio Di Ciaccia, raccoglie l’insegnamento dello psicoanalista francese tenutosi a cavallo tra il biennio rovente ’68-’69 e inaugura quello che Jacques-Alain Miller ha definito il paradigma del “godimento discorsivo”.[1] A differenza degli anni precedenti, in cui rimanevano incommensurabilmente separati, ora godimento e significante sono tenuti assieme da una relazione originaria e primitiva. O meglio, il rapporto tra i due è di inclusione disgiuntiva, con il significante che, tentando di rappresentare il godimento, nello stesso tempo lo manca, ridefinendo l’intero statuto della ripetizione come ripetizione di un godimento mai agganciato, sempre irrappresentabile, impossibile e perciò reale. Come ha notato Lorenzo Chiesa, se negli anni ’50 Lacan era interessato ad esplicitare il passaggio da a piccolo (l’allora controparte immaginaria e alienante del soggetto) ad A grande (il luogo simbolico del significante e la sede dell’intersoggettività tout court), a partire dai primi anni 60 sino al culmine di questo Seminario, egli si dedicherà al processo inverso, decretando l’inconsistenza del grande Altro e rimarcando l’alterità reale di a.[2]
Sullo sfondo di questa virata, Lacan vaglia un’impressionante quantità di argomenti, che si estendono dall’attualmente impegnativa questione realista (a quali condizioni è possibile pensare la bruta oggettività del mondo al di fuori della correlazione soggetto-oggetto?), alla prima sentenza della celebre formula del “non c’è rapporto sessuale” (intendendo con ciò l’inesistenza di un significante che rappresenti la sessualità nell’inconscio e la conseguente problematicità del rapporto tra i due sessi), passando per una coerente revisione clinica delle perversioni e della nevrosi, la scommessa di Pascal, l’ateismo e i teoremi d’incompletezza. Sebbene alcune di tali questioni siano solo fugacemente accennate e non ulteriormente esplorate, si può facilmente convenire che il Seminario si concentri su quattro inemendabili punti,[3] che troveranno ulteriore sviluppo nell’insegnamento successivo di Lacan[4]: S1 (il tratto unario), S2 (la batteria di tutti i significanti), il soggetto (barrato) e l’oggetto a come resto irriducibile e marcatore di un’assenza irrappresentabile. Questo quartetto viene pazientemente assemblato da Lacan a partire dal riferimento al plusgodere, indubbiamente il concetto centrale del Seminario. Come è noto, il plusgodere (Mehrlust) viene esplicitamente dedotto a partire dal plusvalore (Mehrwert) di Marx, ma con la specificazione che quello che c’è di nuovo nel pensiero del filosofo tedesco non è da ricercarsi nell’esplicitazione delle logiche del mercato (a cui, tutto sommato, Lacan attribuisce una valenza continuista rispetto a Ricardo e Smith), ma nella scoperta del mercato del lavoro: il plusvalore marxiano è frutto dell’assolutizzazione del mercato prodotta dal capitalismo e del conseguente inglobamento, all’interno del mercato, del lavoro come merce acquistabile. Per Lacan, la parte di lavoro non retribuita all’operaio e frutto di un guadagno extra per il capitalista può essere intesa come “omologa” al plusgodere, la rinuncia al godimento che ogni soggetto deve compiere per poter accedere al Simbolico. Questa rinuncia non deve essere intesa esclusivamente come l’interdizione di un godimento completo e mitico (come nel mito totemico descritto da Freud) ma è, prima di tutto, un effetto strutturale del discorso, consustanziale all’emergenza del soggetto: il godimento perduto è mitico proprio perché si istituisce come l’illusione retroattiva prodotta dal taglio del significante. Rimanendo sulla scia di Marx, Lacan specifica che non è stata di certo la psicoanalisi a far emergere la verità della perdita originaria di godimento (già evidente nella dialettica servo-padrone di Hegel), piuttosto, il suo merito risiederebbe nella possibilità di poter articolare questa rinuncia in un discorso e, da qui, poter isolare l’oggetto piccolo a come plusgodere, ovvero come reificazione di una perdita insanabile e costitutiva della soggettività stessa.[5]  La conseguenza cruciale di questo discorso è che tutto ciò che il soggetto trae dal proprio rapporto con il godimento si caratterizza sempre e solamente come una fallimentare “pratic[a] di recupero”: “quanto il soggetto recupera non ha nulla a che fare con il godimento, bensì con la sua perdita”.[6] Detto altrimenti, il godimento ridotto a plusgodere, esasperato dall’avvento del capitalismo e dalla società dei consumi, è inteso da Lacan come qualcosa che colma, ma in modo tutt’altro che sufficiente, la primitiva perdita di godimento. Il primo e fondamentale rovescio politico di questo assunto non denota semplicemente che questi “insignificanti oggetti a[7], come li chiama Miller (intendendo con ciò i prodotti dell’industria e della cultura), cercano di causare il nostro desiderio per tamponare artificialmente la mancanza a godere, ma il fatto che essi sono, alla fine, tutto ciò che ci è permesso di godere. Il godimento è, per definizione, un surrogato di se stesso. Ancor più significativamente, questo godimento mitico di cui il soggetto manca strutturalmente è ritenuto essere (più o meno inconsciamente) il supposto godimento dell’Altro: il soggetto suppone che sia l’Altro a detenere il godimento che gli è stato sottratto. Questa logica è incarnata dalla figura del capro espiatorio, che prende su di sé (o a cui viene attribuito) l’oggetto a.

Di pari passo con l’irriducibilità della mancanza, dell’oggetto a come osso in gola del Simbolico, il Seminario XVI decreta l’inconsistenza del grande Altro: il campo di inscrizione di quanto si articola nel discorso è senza garanzie, non totalizzabile, e pertanto esente da ogni necessità. Per spiegare questo concetto fondamentale, Lacan recupera la formula del significante pronunciata nel celebre Discorso di Roma, per la quale un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante, e vi aggiunge un nuovo corollario: “un significante non può rappresentarsi a se stesso”,[8] perché esso, in quanto di per sé opaco, può definirsi solo in rapporto ad un altro significante.[9] In altre parole, non essendo autoconsistente, il significante può porsi come rappresentante di se stesso solo differenziandosi dagli altri significanti. Il supplemento di questa tesi di matrice fortemente strutturalista permette a Lacan di trarre due importanti conclusioni, che costituiscono l’ossatura dell’intero seminario: 1) a causa di questa interdipendenza circolare tra i significanti, il soggetto rimane “soffocato, cancellato nel momento stesso [della] sua comparsa” e pertanto ci è impossibile coglierlo direttamente;[10] 2) poiché ogni significante è tale solo in rapporto ad un altro significante, A grande non può contenere se stesso. Mentre il primo punto è parte di un leitmotiv più che consacrato della teoria lacaniana, che in questo modo si oppone a tutti quei discorsi che propinano la presunta autotrasparenza del soggetto (dalla teoria del Sé di Kohut al liberismo capitalista dell’individuo imprenditore di se stesso, passando persino per la fenomenologia di Merleau-Ponty), il secondo assunto è decisamente più denso di conseguenze (sebbene Lacan vi si riferisca, in modo più fugace e semplicistico, già nei primi due seminari[11]) e ridefinisce significativamente lo statuto dell’intera antropologia filosofica lacaniana: se l’Altro del sapere (che è anche il presunto luogo della verità) è, a differenza di quanto dice Cartesio, non garantito, l’unico elemento in cui il soggetto può trovare la propria consistenza è proprio a, in cui prende forma, in modo del tutto singolare e soggettivo, il godimento. Più di preciso, a si pone come l’articolazione (la “posta in gioco”[12]) tra il godimento come sempre-già escluso (ma consistente) e il grande Altro come luogo (inconsistente) in cui si sa. Volendo ulteriormente esplicitare il rapporto tra sapere e godimento, possiamo dire che poiché la struttura del linguaggio è differenziale e perciò sempre priva di un significante, la falla di A è prima di tutto una falla di sapere. Ma ciò non vuol dire che l’Altro non sa, piuttosto, esso non sa di sapere. Perché? Perché esso non è un soggetto (al contrario, è proprio il nevrotico che trasforma l’Altro in un Altro soggetto, imputandogli un sapere assoluto).
Contro la doxa lacaniana e in stretta correlazione con quanto detto sinora, il Seminario XVI si rivela probabilmente il momento più politico dell’opera di Lacan, persino più del celebre Seminario XVII. A partire dall’inconsistenza del grande Altro e dalla formalizzazione della relazione disgiuntiva tra sapere e godimento, Lacan articola una vera e propria genealogia del modo in cui l’umanità è venuta a patti con la rinuncia al godimento. Come vedremo, il successo di una simile analisi non sta solo nella dimostrazione del carattere trans-storico della perdita di godimento e nello smascheramento dell’ideologia pre-capitalistica come ciò che scherma fantasmaticamente questa assenza, ma nella sua imminenza rispetto alle vicende personali dello stesso Lacan, che giudica la soppressione del suo seminario da parte dell’École normale una conseguenza diretta della mercificazione del sapere. In breve, per Lacan il rapporto disgiuntivo tra sapere e godimento (il fatto che il sapere emerga a partire dalla rinuncia al godimento e, correlativamente, che il godimento sia pensabile solo dalla prospettiva del sapere, cioè del Simbolico) è trans-storico, mentre ad essere storicizzato e contingente è il rapporto tra il sapere-godimento da una parte e il lavoro dall’altra.
Di conseguenza, la rinuncia al piacere per come essa è intesa dalla morale moderna non è altro che il prodotto di una “frattura” storica tra il versante pre- e post-capitalistico. Nell’antichità, dice Lacan, il godimento era apparentemente escluso a vantaggio di un certo uso dei piaceri, e concepito come “giusta misura”, rapporto armonico con la Natura. Pertanto, più che interrogarsi sul godimento perduto, la questione degli antichi era quella di chiedersi per quale motivo certi piaceri esulassero da tale giusta misura. Lacan riformula questo tipo peculiare di ascetismo con l’espressione “non troppo lavoro”,[13] sottintendendo come, a differenza degli antichi, oggi il rifiuto del lavoro non sia più un’inclinazione naturale, ma una sfida che, come dimostrano gli scioperi, costringe a “sputare sangue”.[14] Eppure, lungi dal riferirsi ad una sorta di differente articolazione tra sapere e godimento, per Lacan l’antica concezione di piacere (edoné) non è altro che un fantasma in cui la perdita di godimento è schermata dall’illusione di un grande Altro (la Legge della Natura) consistente. Con il capitalismo invece, l’inconsistenza del grande Altro viene clamorosamente alla luce (tanto che, specifica Lacan, ritenere questa evidenza una scoperta demistificante e sovversiva è “ridicolo”) e la pratica del piacere viene affidata ai mezzi di produzione: al Bene/Legge dell’antichità si sostituisce la proliferazione degli oggetti a, che cerca di tamponare indefinitamente il buco del godimento. Di conseguenza, mentre da un lato i piaceri sono molteplici e mai del tutto soddisfacenti, dall’altro ognuno di essi è regolato in un modo tale da fungere, paradossalmente, da barriera al godimento, anziché da suo incentivo: per rendere l’idea di questo ambiguo rapporto, Lacan cita l’esempio contraddittorio di una pubblicità per vacanze che, mentre intona il suo irresistibile “inno al sole”, “sulla pagina accanto” impone “le condizioni dello skilift”.[15]
Per Lacan, questo paradosso è dovuto al cortocircuito tra sapere e potere (e, correlativamente, tra sapere e lavoro) prodotto dall’avvento del capitalismo. Già Hegel, come abbiamo detto, aveva articolato tanto la disgiunzione tra sapere e potere, quanto l’incompatibilità radicale tra potere e godimento (che nell’antichità erano connessi in modo non problematico, in quanto era il sapere del saggio a conferirgli il potere di amministrare i piaceri). Per Hegel, il sapere origina nel servo, con il suo lavoro, in forma di saper-fare. È il padrone, in questo caso, a godere di un “recupero” del godimento (in questo passaggio, è cruciale non confondere il godimento oscuro e non valorizzabile del servo con quello che il padrone ottiene tramite il servo). Nel capitalismo, questa relazione entra in cortocircuito: sapere e potere (per lo meno il potere tradizionale) sono disgiunti e, in parallelo, si viene a creare un mercato del sapere, che attraverso il discorso dell’università si articola come sapere-godimento. Se da un lato il servo, ora libero, viene soggiogato al plusgodere (ovvero a godere di un non-godimento), perdendo così il suo saper-fare e la sua oscura connessione con il godimento, dall’altro, come dimostra Lacan citando l’esempio della Fiat, il padrone industriale non sa più nulla del lavoro dell’operaio, non ha la minima idea di cosa egli stia facendo. Il vecchio potere del padrone hegeliano è ora obsoleto, quasi ridicolo. Il semplice fatto che un alto funzionario o un eminente rappresentate governativo possano dimettersi dal proprio incarico senza che vi siano conseguenze catastrofiche dimostra che il vero potere è altrove rispetto al suo luogo tradizionale: esso, ora, è nel sapere della scienza, strutturalmente disconnessa dal vecchio potere. Grazie a questo micidiale rapporto con la scienza, afferma Lacan, il capitalismo ha creato un mercato del lavoro di portata universale che, contemporaneamente, ha condotto ad un’omogeneizzazione del sapere e alla mercificazione di quest’ultimo, ormai omologato a tutti gli effetti ad una valuta. In sintesi dunque, la stretta tra capitalismo e scienza ha dato luogo ad un mercato del sapere che, come dimostrano le università, fanno dei suoi “pezzett[i] di carta” una merce equivalente ad ogni altro plusgodere. Infatti, così come nel plusvalore prodotto dalla forza-lavoro, anche nel sapere c’è qualcosa che, “pur essendo pagato (…) secondo le norme del mercato della scienza (…) è ottenuto per niente”.[16] A sua volta, l’omogeneizzazione del sapere ha permesso di ordinare le insoddisfacenti pratiche di godimento: il vecchio saper-fare del servo viene sostituito dal plusgodere operaio e, con la definitiva separazione tra lavoro e godimento, quest’ultimo viene proiettato come “un punto infinito”, che se non può essere raggiunto, può però essere supposto appartenere all’Altro, che ne gode al posto nostro (l’odierno scapegoat dell’immigrato, gli ebrei della Germania nazista, il popolo armeno nell’Impero ottomano eccetera). Con la mercificazione del sapere nelle università, il grande Altro viene nuovamente e illusoriamente articolato come Uno. In questa prospettiva, compito della psicoanalisi è, per Lacan, non quello di porsi come un discorso senza sapere, ma di costruire un sapere che non sia assoluto (non Uno): un sapere sulla verità che riveli il modo in cui la verità d’inconsistenza produce (anziché reprimere) il sapere.
In conclusione, vale la pena soffermarsi brevemente sui due eventi che hanno coinvolto personalmente Lacan durante questo seminario, e che lo psicoanalista francese non ha mancato di contestualizzare nel corso delle sue lezioni: l’evento del Maggio ’68 e la sua ‘scomunica’ dall’École normale.
Come premessa generale, bisogna riconoscere a Lacan di essere riuscito a leggere Marx senza cadere nella tentazione freudo-marxista (o nella sua originale ma dopo tutto analoga riformulazione schizoanalitica à la Deleuze e Guattari) di tradurre direttamente i concetti marxiani in termini psicoanalitici: benché Lacan definisca il plusgodere “la stessa cosa” del plusvalore, la loro omologia, più che concettualmente, si esplica sul piano logico o, ancor meglio, topologico. Lungi dal rischiare una sintesi improduttiva delle due discipline, il principale vantaggio della critica dell’economia politica offerta dalla psicoanalisi lacaniana attraverso il marxismo sta nel fatto che, come scrive Samo Tomšič, entrambe reintroducono “la negatività come soggetto in ciò che appare la macchina puramente vitalista ed autonoma del capitale”.[17] Postulando che il godimento strappato al soggetto sia solo presunto appartenere all’Altro, Lacan si svincola da qualunque rischio di ricadere in quella che Foucault ha definito “ipotesi repressiva” (l’idea che solo la trasgressione delle leggi e la rimozione dei divieti possa condurre ad un’emancipazione totale).[18] Il godimento non è sequestrato dai mezzi di produzione, né è irrappresentabile perché avidamente trattenuto dai ricchi e potenti capitalisti. Esso è irrappresentabile perché la sua perdita è sempre-già reale. Pertanto, il godimento sostitutivo offerto dalle insignificanti merci a non è da intendersi come un surrogato insufficiente distribuito ponderatamente da un sistema repressivo e oppressivo, quanto come l’evidenza definitiva dell’impossibilità di qualsiasi oggetto di tappare una volta per tutte la falla del godimento. È su questo sfondo che bisogna leggere la peculiare posizione di Lacan nei confronti del ’68. Diversamente dagli altri intellettuali a lui contemporanei (Deleuze, Foucault, Lyotard eccetera), che hanno fornito interpretazioni diverse ma sostanzialmente accomunate da un generico sostegno all’evento del Maggio, Lacan è sempre stato fermamente convinto che, piuttosto che “fermare il mercato del sapere”, i fatti del ’68 non hanno fatto altro che consolidarlo.
“Per me tutto ciò fa da eco, conferma, risonanza a qualcosa che mi turba quando sento delle brave persone enunciare dopo il subbuglio del Maggio: mai più come prima. Io penso che, al punto in cui ci troviamo, è più che mai come prima”.[19]
In particolare, soffermandosi sul concetto di rivoluzione, Lacan sembra concepirne due versanti, entrambi severamente criticati: da un lato, egli definisce la prima delle due varianti come reazionaria e improntata a ristabilire una forma tradizionale di potere opposta alle “grandi noie” del capitalismo (è il caso, dice, della rivoluzione comunista russa); dall’altro, Lacan condanna anche la variante progressista della rivoluzione, secondo lui al servizio delle astuzie del capitalismo (come è il caso della contestazione giovanile, ordita dal nascente mercato del sapere e manipolata internamente da esso). Ma ad una più attenta analisi, si potrebbe dire che Lacan non si schieri in toto contro l’idea di rivoluzione. Anche Bruno Moroncini sembra cogliere con pertinente chiarezza questo rovescio, quando in una nota del suo Lacan politico scrive che “la sana diffidenza [di Lacan] verso i proclami umanitari (…) non esclude affatto, anzi può perfino favorir[e] atti e pratiche di segno inequivocabilmente rivoluzionario”.[20]
A questo punto dunque, appare più corretto dire che più che il concetto di rivoluzione in sé e per sé, Lacan  ripudi la sua strumentalizzazione a titolo di puro significante vuoto: entrambi i casi precedenti sembrano retrocedere l’ideale rivoluzionario a quello di mera riforma, producendo di conseguenza un significante falsamente emancipativo, che non fa che “peggiorare i suoi effetti”.[21] Più che tra i “clamori dell’agitazione”, per Lacan la “svolta decisiva” va ricercata direttamente nel sapere. Il capitalismo, continua Lacan, richiede la rivoluzione per tenere a bada la scienza, pertanto, se non si vuole rischiare di precipitare la psicoanalisi in un discorso che, contro la scienza, miri a ristabilire una vecchia concezione di potere (e dunque una psicoanalisi anch’essa reazionaria), è necessario estrarre il “nuovo” a partire da una sovversione della gestione del sapere. La vera rivoluzione politica per Lacan deve spezzare il circolo sapere-potere e riconcepire il sapere come “causa di sé”, ovvero come inseparabile dalla verità d’incompletezza isolata dalla psicoanalisi (e dunque lontano dai tentativi di totalizzazione illusoria del potere).[22] Contro la frettolosa tendenza a sottovalutare il discorso politico di Lacan come eccessivamente astratto ed intellettualistico, possiamo addurre come prova pratica che la sua ‘scomunica’ dall’École sia avvenuta proprio per aver toccato una vena scoperta del sistema del sapere. A seguito della comunicazione della sospensione del seminario per revoca della sala Dusanne e in un clima di tensione generale, il direttore amministrativo dell’istituto giustificò tale decisione definendo l’insegnamento di Lacan “col vento in poppa”, ovvero, fuor di metafora, “anti-universitario”.[23] È tutt’altro che sintomatico, a riguardo, che Lacan termini il seminario (cui farà seguito una ricca polemica sulle colonne di Le Monde) con la distribuzione di 300 copie della lettera in cui viene comunicata la sospensione del suo insegnamento, aggiungendo sardonicamente:
“Quello che avete appena udito ho trovato che valesse la pena fotocopiarlo in un numero di copie sufficienti, almeno spero, per i miei uditori di oggi. (…) Si tratta di S1, capite. Sarete tutti legati da qualcosa, saprete che siete stati qui il 25 giugno 1969. (…) È un diploma. (…) Un giorno potrei benissimo dire che tutte le persone che hanno questa carta possono entrare in una certa sala per una comunicazione confidenziale sul tema delle funzioni della psicoanalisi nel registro politico.”[24]
 
 
Bibliografia
Chiesa L., Il castello troiano: sapere, godimento e grande Altro in Lacan e Kafka, disponibile su http://www.journal-psychoanalysis.eu/il-castello-troiano-sapere-godimento-e-grande-altro-in-lacan-e-kafkai/.
Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1985.
Lacan J.

  • Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi 1969-1970, Einaudi, Torino 2001.
  • Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi 1954-1955, Einaudi, Torino 2006.
  • Il seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro 1968-1969, Einaudi, Torino 2019.
Miller J-A., I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001.
Moroncini B., Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014.
Safouan M., Lacaniana. Les séminaires de Jacques Lacan 1964-1979, Fayard, Paris 2005.
Tomšič S., The Capitalist Unconscious: Marx and Lacan, MIT Press, MA 2015.
 
 

[1] Cfr. J-A. Miller (2001), pp. 24-33.
[2] Cfr. L. Chiesa (2019).
[3] Su questo punto si veda M. Safouan (2005), p. 201.
[4] Si veda a riguardo J. Lacan (2001).
[5] Seguendo ancora una volta Chiesa, è opportuno specificare che a non coincide del tutto con il plusgodere, ma con ciò che viene prodotto, sotto forma di perdita, a partire dalla rinuncia al godimento (Cfr. L. Chiesa (2019)).
[6] J. Lacan (2019), p. 111.
[7] J-A. Miller (2002), p. 33.
[8] J. Lacan (2019), p. 15.
[9] Tale formula è estendibile anche al plusvalore marxiano, in cui il soggetto di valore è rappresentato dal valore d’uso.
[10] Ibidem.
[11] “Ciò di cui si tratta con il sapere assoluto (…) è che il discorso si richiuda su se stesso, che sia del tutto d’accordo con se stesso, che tutto quello che può essere espresso nel discorso sia coerente e giustificato”. Oppure: “Il discorso compiuto, incarnazione del sapere assoluto, è lo strumento del potere, lo scettro di coloro che sanno” (J. Lacan (2006), p. 84).
[12] J. Lacan (2019), p. 325.
[13] Ivi, p. 106.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 108.
[16] Ivi, p. 36. È ancora Lorenzo Chiesa che, in un suo recente intervento, ha fatto notare come gli accademici, dovendo produrre i loro articoli al di fuori dell’orario di lavoro, partecipino attivamente di questa entropia. Si veda: https://vimeo.com/279019159.
[17] S. Tomšič (2015), p. 5.
[18] Cfr. M. Foucault (1985), pp. 19-48.
[19] J. Lacan (2019), p. 164.
[20] B. Moroncini (2014), p. 10.
[21] J. Lacan (2019), p. 236.
[22] Ivi, p. 391.
[23] Ivi, p. 399.
[24] Ivi, p. 401.
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