Alzheimer e dintorni. Ontologia senza linguaggio. La solitudine dei "Caregiver"

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17 giugno, 2019 - 14:49
Ognuno sta sul cuor della terra,
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
Salvatore Quasimodo
 
 
Il 19 agosto dell’anno scorso, 2018, una domenica pigra di notizie rilevanti, il Fatto Quotidiano metteva in prima pagina una vicenda relativa a una patologia degenerativa, di cui temiamo tutto e sappiamo niente. Attualmente non è che il nostro presente mediatico nazionale sia meno “pigro” dell’anno passato, anzi tra un qualcosa d’incredibile che si potrebbe dire guerra per bande, vediamo divampare quotidianamente tra i tre poteri dello Stato (legislativo,  esecutivo, giudiziario) un conflitto dai toni esasperati che non accenna a diminuire. La carta stampata, d’altro canto, come i notiziari non fa eccezione, prevalgono le vicende di cronaca nera con delitti efferati, dove s’insinua proditoriamente quella eterna campagna elettorale in cui purtroppo s’è trasformata l’Italia. Spostando l’occhio sugli esteri, le cose non vanno meglio. Nessuno sembra voglia calmarsi e tutti sembrano aver dimenticato che il 24 ottobre 1945 la vecchia e fallimentare Società delle Nazioni fu sostituita  dalla “'Organizzazione delle Nazioni Unite” (ONU) un'associazione intergovernativa a carattere internazionale, con l’impegno solenne a mantenere la pace. Poi tutti sanno com’è andata a finire, ma fortunatamente la terza guerra mondiale al momento è scongiurata.
 
Torniamo ai problemi della salute e della salute mentale in particolare, perchè generalmente fanno sempre grande ascolto. Il tema del decadimento cognitivo poi, quando viene richiamato da giornalisti noti e competenti, risveglia l’angoscia e l’interesse generale. La firma era quella di Selvaggia Lucarelli. Il titolo e l’occhiello, coinvolgenti, condensavano l’essenziale: «Il grande spavento - Mentre Selvaggia Lucarelli è in vacanza in Sud America, la madre malata di Alzheimer sparisce per molte ore. Continuo a perdere mia madre anche ora che l’ho ritrovata». Vale la pena di trascrivere l’incipit dell’articolo che prosegue a p. 19.
 
«Quando mi hanno detto che mia mamma non si trovava più, mi ero appena seduta in una specie di postribolo ficcato in una via polverosa di Ollantaytambo, un paesino di poche anime con delle belle rovine Inca e un treno che va dritto verso la stazione degli autobus ai piedi di Machu Picchu, in Perù. Mi ero appena collegata al wifi zoppicante del locale quando mi accorgo che mio fratello mi aveva scritto su Instagram: “È sparita la mamma”. Viaggio molto ma raramente sono stata così lontana da casa, per cui la prima cosa che ho pensato è che il luogo che sognavo di vedere da una vita era diventato un carcere. La seconda è “Lo sapevo”. È qui, perché non pensiate che sia una menefreghista, faccio un salto all’indietro. La mamma di mia mamma si è ammalata di Alzheimer in età avanzata […] Del resto, quando la cercavamo, sapevamo che lei, la nostra vera mamma, non l’avremmo trovata comunque. Però è tornata a casa quel che di mamma resta: la sua parte ammaccata. E questo ci basta». [01]
 
Le buone penne sanno descrivere l’essenziale e toccare le corde giuste dei sentimenti. È il loro mestiere, dopo tutto, che diventa prezioso, istruttivo e didattico, quand’è fatto correttamente.
 
La vecchiaia è uno dei principali tormenti che affligge l’umanità - senectus ipse morbus diceva Terenzio - che diviene drammatico se l’invecchiamento è patologico. Molti problemi e paure della vecchia Europa dal passato coloniale, dipendono dalla sua denatalità e dalla sua vecchiezza. L’aumento del deterioramento cognitivo, fra i suoi abitanti, ne è una delle conseguenze dell’avere pochi nipoti. Ricordo un Collega francese ad un Convegno sugli anziani in Piemonte venirsene fuori con una affermazione efficace, divertita, istruttiva, che indicava gli Italiani ad esempio: «Gli Italiani sanno bene come preparare la loro pensione. Fanno molti figli hanno famiglie numerose e molti nipoti. Ah! Les Italiennes!» [02]
 
I neuropsichiatri di una volta come Lorenzo Calvi, tanto per dire [03], conoscevano bene anche la neurologia. Vero è che alla prova di docenza avevano cura di esporre nel curriculum da presentare ai membri della commissione, che si erano esercitati in entrambe le discipline (neurologia e psichiatria) con uguale perizia e competenza, come si poteva evincere dal numero dei lavori presentati, dove, però, a superare di poco la parità, c’era sempre una strizzatina d’occhio in più, ai maestri della nevrologia di stampo organicistico. C’era anche chi andava prima dai membri della commissione a portarglielo rilegato, il curriculum, talvolta direttamente alla cattedra di cui era titolare, presentandosi al docente per illustrare il proprio progetto di ricerca. I neuropsichiatri di una volta, anche quelli che non erano particolarmente inclini alla psichiatria, conoscevano bene il cervello, questo nostro prezioso e indispensabile compagno di un chilo e mezzo di sostanza molliccia tra bianca e grigia, con l’aggiunta di quel formidabile servomeccanismo che è il cervelletto.
 
Andavamo a studiarlo in luoghi speciali e silenziosi, l’encefalo, le sue sezioni i suoi preparati conservati in formaldeide, noi specializzandi, alla Clinica Neuro di Roma. Il luogo deputato stava all’ultimo piano, il terzo, con affaccio sul Viale dell'Università, 30. Salire al laboratorio istologico era come andare in chiesa. Era il pezzo del Gozzano “tedesco” ospite dei coniugi Vogt [04]. Da loro, infatti, di cui era stato ospite, aveva perfezionato la conoscenza dell’istologia neuropatologica, prima di dedicarsi all’elettroencefalografia che introdusse in Italia. Mi ricordo Marco, il tecnico sardo che seguiva Gozzano dalla clinica di Cagliari. Era indispensabile per sostenere l’esame di neuroanatomia con Vittorio Challiol. Dava lezioni privatissime agli specializzandi su sezioni di encefalo o te lo mostrava intero in barattolo di formalina: polo anteriore, posteriore, temporale, insula, centro di Broca. Sapeva tutto sulle colorazioni, dall’ematossilina-eosina, alla colorazione argentica di Nissl. Confesso di essermi cimentato anche con un preparato di non so più cosa. Di aver provato l’emozione dell’inclusione in paraffina, del microtomo, delle “fettine”, del vetrino, del coprivetrino, ecc. Mi ricordo Antonio Marras un Collega atletico e silenzioso, stabile in laboratorio istologico. Mi sovviene di Enrico Mariani, un mago sul “liqor” quando glielo portavi fresco di pielle.
 
E fra i neuropsichiatri di una volta non possiamo non ricordare due dei miei maestri, Cristoforo Morocutti (1927-2015), veneziano, che era andato in Belgio a studiare all’Istituto Bunge di Anversa diretto da Ludo van Bogaert, (1897-1989),  e Raffaello Vizioli (1926), napoletano, che era andato in Francia da Henri Gastaut (1915-1995) alla scuola neurofisiologica di Marsiglia, ma questa è un’altra storia. E ancor meno, si possono lasciar fuori dalla citazione i loro coevi Colleghi torinesi Davide Schiffer (1928) e Ludovico Bergamini (morto qualche anno fa), della Scuola di Dino Bolsi (1898-1975).
 
In tutti codesti neurologi e psichiatri,era sempre presente il conflitto antinomico mente cervello. «... un problema di portata gigantesca – scrive Davide Schiffer, oggi novantenne – in quanto tocca l’annosa questione del rapporto mente/cervello che in ambito non scientifico è ancora discusso in termini di contrapposizione fra riduzionismo e anti-riduzionismo. Scientificamente oggi la contrapposizione non ha senso e non vi sono dubbi sull’essere quella che chiamiamo “mente” un’espressione del cervello: ne fanno fede il rapporto fra la complicatezza del cervello e lo sviluppo della “mente” nella filogenesi e le modificazioni organiche che l’apprendimento induce nel cervello. Il grande Eric Kandel ha dimostrato che mentre la memoria a breve termine induce modificazioni funzionali nel cervello, quella a lungo termine ne induce di anatomiche (modificazioni delle sinapsi)»  e più avanti ribadisce «Se non che, in realtà il punto di incontro fra il biologico e la soggettività, come dice Kandel, e cioè fra l’atto neurale e l’atto mentale non è o non è ancora conosciuto». [05].
 
Dunque, parlando di “Malattia di Alzheimer” codesti neuropsichiatri di un tempo, sapevano bene di che si trattava. Conoscevano la celebre Clinica di Monaco di Baviera. Qualcuno, come Ugo Cerletti Francesco Bonfiglio e Gaetano Perusini  vi era anche stato a perfezionarsi, prima che scoppiasse la “Grande Guerra”. Sapevano di una strana encefalopatia degenerativa primaria che aveva colpito la signora Auguste Deter, moglie di un ferroviere che aveva perso la memoria in giovane età ed era stata colà ricoverata nel 1906. Risultava in effetti la prima paziente osservata clinicamente e descritta neuropatologicamente dal prof. Alois Alzheimer. Successivamente, Emil Kraepelin ed altri psichiatri del tavolo anatomico e della psicopatologia descrittiva, convennero di legare  l’eponimo di Alzheimer alla patologia mentale studiata dal Collega monacense nella sua clinica universitaria. Poi vi furono molte correzioni, perchè Cerletti si adoperò per fare aggiungere il nome del Collega Perusini, un friulano morto in Guerra. Perchè si seppe che il prof Otto Binswanger (1852-1929), zio di Ludwig, aveva descritto precedentemente una forma di demenza vascolare, che gli fu riconosciuta a parte. Perchè il neurologo berlinese Frederic Lewy (1885-1950) descrisse un’atrofia multisistemica parkinsoniana, legata a una forma di demenza denominata “a corpi di Lewy”. Ci si convinse anche, infine, che rispetto al numero di casi di deterioramento cognitivo in aumento e alle ripercussioni sui caregiver, la questione dell’eponimo diveniva del tutto trascurabile.
 
Quanti sono.
Oltre 10 anni fa, VITA, un periodico in italiano interamente dedicato al terzo settore pubblicava un servizio di Sara De Carli  (21 giugno 2007). Titolo e occhiello non tranquillizzavano, come numeri e percentuali. «Alzheimer: in Italia la percentuale più alta d’Europa». «Presentati a Milano i dati dello studio europeo Dementia in Europe 2006». «In Europa ci sono 6,4 milioni di malati di Alzheimer. Solo in Italia sono tra gli 820 e i 905 mila: tra l'1.4 e l'1.5% della popolazione. Le previsioni, come già annunciato da Lancet a fine 2005, sono che entro il 2050 queste cifre raddoppino».
 
Ho atteso, ormai per lungo tempo, che saltasse fuori un vecchio saggio clinico sulle demenze (presenili e senili) di Eugène Minkowski (1885-1972) nato a San Pietroburgo, da genitori, ebrei ortodossi, che provenivano dalla Lituania, ma che sarebbe successivamente arrivato fino all'ospedale S. Anna di Parigi, dopo aver attraversato tutta l’Europa. Volevo rileggerne un passo, ma dalla mia biblioteca o dagli scatoloni non è saltato fuori proprio nulla. Ciò che m’aveva colpito e che tenevo a mente, era che nel dialogo riportato dal maestro francesizzato di origini russe, venisse riprodotto lo stato di sudditanza della paziente nei confronti dell’indagine clinica dalla quale tentava di difendersi usando il carducciano eterno femminino. «Perchè mettete in rilievo la debolezza della mia memoria, signor dottore? Non è galante da parte di un uomo come voi, verso una donna, come me!». Bellissimo e finissimo il passo, dove la paziente smemorata sapeva cogliere la differenza di genere e usarla debitamente. Dell’autore di Tempo vissuto, si poteva, invece, apprezzare, la dimostrazione pratica della sua tesi del contatto vitale con la realtà.
 
Diciamo che la mitologia è il luogo dove gli esseri umani raccontano e rappresentano le loro passioni, le loro azioni, i loro desideri più torbidi, fino ai più cruenti, malvagi ed efferati, attribuendoli tutti agli dèi per renderli innocui, incolpevoli, accettabili, ma soprattutto vivibili. I Greci antichi ne stabilirono anche il luogo geografico ideale, naturalmente fissato da Giove: il Monte Olimpo. Proprio in virtù di tali supposizioni fantasiose, Publio Terenzio Afro (185-159 a.C.), un commediografo tunisino di origini berbere affermatosi in Roma come autore intorno al quinquennio (155-160 a.C.), fu il primo a sentenziare «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» per bocca di Cremete nella commedia Il punitore di sé stesso (Heautontimorùmenos, v. 77).
 
Sappiamo dalla mitologia che Eos, la bellissima regina dell’Alba, sorella del Sole e della Luna, è talmente attratta dalla fisicità di Titone, un semplice eroe troiano, suo giovane amante, da chiedere a Zeus di renderlo immortale, scordandosi però di aggiungere che gli fosse concessa anche l’eterna giovinezza. Passa il tempo e pian piano Titone diventa vecchio, brutto, rinsecchito, da non potersi guardare. Il decadimento non è soltanto fisico ma anche cognitivo. Impietositasi, la dea ottenne che fosse mutato in una cicala, l’insetto dell’ordine delle cicadidi che coi suoi continui frastornanti ronzii frinisce perpetuamente da mattina a sera (solo il maschio) fino al sopraggiungere dell’inverno.
 
Cosa non sono più.
Fuor di metafora, vivere accanto al portatore di un declino cognitivo vascolare procurato dallo Status Marmoratus, per esempio, o di qualsiasi altro genere, è molto impegnativo. Già è difficile immaginare che la base dell’encefalo di questo soggetto sia stata ridotta comme un table de bistrot en marbre à roche gypseuse (pierre à plâtre), senza più mare, nè sale, nè anidrite e neppure avventori che vengano a chiacchierare, a bere, a giocare a carte, intorno ai tavolini di questo bistrot.
Tutto svanito. Tutto evaporato! Con in più (o in meno), una sorta di rigidità pallidale dei Vogt [06], che magari ti rinserra accartocciata in avanti, parkinsonianamente parlando, come a tornare anacliticamente in una posizione fetale, talvolta anche camptocormica, cioè storta a sinistra, rispetto all’asse della c.v. ma anche a destra, secondo i capricci della natura che ha esaurito il suo compito principale.
Anche l’intimità condivisa, si spegne, evapora, muore.
L’intimità esplorata in adolescenza, poi condivisa per la vita, finché c’è stata comunicazione e oltre, fors’anche quand’era divenuta comunicazione automatica, pura gestualità, chi può dirlo ... prima, invece, prima quando?... bastava un cenno d’intesa, una pressione della mano, una carezza, ma non in testa, ché ti dava ai nervi... 
E il linguaggio? Anche quello strumento potente della umana presenza, si perde. Si, la disartria, la parola impuntata, scandita, a patata bollente, tutto ciò che è segno, semeiotica neurologica, passi, ma la voce, la sua voce? ... il tono, il colore, il timbro, il fiato ... tutti appiattiti sulla ecolalia.
Lo sguardo? Spento, vuoto, assente, sgretolato, inerte. Anche il primo paio di nervi cranici, l’olfattivo è smarrito come un pugile suonato. Mancano i suoi consensi e i suoi divieti, indispensabili. Invece, prima, i segnali fulminei, precognitivi, attacco/fuga, quelli del cervello rettiliano, il cervello viscerale di Maclean, il plesso celiaco o solare, ventralmente al passaggio dell'aorta nel diaframma per il forame aortico, il circuito di Papez? Quanto hanno lavorato, censurato, validato, il colpo d’occhio, di fiuto, l’assaggio col palato, la degustazione, lo stropicciar tra le dita...  prima, invece, ma quando? Nessuno lo ricorda più!
 
Allora senti, percepisci, avverti, dalla vicinanza materica, che la cara presenza con la quale magari ti è capitato di condividere una esistenza intera, ti sfugge, si appiattisce, non ha più maniglie ... prese ... appigli. S’impasta e si solidifica giorno per giorno, diventando lava fredda. Si marmorizza. Cambia stato bio-fisico, bio-logico, si trasforma, s’impoverisce, perde. Ora per ora. Minuto per minuto. Quella presenza non rimanda più, non con-divide più, non partecipa più. È viva ma senza vita di relazione. Hai perso il futuro, ma ti resta una forma di vita. È spenta ma sotto la cenere grigia qualcosa ti par (o t’illudi) che sfavilli anche ad un tenue alitar di vento.. Una piccola brace?
Allora ti domandi com-prende? Cosa, come, di chi, di che? Di me, di te di sé? Dei figli, dei nipoti? Del resto che la circonda? A volte pare di si. Ma, ti domandi, sono solo segni neurologici, il Witzelsucht di Oppenheim, oppure battute di spirito, per nulla spiritose, facezie , barzellette che in tedesco fanno capo alla radice Witze, come ad esempio le storielle yiddish?
 
E invece niente di tutto questo! Se tu, per esempio, inizi a recitare una nenia infantile, una canzone, una poesia, anche in dialetto, conosciuta da bambina, lei interrompe la sua verbigerazione e ti vien dietro per continuare col nuovo copione come se fosse avvenuto uno scambio di temi verbigerativi, uno shunting. Se riesci a forzare il suo apparente isolamento trascinandola magari in una parola che suona «... In casa i vegi  e i zuveni / Con tutta serieté / Mettese a fa’ u presepiu / Con de papée amacée / Dàgghe ’na forma artistica / De case en lontananza / E ruvinade 'e stanse / Per cuntentà i figée!», vuol dire che il messaggio alla cabina-regia della ragione è giunto a destinazione. I risultati comunicativi restano “intelligenti” anche se aumenti il tasso di difficoltà del testo, cambiando poesia con un Pascoli sperimentale, e difficilissimo, mimetizzato nelle filastrocche di “Valentino”. Se accendi la musica della poesia col canto della parola «Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini! / Solo, ai piedini provati dal rovo /  porti la pelle de’ tuoi piedini; /... Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco / non ti bastava, tremavi, ahimé!, / e le galline cantavano, Un cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te!», lei continua senza fallire un colpo, l’eloquio limpido, la voce impostata, a patto che la tua voce non soverchi la sua, altrimenti smette, fintanto che si fa silenzio, poi riprende da sola. Deve essere ben chiaro chi e il protagonista, chi recita, chi occupa il centro della scena dove sta la buca del suggeritore. Possibile, ti domandi, che tutto quanto appreso, stratificato, costruito, in anni di studio, di apprendimento, che segnano quel che si dice un livello culturale, sparito nel cervello smemorato, ricompaia prodigiosamente in un cervello, ancor meno in salute. Marmorizzato da vasi essiccati o impastato in un pongo betamiloidosico con placchette neurofibrillari solo in alcune zone della irrorazione cerebrale alterata.
 
Ogni caso fa storia a sé, i clinici lo sanno bene, i caregiver invece no. Non è obbligatorio, ma è anche possibile che in fase molto avanzata, sopraggiunga la sitofobia, che si voglia continuare  ostinatamente l’ospedalizzazione domiciliare, escludendo il ricovero per principio, e infine le vene non si prendano bene perchè collassate. Allora bisogna inventarsi qualcosa di molto ingegnoso e soprattutto amorevole che assomigli ad una alimentazione e idratazione enterale assistita. Un impegno titanico che soltanto un gruppo famigliare molto stretto e molto legato, talvolta è capace di mantenere.
 
A titolo di esempio possiamo illustrare un pasto tipo, a scelta (colazione, pranzo, merenda, cena). Iniettare mediante siringa 5/10 ml del cibo frullato  precedentemente, alternato a bicchieri d’acqua od altra bevanda non gassata. L’operazione è estremamente difficile, non priva di rischi per bronco-polmonite ab ingestis, specialmente se il soggetto abbia a verbigerare, poiché  bisogna aver cura di farlo inghiottire tra una parola e l’altra. Se l’operazione avviene correttamente, il soggetto, dimostra di possedere ancora un buon controllo degli organi di fonazione (faringe, laringe, nervi cranici IX, X, XI) e capacità respiratoria. Ogni tanto può sopravvenire un colpo di tosse a schiarire il traffico fonatorio-deglutitorio, ma ... è capace di continuare per ore. Può cambiare di poco, talvolta, il tema della glossolalia, purché sia cadenzata indisturbata, ininterrotta fino a spegnersi autonomamente. C’è chi ha interpretato questa situazione come un farsi compagnia, una lallazione per combattere la solitudine, rammentandosi un termine perchè la è la parola che segnala l’umano (Marco, un genero geografo, che sa leggere la musica e suona la chitarra).
Torna in mente quel relatore francese di “Anziani in Piemonte” « Ah! Les Italiennes
Se non temessimo d’incomodare uno tra i giganti preferiti, concluderemmo il presente saggio breve col canto di Giacomo Leopardi (Il Passero solitario).
 
...: e intanto il guardo
40        steso nell’aria aprica
 
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno.
45        Tu, solingo augellin, venuto a sera
 
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
            ....
 
Note.
[01]. Selvaggia Lucarelli, e la prima a lanciare la campagna di sensibilizzazione con un articolo riguardante la sua nonna. Il Fatto Quotidiano, lo pubblica sul numero di mercoledì 10 gennaio 2018.  il Secondo articolo esce domenica 14 gennaio 2018. Il terzo ed ultimo, per ora, domenica 19 agosto 2018 p. 1 e p. 19.
[02]. Cfr. Mellina Sergio. Meccanismi di esclusione sugli anziani poveri. Regione Piemonte “Anziani in Piemonte”. Atti del Convegno organizzato dall’assessorato all’assistenza nella sede del consiglio regionale di Palazzo Lascaris nei giorni 22-23-24 febbraio 1980. Edizione curata dal Dipartimento servizi Sociali Assessorato all’Assistenza, Eda, Torino, 1980, pp. 150-156.
[03]. Si rimanda a POLIT psychiatry on line Italia 28 giugno 2018 Sergio Mellina. Un ricordo di Lorenzo Calvi (1930-2017). Lo psichiatra neurologo che in Valtellina imparava ad entrare dentro i sassi di Flaubert con l’aiuto di Cargnello.
[03].  Si rinvia alla memoria completa di Claudio Schiffer. Il Prof Vogt e i suoi celebri studi sul cervello di Lenin. Policlinico di Monza.
[04]. Mario Gozzano, durante la sua formazione in Germania (1924/25, Berlino e Vienna) era stato molto amico ed anche ospite dei coniugi Vogt, ampiamente citati nel suo testo (Trattato delle Malattie Nervose 1959 – Vallardi, Milano) e anche nelle sue lezioni. Oskar Vogt (1870-1959) nato a Usum e sua moglie,  nata in Savoia, Cécile Mugnier-Vogt (1875-1962), neurologi e neuropatologi molto famosi per gli studi sulla istologia della corteccia cerebrale e sulla struttura e la patologia dei ganglî della base, all’università  di Berlino. Lui poi, ostile al nazifascismo, era circondato da un’aureola di celebrità perchè era stato invitato dall’Unione Sovietica, nel 1924, a studiare il cervello di Lenin e si era colà trattenuto per due anni. In Germania aveva diretto il Kaiser Wilhelm Institut für Hirnforschung di Berlino (1919-30), poi aveva fondato e diretto l'Institut für Hirnforschung und Allgemeine Biologie a Neustadt (Schwarzwald) nel 1937. A loro dobbiamo una descrizione anatomica dei corpi cerebrali della base caratterizzata da un particolare aspetto marmorizzato del putamen e del caudato (da cui il nome di status marmoratus).
[05]. Si rimanda all’articolo Il Prof Vogt e i suoi celebri studi sul cervello di Lenin. Policlinico di Monza Istituto ad Alta Specializzazione Direttore Sanitario Dottor Alfredo Lamastra ed all’intervista a Davide Schiffer, comparsa su la Repubblica.it > 2018 >5 >19, titolato "Così ho capito che le razze non esistono".
[06]. Si rimanda alla nota 04.

 
 
 
 
 

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