Come sta il Cantiere Europa? Progetta futuri creoli o costruisce bagli?
9 agosto, 2019 - 11:26
9 agosto, 2019 - 11:26
Riassunto.
Esattamente vent’anni fa, su invito di Alceo Riosa, ordinario di storia contemporanea alla Statale di Milano, scrivevo un saggio intitolato Immigrazione europea creolizzazione e salute mentale per IL PONTE, la rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei. Uscì nel Quaderno intitolato Cantiere Europa - Passaggio verso il futuro. Sulla sezione Di là dal ponte. È l’ultimo reperto affiorato da quei famosi “scatoloni” che i lettori di POL. IT Psychiatry on line Italia, provvisti di pazienza e anche di benevola condiscendenza nel seguire le mie storie, già conoscono [02]. Rileggendolo oggi, vien da rabbrividire, pensando a come ci siamo rinchiusi, atterriti da spaventevoli paure che neanche i Neanderthal! Terrore, xenofobia, sovranismo di maniera, egoismo adamantino, razzismo becero, cattolicismo d’accatto, famiglismo integralista, il tutto, correndo dietro a finti pifferai magici che riempiono gli schermi televisivi peggio di quello originale. Quello di Hamelin, in Bassa Sassonia, dei Fratelli Grimm. Ci sarebbe da interrogarci seriamente perchè mai un gran numero di quelli che vanno ancora a votare (quasi sempre meno della metà, degli aventi diritto) siano improvvisamente diventati ratti.
Vale la pena di richiamarne qui qualche passo per constatare come non solo la politica italiana d’integrazione degli immigrati, tanto per mescolare e ringiovanire il sangue di una popolazione vecchia, con le culle tragicamente vuote, non si sia mossa di un centimetro ma forse, se possibile, sia andata indietro.
La balcanizzazione del decennio 1991-2001.
«Oggi l’Europa ed in particolar modo l’Italia, si va accorgendo di essere ridotta ad una popolazione ricca, vecchia, biologicamente infeconda, psicologicamente sterile con una bassissima natalità tanto da escogitare tutti i mezzi per ricorrere alle adozioni internazionali di bambini o alla trattenuta forzosa delle nascite meticce avvenute sul territorio nazionale (eravamo nel 1999 n.d.r. mentre oggi, 2 019 saremmo in stagnazione). Una società costituita in prevalenza da pensionati con deboli forze fisiche, ma con forti e talora legittime pretese, non potrà durare a lungo e tanto meno pagare le pensioni dei propri anziani. Si tratta di una società che per sopravvivere deve necessariamente correre con rapidità verso una sorta di creolizzazione. Questo ci pare un dato di fatto difficilmente confutabile sul piano della realtà».
Sul piano teorico, invece, non tutti erano concordi. «Il dibattito attuale è vivace e vede talora compatti schieramenti arricciare il naso allorché si prospettano nuovi scenari europei e nazionali come quelli della muticulturalità, della multietnicità, della multireligiosità. Si veda, tanto per fare un esempio vicino e recente dell’Europa, quello che sta accadendo nei Balcani [03]. Spesso gioca un ruolo fondamentale la paura (anzi la fobia) del nuovo, altre volte pesa il patologico attaccamento alla conservazione dello status quo, in attesa di una improbabile “clonazione dei migliori” degli autoctoni. A parte il fatto che sarebbe difficile stabilire chi sia “il peggiore da non clonare”, bisogna aggiungere che in mancanza di argomentazioni valide torna sempre buono agitare l’ormai logoro spettro della perdita della misteriosa identità nazionale».
Pensando che del tutto recentemente sia stato speso, a sproposito, il nome di “patria”, fraintendendolo col giardino di casa, la chiesetta del paese nostro, lo stadio dove andiamo a fare il tifo per la squadra nostra, con la bandiera del calcio o quella di un partito politico, che sono la stessa cosa, oppure anche, (perché no?) con l’insegna dello stabilimento dove andiamo al mare d’estate, è utile fare qualche precisazione e chiarire alcune cose.
Nulla di più illuminante, può venirci in aiuto, se non leggere, ascoltare, riflettere sul pensiero agile, fluente e pronto di Erri De Luca (1950), acutissimo scrittore napoletano, giornalista, poeta e traduttore italiano, sempre attento, salace, puntuale, mai allineato, soprattutto sempre controcorrente ma anche sentimentale. In una intervista, rilasciata da qualche parte, ho riascoltato direttamente dalla sua voce, pensieri folgoranti che avevo letto in “La città non rispose”, tratto dalla raccolta In alto a sinistra. Feltrinelli, 1994, commentato da un suo esegeta, Lucio Izzo La Patria Napoletana di Erri De Luca in “Italies” (CAER). Cerco di riassumere come meglio posso.
L’idea di patria, di nazione, non lo riscalda mentre il linguaggio in cui è cresciuto ossia il dialetto napoletano gli spiega le cose, nel senso che le esplicita con aforismi di adamantina chiarezza. “A iurnata è ‘nu muorzo”, per esempio [04]. Il patriottismo e il fuoriscitismo risorgimentale napoletano, che abbandonava gli Stati Regionali per una patria nuova e più grande, un ideale utopico, e prima ancora il sogno illuminista e giacobino, secondo De Luca, è stato tradito. Oltretutto, se ho ben compreso, è quello con cui si confronta la dura realtà politica napoletana del presente. A Napoli, aggiunge, mancò uno straccio di re che capisse che nell'Europa delle nazioni l'Italia era destino inevitabile. Mancò un re, ribadisce, che stipulasse coi modesti Savoia, signori di una provincia subalpina, un contratto Italia almeno alla pari, non tra occupanti e occupati. Napoli da allora è una capitale europea abrogata, scrive sconsolato, non decaduta ma soppressa, come se Londra fosse stata sostituita da Edimburgo (Napòlide, 2006). Pensieri che tutte le persone di buona cultura hanno sempre avuto, anche se mai le avevano potuto leggere così chiaramente. Nel Novecento italiano – rincara De Luca, rafforzato da Izzo, soprattutto dopo gli anni Cinquanta, si rinuncia ad una patria geografica, dai contorni diventati più vaghi, a favore di un’altra, ideale, utopica, che non è nemmeno un luogo fisico, ma un luogo del sociale, della mente, dello spirito e delle emozioni. E, concludendo scrive che la sua Patria Napoletana, è una patria negata. Negata da lui ora, nel presente, per tutto ciò che essa non è. Negata a lui, sia nel presente, perché essa specularmente lo rifiuta (ma allo stesso tempo lo ammalia), sia nel passato, ovvero nella sua realtà storica di vera Nazione, oggi apparentemente dispersa, che egli non ha potuto conoscere, ma di cui avrebbe voluto far parte. Una nazione che gli ispira una nostalgia mitica per un’età dell’oro che si sa non essere mai esistita (Lucio Izzo).
Per chi poi parla, non sempre appropriatamente, di “valori”, si suggerisce ancora un testo di Erri De Luca, Valore, da Opera sull'acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002.
Ancora con le razze.
«Da molte parti e per molti versi viene chiamato in causa il terribile anatema della “profanazione della razza”. Ma una “razza” (posto che il concetto di “razza” abbia ancora un senso compiuto) si può anche estinguere se in qualche modo non si provvede a ravvivarla. Salvatore Filippo Inglese, un Collega etnopsichiatra che intrattiene lunghe e profonde frequentazioni con il mondo tradizionale africano, ha dichiarato di volersi accertare su una opinione attribuita ad un Saggio Guaritore maliano di etnia Dogon il quale parlava ad un ristretto consesso di anziani “Saggi Dogon” a proposito della conservazione delle tradizioni etniche. Costui avrebbe affermato che la popolazione Dogon potrebbe veder minacciata la propria tradizione e la propria etnia, qualora i matrimoni esogamici dei maschi Dogon superassero la soglia dell’8-10%. Oltre tale limite, secondo la sua opinione, il popolo Dogon sarebbe destinato all’estinzione. Questa riflessione, se fosse provata, potrebbe dare un contributo di saggezza alle nostre attuali dissertazioni sul mantenimento dell’identità nazionale o sulla “purezza della razza”. D’altro canto il compianto Gianfausto Rosoli [05] ci metteva in guardia dai pericoli xenofobi che conseguono ad una sorta di immacolata percezione del sentimento dell’appartenenza ad una “razza” o ad una “nazione”. Spesso nel campo della sociologia si parla, per gli immigrati, di “identità etnica” e di “diversità culturale” come valori fondanti da rivendicare e conservare allo stesso tempo. Alcuni autori, per esempio, sostengono posizioni radicali come quella che ciascun soggetto o gruppo di soggetti si debba definire a partire dall’affermazione della propria differenza. Qui siamo alla teorizzazione dello scontro come conquista della propria identità, ma vi sono altri autori che, risalendo all’orizzonte antropologico, utilizzano lo strumento analitico del dialogo, dell’incontro e della ricerca delle comuni radici storiche per ripercorrere il tragitto che l’umanità ha percorso da “Cro-Magnon” ai giorni nostri. Abou Selim, scrittore libanese autore de L’identità culturale (1981) e del più recente Rélation interhétnique et acculturation (1998), sostiene, per esempio, che ogni identità culturale, anche la più forte racchiude in sé la compresenza di un pulviscolo di diversità etniche, culturali, biologiche, mutuate inconsapevolmente da tutte le altre culture con cui quella determinata etnia si è imbattuta nel corso della storia dell’uomo. La prima conseguenza che se ne può trarre consiste nel ritenere che la creolizzazione del mondo occidentale dovrebbe essere salutata come la migliore delle medicine per il ringiovanimento di nazioni e di culture destinate all’estinzione. L’Europa di oggi è chiamata a riflettere proprio su questa problema complesso».
“Medicina, Immigrati e Culture della Salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Un convegno. Il primo in Italia.
Chi scrive, ricorda di aver organizzato, due giornate di studio (13-14 maggio 1999), in via David Lubin, a Roma, nella prestigiosa sede del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro [06], il Primo Convegno Nazionale italiano su un tema, allora di cogente attualità: “Medicina, Immigrati e Culture della Salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Oggi come si può ben vedere, la tematica migratoria, non solo non ha cessato di conservare intatta la sua cogenza, perchè non si è mai voluto neppure principiare a por mano ad una politica atta a risolverla, ma è stata tenuta artatamente irrisolta e incandescente, per distrarre il grande pubblico. Una sorta di “maggioranza astensionista e arrabbiata” che, molto delusa, come s’è detto, pur avendo diritto al voto, spesso nelle ultime consultazioni, ha rinunciato a quest’arma democratica.
Il Convegno fu promosso dal DSM dell’ASL Roma “B”, nell’ambito delle attività di un Progetto-obiettivo triennale, finanziato dalla Regione Lazio, intitolato a “Michele Risso”, e diretto dallo scrivente [07] per la tutela della salute mentale degli immigrati. Progetto che l’Azienda stessa aveva deliberato e stava perseguendo da due anni, poi interrotto all’inizio del terzo.
«Nella premessa del “razionale scientifico” del Convegno si faceva riferimento a temi sociali di grande attualità da cui stralciamo qualche brano. “Da oltre un quarto di secolo i flussi migratori hanno mutato le vecchie rotte tradizionali verso le Americhe ed hanno cominciato ad investire i Paesi europei aderenti alla Comunità Economica Europea (CEE), successivamente divenuta Unione Europea (UE). Fra essi, l’Italia, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo e per i suoi ottomila chilometri di coste, è la Nazione dell’UE che attualmente subisce il fenomeno con maggiore intensità, anche se non tutti i soggetti che vi entrano intendo rimanervi. Gli ingressi illegali nel nostro paese - favoriti da un turpe mercato senza scrupoli di traghettatori di nuove schiavitù - costituiscono la maggioranza, tanto che questa tipologia di immigrati viene definita anche col termine di “clandestini transitanti”. Le persone che battono alle porte del vecchio continente giungono dalle zone più remote del pianeta e vengono spregiativamente denominate, nel linguaggio comune con l’appellativo “extracomunitari”, anche se dopo le tappe di Maastricht, Schengen e Trevi che hanno sancito ufficialmente la costituzione dell’Unione Europea per la libera circolazione delle merci e degli uomini, avrebbero meritato altra denominazione e soprattutto maggiore considerazione. Il perchè è presto detto. Per quanto riguarda l’Europa, il Sud impoverito del mondo è stato il primo a salire verso il Nord per cercare pane e lavoro. Per molto tempo si è colposamente taciuto, fingendo di non accorgersi del fenomeno, ma da 10 anni, in seguito al crollo del muro di Berlino (1989), sono stati i paesi economicamente dissestati dell’Est a premere disperatamente sull’Ovest europeo e il problema si è rivelato acuto, urgente, indilazionabile, soprattutto di una visibilità palmare. L’Unione Europea, sbigottita e incerta, ha dapprima accusato l’Italia di eccessiva permissività verso gli ingressi illegali, quasi a ritenere che le ondate immigratorie provenienti dalle rotte mediterranee fossero un problema esclusivamente italiano. Poi ha guardato con interesse al modello statunitense, il quale ha proposto una “cortina di latta” da costa a costa, per rispondere alle infiltrazioni immigratorie che provengono dal Sudamerica passando per i confini messicani. Infine, ma da poco tempo, sta cercando di adottare strategie di economia politica e di contrattazione diplomatica per disciplinare queste drammatiche affluenze, divenute ormai continue, ingenti e potenzialmente destabilizzanti per l’Europa tutta. Poi è scoppiato l’ultimo “conflitto dei Balcani” e tutto sembra tornare in alto mare. Ancora un conflitto nei Balcani. L’ennesimo nella storia dell’Europa, a partire dalla suddivisione amministrativa in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente operata da Diocleziano, approfondita poi dall’ambigua fuga di Costantino nell’odierna Istambul, culminata nel 395 d.C. alla morte di Teodosio. Infine sancita storicamente come “caduta dell’Impero Romano d’Occidente” poco più di mezzo secolo dopo, nell’anno 476 d.C., alla deposizione dell’ultimo Imperatore, un incolpevole fanciullo chiamato significativamente “Romolo Augustolo”, da parte di Odoacre. Come si può ben constatare nihil sub sole novi.»
Mediterraneo ante Libiam. Mare nostrum o mare mortis?
Una serie di crudeltà indicibili si sono perpetrate verso una umanità in fuga, giovani uomini, giovani donne, bambini, chiunque avesse alcunché da barattare con gli aguzzini, oltre al danaro. Quella era la conditio sine qua non per poter accedere al calvario migratorio. Tragedia mondiale che, nel Vecchio Mondo, coram Europa, si è imbarbarita, negli ultimi 20 anni, con una alexitimia neghittosa, esibita da tutta quella che si fa chiamare ancora UE, avendo dimenticato i propri padri fondatori.
Nel Nuovo Mondo, gli ha fatto eco l’immane sciagura sudamericana. Fuggono disperati, nelle stesse condizioni e con le stesse afflizioni, giovani uomini, giovani donne e bambini. I vecchi no, sono incapaci di fuggire, sono indigenti, eppoi in fuga, la memoria non serve, appesantisce, ci vogliono “gambe”. Come certe storie dei Thule. Gli antenati degli Inuit eschimesi, il piccolo popolo dell’Artico, se c’è ancora qualcuno di loro, che si lasciavano morire sul pack.
Queste del centro-america, sono genti honduregne, venezuelane e messicane, scappano in carovane verso il nord. Sono “murate”, però, al cospetto di un’America cinica, senza speranza, sempre più avvilita, ormai, da un pingue e gesticolante, biondo immigrato teutonico, col parrucchino e un pronunciato valgismo, che sa solo metter dazi, alzare muri, firmare editti con pennarelli che sembrano Winchester e minacciare il mondo. In una delle sue ultime dichiarazioni di commento alle stragi americane di inermi innocenti, sempre più copiose, da parte di giovani “suprematisti”, avrebbe detto che non sono le armi che uccidono, ma la pazzia di chi le usa! Certo che con un presidente così, poveri Americani. Ma forse sono io che ho capito male.
Ah! Dimenticavo gli “scafisti”. Certe volte utilizzo una tecnica di straniazione, per tentare d’immaginare chi siano, che aspetto abbiano, da dove vengano gli “scafisti” di cui si fa un gran parlare. Eh! Se li prendiamo! ... Ma si nascondono tra i migranti ... si mimetizzano ... sono integralisti che poi si fanno esplodere... sgusciano tra le maglie stese dagli ultimi ministri di polizia ... Questo, più o meno, si sente dire sui media.
Non posso trattenermi dal dire che qualcosa m’è tornata alla mente, perchè io a quel tempo c’ero. Manzoni no! Troppo facile, troppo liceale. Meglio Eichmann, La Banalità del Male, Hannah Arendt, che lo ha visto in gabbia e lo ha descritto, vivo, in carne e ossa, processato davanti al mondo intero, perché tutti quanti potessimo vedere che spesso dietro al più grande dei ”mali” come l’eliminazione programmata e seriale di milioni di ebrei, diventa banale, banale come l’automatismo di una inanimata catena di montaggio, Charlot!. Non proprio stupido ma banale. Incapace, quel criminale stupido, di immaginarsi parte di un meccanismo più grande. Una banalissima rotellina di un diabolico macchinario del male, ben oliato, ben organizzato, per condurre il maggior numero possibile di “ebrei”, ma anche “zingari”, “omosessuali”, allo sterminio nelle camere a gas. Le fabbriche di morte come per esempio nel campo di Auschwitz-Birkenau. La terribile banalità di questo carnefice e dei suoi accoliti, unicamente preoccupati di “rispettare gli ordini di Hitler”, di procedere con ordine, selezionando i gruppi, separando gli “oggetti”, cose e individui, sotto la vigilanza occhiuta di medici SS, annotando scrupolosamente un certo numero di corpi alla volta! Ecco, questo apparve clamorosamente sconvolgente. Proprio questa sensazione nauseabonda si percepiva dal rendiconto della Arendt da Gerusalemme durante il processo al criminale nazista. Nazista e banale, appunto! Ho faticato molto a scacciare l’aggettivo “diabolico” dalla mia rievocazione. Non volevo assolutamente, che si potesse attribuire a questo banale nazista, tutta l’ineffabilità, la scaltrezza e la grandezza di “Woland”, il professore di magia che predice le morti terrene, creato dall’estro mirabile di Bulgakov nel 1928, in pieno stalinismo [08].
«Tornando all’immigrazione, per quanto concerne l’opinione pubblica italiana, se ne ricava un po’ l’impressione (scrivevo allora n.d.r.) che ci si sia resi conto della crudezza del fenomeno, soltanto dopo la “questione albanese”, dopo gli sbarchi maghrebini a Pantelleria, dopo i naufragi di carrette del mare senza speranza, piene di Curdi sulla costa ionica e dopo le turpi vicende degli “scafisti” del Canale d’Otranto che, una volta scoperti, per evitare l’arresto, non hanno esitato a gettare a mare uomini, donne e bambini.
«Al di là di queste crudeltà imprevedibili e impossibili da controllare, bisogna, tuttavia, rilevare che non molto è stato fatto (tranne rare eccezioni) nella direzione del riordino di un piano sanitario complessivo ed efficace, mirato soprattutto alla prevenzione della salute degli immigrati, ivi compresa la salute mentale, la cui ricaduta sugli autoctoni è più che evidente. In questo senso la prima accoglienza e i provvedimenti urgenti adottati per l’assistenza e per l’emergenza sanitaria, non esauriscono il problema “salute”. Se si pensa poi che solo alcuni di tali compiti sono stati quasi totalmente espletati, in regime di supplenza, da Agenzie non governative anche laiche, ma principalmente confessionali se ne potrebbe ricavare la sensazione di una sorta di latitanza dello Stato in materia di salute pubblica nei confronti delle popolazioni immigrate.
«Il danno d’immagine per il Servizio Sanitario Nazionale, cui dovrebbe competere il compito di assicurare a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria, è risultato notevole. Basterebbe considerare da un lato le ripetute emanazioni di normative generali e circolari esplicative (talora poco chiare) sull’assistenza agli immigrati, dall’altro le speciose difficoltà burocratiche sollevate da taluni Enti Locali (fortunatamente non molti) per l’applicazione delle medesime o la loro arbitraria inosservanza. Qualcuno ha ritenuto di ravvisare nel comportamento dello Stato un appiattimento sulla politica delle deleghe ad istituzioni vicarianti, piuttosto che l’assunzione diretta di incombenze che le sono peculiari. In ogni caso nessuno dei tanti provvedimenti governativi sulla politica migratoria è stato mai direttamente centrato sul problema specifico di farsi carico della tutela della salute mentale della popolazione migrante. Questo, ad onor del vero, né in Italia né altrove».
Torrespaccata ASL/Roma /B. Progetto obiettivo “Michele Risso” per tutelare la salute mentale dei migranti.
Scrivevo allora «La necessità di varare un progetto-obiettivo che avesse come scopo principale quello di osservare, tutelare e mantenere la salute mentale degli immigrati è divenuta ormai urgente e ineluttabile. Ciò non soltanto per governare i conflitti tra poveri, la convivenza etnico-religiosa, i problemi del meticciato e delle adozioni - rotte verso le quali, a quanto è dato capire, sembra destinata a dirigersi la vecchia Europa - ma anche e soprattutto per prevenire patologie sociali e mentali, di cui già si stanno rilevando le prime avvisaglie». Vista oggi, 2019, la situazione, continuamente rimandata per 20 anni, non per distrazione ma scientemente, appare più che colpevole, un bieco strumento politico nelle mani dei soliti finti furbi che si sono avvicendati al potere di governo.
«Sotto questo profilo – scrivevo nel 2019 - la ASL “B” di Roma ha ritenuto di anticipare i tempi varando il Progetto-obiettivo triennale “Michele Risso” per la tutela della salute mentale delle popolazioni migranti e per lo studio dell’etnopsichiatria».
Non eravamo in anticipo, semmai in ritardo, rispetto alla Germania, al Regno Unito, alla Francia. Tranne la prima, quelle erano state importanti nazioni coloniali, noi invece, avevamo una solida reputazione per il nostro passato di emigranti, un po’ in tutto il mondo, perciò così continuavo.
«Non è un caso se si sia pensato di intitolare questa iniziativa alla memoria dello psichiatra Michele Risso considerato fra gli iniziatori e i maestri italiani più prestigiosi della clinica e della riflessione teorica sulla natura etnopsichiatrica dei disturbi psicologici e psicopatologici degli immigrati italiani in Svizzera negli anni ’60 del Novecento. Sono ormai 20 anni che nel DSM della VIII Circoscrizione del Comune di Roma (una estensione territoriale un po’ più grande della città di Firenze), esiste un minuscolo gruppo di lavoro insediato nel centro di Salute Mentale (CSM) di via di Torre Spaccata 157 che si occupa attivamente anche di salute mentale degli immigrati. Questo ambulatorio, che funziona tre volte per settimana, non deve la sua esistenza ad una sorta di amore per l’esotismo, ma cerca di far fronte alle numerose esigenze strettamente legate alla composita popolazione che abita il territorio. Prima si trattava di emigrati italiani rientrati con patologie psichiatriche, ora vengono presi in carico gli “emigrati degli altri” (regolari, irregolari, clandestini)».
E ancora.
«Il crescente interesse per questo tema, divenuto ormai di rilevanza internazionale e le numerose richieste che pervengono al Centro da più parti, autorizzano a pensare che questa nostra esperienza relativa al problema della tutela della salute (e in particolare di quella mentale) degli immigrati, potrebbe essere messa a disposizione di altri operatori del SSN del nostro paese e di altri paesi interessati. Si potrebbe così pensare alla creazione di un gruppo operativo multidisciplinare, coordinato dai Ministeri competenti, che lavori nello scacchiere cruciale dell’area del Mediterraneo.
Il perfezionamento, la diffusione e la messa in rete di tale ipotesi di “lavoro concertato” sugli interventi della Sanità Pubblica nei confronti degli immigrati, avrebbe evidenti ricadute non solo sulla prevenzione della salute per l’Unione Europea nel suo complesso, ma anche incalcolabili “ritorni d’immagine” sia di carattere umanitario che politico. A quanto par di capire oggi, il destino dell’Europa sembra avviarsi verso una ineluttabile convivenza meticcia e l’ondata migratoria che sale dal bacino del Mediterraneo, di cui l’Italia è punto strategico, è ben lungi dall’estinguersi. Tanto vale prenderne atto e predisporre per tempo le misure necessarie per farvi fronte».
Aree tematiche.
Le principali aree tematiche proposte dal nostro Convegno del 1999, furono le seguenti: 1) Immigrazione e politiche sociali. 2) Integrazione, Multiculturalità, Multietnicità, Creolizzazione. 3) Immigrazione e Politiche di Assistenza Fisica e Psichica. 4) Immigrazione Salute Mentale Epidemiologia e Prevenzione 5) Progetti tutela salute fisica e psichica donne immigrate. 6) Etnopsichiatria, Psicologia e Psichiatria Clinica Multiculturale. Formazione 7) Servizio Sociale, Professioni di Aiuto e collaborazione con le ONG. Fu inoltre proposto e varato un Coordinamento Nazionale della Sanità Pubblica per la “Tutela della Salute Mentale degli Immigrati” (TSMI). Quanto agli argomenti trattati, si parlò ampiamente di “Pluralismo medico e gruppi minoritari”, di “Leggi sull’immigrazione e sue ricadute culturali”, di “Formazione, Informazione, Traduzione e Mediazione di significati culturali”, di “Associazionismo e Comunità immigrate”, di “Accesso e visibilità dei Servizi Sanitari”, di “Analisi dei nuovi dispositivi terapeutici”, di “Psico-educazione culturale verso le famiglie, i bambini, le adozioni internazionali, le unioni miste, i problemi religiosi del nostro meticciato attuale e prossimo futuro”, di “Assistenza sanitaria e prevenzione ad immigrati regolari, irregolari, clandestini”, di “Professionalizzazione del volontariato o volontariato come supporto”, delle “Professioni di aiuto”, del “Diritto all’assistenza socio sanitaria e dei compiti istituzionali della Sanità pubblica”.
Qui di seguito, molto succintamente, alcune osservazioni che io feci allora sulle tematizzazioni in discorso, dibattute da operatori della Sanità Pubblica, da Volontari di Organizzazioni non Governative (ONG) e da soggetti politici durante le due giornate di studio del I Convegno Nazionale su “Medicina, Immigrazione, Culture della salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Era quasi superfluo sottolineare come non si fosse mai parlato di Salute e Sanità pubblica in quei particolari frangenti storici che, nel cuore dell’Europa, videro volare missili silenziosi, manovrare potenti navi da guerra, sfrecciare aerei da caccia supersonici, superinvisibili e altri strumenti di morte che ci venivano gabellati per “intelligenti”, facendo torto all’intelligenza o per “chirurgici”, recando offesa alla chirurgia.
Salute e salute mentale.
La salute - come ognuno sa - è uno fra i pochissimi beni primari (cioè concreti, non ideologici) dell’uomo di tutte le società di qualsiasi tipo e qualunque epoca. Si potrebbe anche prestar fede, sicuri di non sbagliare, alla vulgata dei contemporanei che ci ammonisce “quando c’è la salute...”. D’altro canto i nostri saggi pensatori dell’antichità ci insegnavano che per filosofare bisognava prima mangiare e noi potremmo aggiungere che il buon appetito è segno certo di buona salute.
D’accordo sulla Medicina, sulla Sanità pubblica, sull’Immigrazione, ma cosa c’entra la salute mentale, anzi le culture della “salute mentale”, verrebbe da domandarsi? Perché organizzare proprio un Convegno Nazionale (il primo in Italia con un taglio di questo genere) che abbia sullo sfondo il tema della “salute mentale” non solo degli autoctoni (ovviamente come termine di confronto), ma anche quella delle persone immigrate? Si potrebbe rispondere facilmente come i Romani antichi che conoscevano benissimo il valore della locuzione mens sana in corpore sano.
«Ma noi pensiamo davvero che nella presente barbarie ancor più barbarica, senza alcun cenno di voler deflettere, neppure allo spirar di un secolo che pure è stato quasi ininterrottamente segnato da una subentrante follia sanguinaria, il discorso valga la pena di essere affrontato o almeno posto all’attenzione generale del mondo della Sanità Pubblica? Si badi bene che, quando parliamo di “pazzia sanguinaria” non intendiamo certo riferirci alla dimensione complessa della psicosi ed all’esperienza personale dello psicosico, col quale ci scusiamo, che è tutt’altra cosa. Usiamo parole dure e pregnanti ricorrendo al termine convenzionale di “pazzia” soltanto per bollare il settarismo acritico, l’ignoranza storica, il razzismo insensato, la ferocia ottusa degli spazzini etnici, la protervia della “ragione del più forte” per annientare il più debole. Qui il discorso sulla salute mentale, sui modi di tutelarla e di prevenirla, è assolutamente pertinente e prioritario; se non altro per favorire un accesso alla parola, al dialogo, alla comunicazione, all’ascolto delle ragioni di tutti che, in definitiva, sono presupposti per un introito alla dimensione dell’interculturalità, all’irenismo della comunicazione interetnica. Invece, sembriamo essere in pieno stato confusionale!»
Non poteva esservi profezia più esatta, stando alle cronache di vent’anni dopo. Il presente è indecifrabile. Fluido, incerto, torbido, insicuro, dove i protagonisti mediatici sono sempre rappresentati come neri, migranti, maghrebini, integralisti! Una firma prestigiosa, Furio Colombo, scrive un pezzo, a commento dei sequestri di naufraghi su navi italiane della guardia costiera e dell’uccisione violenta di un carabiniere a Roma, in pieno centro, con 11 colpi di pugnale/baionetta. Il titolo forte è Migranti in mare e delitto Rega. Un paese dove nulla è normale. [09] «Quando saranno tornati tempi normali, ci sarà qualcuno disposto a credere che a Roma, in una notte di luglio del 2019, un bravo carabiniere è stato mandato senza armi né ordini a incontrare sconosciuti assassini che lo hanno ucciso con crudele esattezza, per sconosciute ragioni di una catena di eventi che non sappiamo, sono scappati con lo zaino di qualcuno la cui narrazione della storia cambia sempre, inseguiti da narrazioni sempre diverse? Il governo dichiara subito che il carabiniere è stato ucciso (del resto in modo tipicamente sanguinario da due africani), il ministro dell’interno decide subito per i criminali neri lavori forzati a vita, incalzato dalla invocazione della pena di morte […] ». Si scopre poi che sono due giovanissimi studenti bianchissimi e americani. «Si tratta di una matassa senza bandolo (cito Altan) – prosegue Furio Colombo – che si è formata in una misteriosa notte, alle molte narrazioni diverse e ai vari comprimari […] ».
Per esplicitare meglio queste tematizzazioni sarebbe sufficiente soffermarsi con un po’ più di attenzione sulle nozioni di “salute” e di “salute mentale” che per noi occidentali paiono quasi ovvie o comunque corredate di un significato ben preciso.
Scrivevo allora. «Ragionandoci sopra, sicuramente verremmo a scoprire (e ne saremmo gradevolmente sorpresi) come dietro ciascuno di questi concetti esistano profondi rimandi alle differenti culture che li elaborano, li immaginano, li esprimono e li praticano da tempo. Una siffatta riflessione è iniziata ormai da lungo tempo, tra il finire dell’Ottocento e il secondo dopoguerra a partire da necessità di decolonizzazione e di migliore comprensione di fenomeni altrimenti inspiegabili. Insomma, in varie parti del mondo, completamente rovesciato, dopo la fine della seconda guerra mondiale, una serie di studiosi e di “Scuole”, secondo necessità, linguaggi e correnti, si è applicata allo studio di una nuova disciplina chiamata (a posteriori) “etnopsichiatria” [10]. Oggi l’etnopsichiatria, in Italia, suscita molto interesse ed è praticata (sia pure da pochi e a macchia di leopardo) nei Distretti di Salute Mentale del Servizio Sanitario Nazionale. proprio per la sua capacità critica di mettere in discussione (attraverso una doppia lettura del disturbo) le certezze assiomatiche del sapere medico convenzionale al quale il mondo occidentale è stato educato. Tuttavia non sempre si riesce a vincere la diffidenza dalle Direzioni Aziendali della Salute, distratte ossessivamente dalla seguente equazione complessa e perversa: taglio delle spese - aumento delle prestazioni - controllo della qualità del prodotto fornito - riduzione del personale di assistenza».
La spesa, il tema economico, la biomedicina e la medicina popolare.
Al di fuori delle questioni economiche (peraltro non irrilevanti) basterebbe pensare alla contrapposizione fra il modello della Medicina ufficiale, della Medicina scientifica o “Biomedicina” (come, con un certo appunto critico, ama definirla la moderna corrente dell’antropologia medica) di cui ognuno riconosce i meriti indiscussi e quelli della Medicina tradizionale di cui tutti conoscono i valori e l’efficacia, pur ricorrendovi con un po’ d’imbarazzo, magari nascostamente per non passare da “primitivi”.
Il grande attore e commediografo Eduardo De Filippo, parlando di taluni fenomeni misteriosi attinenti alla salute (o alle insidie ad essa recate) ammoniva saggiamente “non è vero ma ci credo”. Naturalmente egli aveva in mente un mondo tradizionale e popolare (insondabile dal sapere scientifico) allorché rappresentava e dissertava sulle fatture, sulle iettature, sugli spiritelli dispettosi (il Monaciello per esempio) e sulle ritualità apotropaiche per difendersene, da tutti giudicate semplici “superstizioni”. Ma proprio un’attenta analisi di queste ( ed altre) “superstizioni” ci fanno scoprire come dietro di esse si celino i mondi culturali delle tradizioni popolari, dotati di straordinario e profondo valore di significato. In ogni latitudine del mondo dove la Medicina ufficiale non è ancora giunta ad imporre la propria supremazia, scopriamo (ed impariamo) che intere popolazioni, etnie e civiltà del passato sono sopravvissute, in virtù della pratica di sistemi terapeutici locali, fino ad arrivare ai giorni nostri. Dunque qualcosa di “curativo” doveva pur funzionare (e forse ancora funziona) nella Medicina tradizionale, sogguardata come pratica di ciarlatani.
Scrivevo allora. «Non è un caso se oggi la “Biomedicina”, il frutto più prestigioso del sapere medico-scientifico occidentale, che ha stravinto dovunque sia arrivata, dimostri proprio nel suo luogo di origine una crescente disaffezione. Proprio in occidente assistiamo al proliferare di terapie esotiche e di pratiche mediche di culture altre, come ad esempio l’agopuntura, l’erbalismo, lo shiatzu, la meditazione trascendentale, lo yoga, i sistemi di autocontrollo delle funzioni neurovegetative, i cakra, i mandala gli yantra coi relativi significati terapeutico-spirituali, rimandi religiosi, ecc. Si potrebbe pensare che la “Biomedicina” abbia vinto sulla malattia ma abbia perso di vista l’uomo nella sua interezza. In molti casi la nostra Medicina culta si è dimenticata della visione olistica della persona che è oggetto di cure. Detto in altri termini, ogni modo d’intendere la salute e l’equilibrio mentale, rimanda a molte culture, le “Culture della salute”, appunto. Di tutto ciò siamo debitori alle culture che hanno attraversato i nostri confini europei camminando sulle gambe degli immigrati, giunti da ogni parte del mondo. Dunque la “salute mentale” non solo non è estranea ai grandi temi della salute in generale ma diviene indispensabile per un valido contributo alla riflessione sulla condizione dell’esistenza dell’uomo nel mondo. Da quanto emerso dalle discussioni del Convegno si può ritenere corretto pensare come, anche in ordine ai problemi della salute, enunciazioni del tipo “pessimismo della ragione”, “ottimismo della volontà”, “pragmatismo della predittività” siano processi mentali che debbano, comunque e sempre, superare il vaglio della ragion critica, del confronto dialettico e della transazione culturale suggerita dal buon senso. L’integrazione, così come lo sviluppo delle relazioni con gli immigrati - è stato detto al Convegno - debbono necessariamente passare per il tramite di un dialogo virtuoso attorno alla “salute mentale”. Solo una siffatta operazione culturale, all’insegna del relativismo ed emendata dal pregiudizio, può attingere il più pacifico e il più elevato livello di confronto e di convivenza tra gruppi sociali autoctoni e allogeni, tra sistemi convenzionali e tradizionali di cura, tra modelli di visioni del mondo e attese di vita assolutamente differenti, ma non incompatibili».
Ideologie e prassi.
A Danzica e poi a Lublino, in Polonia, uno dei cosiddetti paesi satelliti della cortina di ferro, nell’estate del 1980, la storia iniziò a girarsi contro il comunismo (reale) dell’Unione Sovietica (la Sovietskij soyuz, un impero rosso). Il licenziamento di un’operaia del “Cantiere Lenin” e la visita di Wojtyła, l’anno avanti, incendiarono il malcontento. Poi vennero Lech Walesa, futuro presidente, e le altre “rivoluzioni” più o meno “pacifiche”, molto spontanee, ma anche eterodirette da un Occidente Atlantico molto interessato dal cosiddetto “mondo libero e democratico”. Detto molto approssivamente, pian piano, seguì la caduta dei regimi comunisti, [11] fino al crollo del Muro di Berlino (novembre 1989), simbolicamente l’implosione dell’URSS, la riunificazione delle due Germanie e il cosiddetto crollo delle ideologie. Il richiamo storico al decennio precedente in cui si svolgeva il nostro Congresso del 1999, giustificava il seguente passaggio.
«Si sente dire oggi, con sempre maggiore insistenza, che l’ideologia sia ormai superata, ma c’è da dubitarne fortemente. A quanto par di capire, l’uomo ha ancora bisogno di ideologie e di utopie, ne ha bisogno come del pane. Il grande psichiatra clinico, psicopatologo e filosofo Ludwig Binswanger sosteneva, con molte buone ragioni, che l’ideologia fosse una forma di vita mancata dell’uomo, una esaltazione fissata per l’esattezza. Naturalmente quando parliamo di uomo, intendiamo fare riferimento all’uomo venuto al mondo nella maniera tradizionale; per essere ancora più espliciti, quello concepito secondo le leggi della natura da due autentici gameti genitoriali che s’incontrano direttamente nell’utero post coitum. Tutto ciò sia detto senza vena di polemica, poiché l’antropologia corrente non è ancora in grado di sapere quello che penseranno domani gli uomini clonati. Le scienze umane non sanno dire alcunché del destino degli “umanidi” nati da complicati processi di spermatozoi ed oociti passati dalla loro dimora biologica alla provetta congelata e dal congelatore trasferiti in una beuta prosseneta complice di uno squallido accoppiamento cellulare in vitro, per finire poi in chissà quale utero (vero o finto) che consenta la gestazione del fantomatico embrione dell’uomo virtuale di domani. Ma lasciamo da parte, almeno per ora, perchè non pertinenti ai temi in discorso, le questioni etiche della genetica e della legittimità della ricerca scientifica in biologia e in medicina (convenzionale o tradizionale che sia) e torniamo, invece, all’Europa. Con molta probabilità (e ce ne scusiamo col lettore) la lunga digressione sulle “Culture della Salute” e sul mondo antinomico della salute e della malattia, rappresenta un segnale esplicito (una deformazione professionale, se si preferisce) di quali siano gli interessi e le passioni che animano il campo della ricerca dell’estensore del presente articolo. Egli infatti è medico, psicopatologo, psichiatra clinico e dunque non lontano dal complesso disciplinare che pertiene alle scienze umane applicate».
E così concludevo.
«Oltre trent’anni fa Roger Bastide [12] scriveva profeticamente: “Non è solo l’America un crogiolo di popoli: la Francia non tende forse a diventare una nazione di quadri che dirigono un esercito di stranieri gravati dai compiti più manuali, dai Polacchi ai nordafricani?” Il rapido susseguirsi di grandi trasformazioni demografiche e sociali che ne è seguito in Europa, sotto la spinta incessante e crescente dei flussi immigrativi da ogni latitudine povera o impoverita del pianeta, non ha risparmiato l’Italia, anzi. Anche il nostro paese sta registrando tendenze (al momento di limitate dimensioni) di questa tipologia, ovverosia manodopera straniera (più o meno acculturata) occupata in lavori poco appetiti dagli autoctoni sotto la guida di quadri imprenditoriali nazionali. Questa è la prima ragione per la quale sarebbe opportuno che il nostro paese cominciasse a prendere confidenza con tale fenomenica problematica, così come hanno già fatto da tempo gli altri partner europei ex-coloniali. Avevamo aperto con una sorta di profezia ragionata di Roger Bastide, dimostratasi in seguito puntualmente confermata dai fatti. Ma essere buoni profeti soltanto, non basta, perché bisognerebbe anche avere la capacità e la possibilità di incidere sull’evoluzione degli eventi. Noi possiamo solo pensare, riflettere, ascoltare, discutere e questo sarebbe già un buon segnale. D’accordo, ma di cosa e su cosa parlare? L’evidenza dimostra che occorre, forse, ripartire da qualcosa che faccia continuamente riferimento all’essere, all’uomo nel mondo del suo tempo, nozione che gli europei di lingua tedesca indicherebbero come Dasein e Sosein».
Come procedere
Ci permettevamo anche di tracciare alcune linee guida che qui ripetiamo confidando nell’adagio latino repetita juvant.
«Forse per avanzare nell’oggi e immaginare un possibile futuro europeo, occorre ri-costruire, ri-progettare, prospettare nuovi scenari per un domani possibile sia dell’homus europaeus che dei suoi territori, la nostra vecchia Europa, ragionando sui fatti. Ebbene, in tutta franchezza, se dovessimo dar retta al “pessimismo della ragione” potremmo concludere che le previsioni non si presentano né buone né incoraggianti. Tuttavia sappiamo che l’essere (nell’accezione antropofenomenologica) è intenzionalizzato anche verso quel sano seppur irrazionale “ottimismo della volontà”. Questo dovrebbero farci pensare che ci avviamo (se non vogliamo fare la fine di Titone) ad una straordinaria occasione di cambiamento. La storia ci offre l’occasione di ridiventare protagonisti di un ringiovanimento della popolazione europea col ricco seme dei poveri. Molti anni fa scacciammo o favorimmo l’esodo di molti europei scomodi che andarono a vivere altrove. Oggi scopriamo che l’Europa può reimportare ordinatamente e saggiamente (per il proprio tornaconto), con una virtuosa integrazione, forze fresche dal Terzo Mondo. Fare una politica comune oltre alla moneta, superare le questioni storiche grandi e piccole nobili e meschine religiose e laiche, può risultare un grande vantaggio per un’Europa lacerata per secoli da orgogliose questioni di supremazia. Chiediamo scusa per questo sfacciato etnocentrismo (irriverente verso le Culture del pianeta tutto), ma non abbiamo scelta. L’Europa ha fatto molta strada, possiede un patrimonio di saperi e anche di nefandezze che ha divulgato nel mondo. Ebbene Se l’Europa è vecchia e la saggezza è propria della senectus, che la dimostri per aprire questo terzo millennio».
Note
01. Architettura. Nella Sicilia feudale e ancora tra il XVI e il XVII secolo, sotto dominazione spagnola, il baglio (bagghiu, in siciliano) era una fattoria fortificata con ampio cortile. Il grande latifondo delle piccole baronie dovendo corrispondere alla corona grandi quantità di cereali, avevano ricevuto la concessione di una "licenza di ripopolamento" (Licentia populandi). Attraverso questo istituto, la spina dorsale de latifondo (origine di molti guai del meridione d’Italia, la nobiltà siciliana giunse a creare autonomamente veri e propri villaggi nei dintorni della costruzione originaria, praticamente una "città di fondazione". In epoca più recente, in Sicilia, con baglio s'intende generalmente il cortile interno delle masserie. Nella provincia di Trapani, però, ha assunto il significato di "fortino" senza mai assumere, però, quello di “castello”. Nella scala della nobiltà i “baroni” occupano l’ultima posizione. Le rendite dell’aristocrazia e poi della borghesia erano alimentate da una strutturazione geo-economica di cui erano l’espressione e nella quale si è incistata la “mafia”, legata al “feudo” e al “latifondo”, dunque alla grande proprietà terriera. Queste cose le ho imparate dagli appunti di mio padre Ernesto Mellina (1892-1975), un seguace della dottrina sociale della chiesa, in gioventù, uno sturziano che eran peggio dei “comunisti”!
02. Si veda su POL.IT Psychiatry on line di Sergio Mellina. Scatoloni e badanti. Una biblioteca molto colorata ma inutilizzabile. 13 maggio, 2019.
03. Si faceva riferimento alle “Guerre jugoslave” dal 31 marzo 1991 al 12 novembre 2001, che si svolsero nei Territori dell'ex-Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. I Balcani, dopo Tito, non smentirono la loro triste fama e le mai sopite spinte nazionaliste degli stati federati, tipo quelle degli malfamati “Ustascia” e i “Poglavnik” (le Guide) degli anni 1941-45, capitanati da Ante Pavelic, tanto per ravvivare la memoria, con la connivenza dell’Europa fecero il resto. Anzi molto peggio! Mise in luce autentici criminali di guerra come Radovan Karadzic, Ratko Mladic, e Slobodan Milosevic, che si macchiarono di orrendi misfatti e furono condannati dal Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex-Iugoslavia, istituito nel 1993. La conclusione fu la dissoluzione della Jugoslavia e la creazione degli stati indipendenti di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo.
04. La giornata è un morso, dice mast’Errico sulla porta della sua bottega. Io stavo già là davanti da un quarto d’ora per cominciare bene il primo giorno di lavoro. Lui arriva alle sette, tira la serranda e dice la frase di sprone: la giornata è un morso, è corta, diamoci da fare. Montediddio, 2001.
05. Gianfauso Rosoli (1938-1998) un presbitero scalabriniano studioso eccelso di questioni migratorie prematuramente scomparso a Milano, all’età di 59 anni.
06. Il CNEL, allora presieduto da Giuseppe De Rita, quando dette ospitalità all’iniziativa del SDSM della ASL ex Roma VIII ora Municipio delle Torri, doveva essere chiuso come ente inutile, ma, nel bene e nel male, al momento in cui viene compilata la presente ristesura, ancora respira, a stento, ma nessuno è riuscito a estinguerlo, come più volte minacciato.
07. Si veda in proposito La tutela della salute mentale degli immigrati e il progetto “Michele risso” nell’ASL Roma B progetto Michele Risso e Dibattito con Sergio Mellina. In Il carro dalle molte ruote etnopsichiatria e psicoterapie transculturali a cura di Anna Rotondo e Marco Mazzetti. inoltre Etnopsichiatria e territorio. Esperienze a cura di Anna Rotondo. TERRENUOVE Società Cooperativa sociale - Onlus - 20129 Milano - Piazza Novelli 8.
08. Bulgakov Il Maestro e Margherita definito da Montale «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione».
09. Il Fatto Quotidiano domenica 4 agosto 2019, p. 13.
10. Il termine fece la sua comparsa in letteratura ad opera di uno psichiatra coloniale sudafricano anglosassone, tale Carothers. John Colin Dixon Carothers (1903-1959), era più che altro un medico con funzioni medico-legali per individuare simulatori, criminali, “mentalità primitive”, stregoni, ecc. Era stato incaricato dal Governo britannico, che negli anni Cinquanta occupava militarmente il Kenya, di studiare la cultura Kikuyu, in funzione anti Mau Mau allora un movimento indipendentista in rivolta. Un utile approfondimento, a chi fosse interessato a questo tema, può trovarlo in un lungo saggio e ben documentato di Luigi Benevelli su POL.IT Psychiatry on line del 1 dicembre 2017 intitolato John Colin Dixon Carothers e la patologia dei guerriglieri Mau Mau, nel suo blog Psichiatria e Razzismi Storie e documenti.
11. Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia e Germania Est, ossia I cosiddetti paesi satelliti sia per gestire la guerra fredda, che per matenere l’equilibrio del terrore atomico, contro il Patto Atlantico che, con gli stessi meccanismi geopolitici, costituiva la cortina di ferro degli USA.
12. Roger Bastide. Sociologie des maladies mentales. Flammarion. Paris, 1965.
Esattamente vent’anni fa, su invito di Alceo Riosa, ordinario di storia contemporanea alla Statale di Milano, scrivevo un saggio intitolato Immigrazione europea creolizzazione e salute mentale per IL PONTE, la rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei. Uscì nel Quaderno intitolato Cantiere Europa - Passaggio verso il futuro. Sulla sezione Di là dal ponte. È l’ultimo reperto affiorato da quei famosi “scatoloni” che i lettori di POL. IT Psychiatry on line Italia, provvisti di pazienza e anche di benevola condiscendenza nel seguire le mie storie, già conoscono [02]. Rileggendolo oggi, vien da rabbrividire, pensando a come ci siamo rinchiusi, atterriti da spaventevoli paure che neanche i Neanderthal! Terrore, xenofobia, sovranismo di maniera, egoismo adamantino, razzismo becero, cattolicismo d’accatto, famiglismo integralista, il tutto, correndo dietro a finti pifferai magici che riempiono gli schermi televisivi peggio di quello originale. Quello di Hamelin, in Bassa Sassonia, dei Fratelli Grimm. Ci sarebbe da interrogarci seriamente perchè mai un gran numero di quelli che vanno ancora a votare (quasi sempre meno della metà, degli aventi diritto) siano improvvisamente diventati ratti.
Vale la pena di richiamarne qui qualche passo per constatare come non solo la politica italiana d’integrazione degli immigrati, tanto per mescolare e ringiovanire il sangue di una popolazione vecchia, con le culle tragicamente vuote, non si sia mossa di un centimetro ma forse, se possibile, sia andata indietro.
La balcanizzazione del decennio 1991-2001.
«Oggi l’Europa ed in particolar modo l’Italia, si va accorgendo di essere ridotta ad una popolazione ricca, vecchia, biologicamente infeconda, psicologicamente sterile con una bassissima natalità tanto da escogitare tutti i mezzi per ricorrere alle adozioni internazionali di bambini o alla trattenuta forzosa delle nascite meticce avvenute sul territorio nazionale (eravamo nel 1999 n.d.r. mentre oggi, 2 019 saremmo in stagnazione). Una società costituita in prevalenza da pensionati con deboli forze fisiche, ma con forti e talora legittime pretese, non potrà durare a lungo e tanto meno pagare le pensioni dei propri anziani. Si tratta di una società che per sopravvivere deve necessariamente correre con rapidità verso una sorta di creolizzazione. Questo ci pare un dato di fatto difficilmente confutabile sul piano della realtà».
Sul piano teorico, invece, non tutti erano concordi. «Il dibattito attuale è vivace e vede talora compatti schieramenti arricciare il naso allorché si prospettano nuovi scenari europei e nazionali come quelli della muticulturalità, della multietnicità, della multireligiosità. Si veda, tanto per fare un esempio vicino e recente dell’Europa, quello che sta accadendo nei Balcani [03]. Spesso gioca un ruolo fondamentale la paura (anzi la fobia) del nuovo, altre volte pesa il patologico attaccamento alla conservazione dello status quo, in attesa di una improbabile “clonazione dei migliori” degli autoctoni. A parte il fatto che sarebbe difficile stabilire chi sia “il peggiore da non clonare”, bisogna aggiungere che in mancanza di argomentazioni valide torna sempre buono agitare l’ormai logoro spettro della perdita della misteriosa identità nazionale».
Pensando che del tutto recentemente sia stato speso, a sproposito, il nome di “patria”, fraintendendolo col giardino di casa, la chiesetta del paese nostro, lo stadio dove andiamo a fare il tifo per la squadra nostra, con la bandiera del calcio o quella di un partito politico, che sono la stessa cosa, oppure anche, (perché no?) con l’insegna dello stabilimento dove andiamo al mare d’estate, è utile fare qualche precisazione e chiarire alcune cose.
Nulla di più illuminante, può venirci in aiuto, se non leggere, ascoltare, riflettere sul pensiero agile, fluente e pronto di Erri De Luca (1950), acutissimo scrittore napoletano, giornalista, poeta e traduttore italiano, sempre attento, salace, puntuale, mai allineato, soprattutto sempre controcorrente ma anche sentimentale. In una intervista, rilasciata da qualche parte, ho riascoltato direttamente dalla sua voce, pensieri folgoranti che avevo letto in “La città non rispose”, tratto dalla raccolta In alto a sinistra. Feltrinelli, 1994, commentato da un suo esegeta, Lucio Izzo La Patria Napoletana di Erri De Luca in “Italies” (CAER). Cerco di riassumere come meglio posso.
L’idea di patria, di nazione, non lo riscalda mentre il linguaggio in cui è cresciuto ossia il dialetto napoletano gli spiega le cose, nel senso che le esplicita con aforismi di adamantina chiarezza. “A iurnata è ‘nu muorzo”, per esempio [04]. Il patriottismo e il fuoriscitismo risorgimentale napoletano, che abbandonava gli Stati Regionali per una patria nuova e più grande, un ideale utopico, e prima ancora il sogno illuminista e giacobino, secondo De Luca, è stato tradito. Oltretutto, se ho ben compreso, è quello con cui si confronta la dura realtà politica napoletana del presente. A Napoli, aggiunge, mancò uno straccio di re che capisse che nell'Europa delle nazioni l'Italia era destino inevitabile. Mancò un re, ribadisce, che stipulasse coi modesti Savoia, signori di una provincia subalpina, un contratto Italia almeno alla pari, non tra occupanti e occupati. Napoli da allora è una capitale europea abrogata, scrive sconsolato, non decaduta ma soppressa, come se Londra fosse stata sostituita da Edimburgo (Napòlide, 2006). Pensieri che tutte le persone di buona cultura hanno sempre avuto, anche se mai le avevano potuto leggere così chiaramente. Nel Novecento italiano – rincara De Luca, rafforzato da Izzo, soprattutto dopo gli anni Cinquanta, si rinuncia ad una patria geografica, dai contorni diventati più vaghi, a favore di un’altra, ideale, utopica, che non è nemmeno un luogo fisico, ma un luogo del sociale, della mente, dello spirito e delle emozioni. E, concludendo scrive che la sua Patria Napoletana, è una patria negata. Negata da lui ora, nel presente, per tutto ciò che essa non è. Negata a lui, sia nel presente, perché essa specularmente lo rifiuta (ma allo stesso tempo lo ammalia), sia nel passato, ovvero nella sua realtà storica di vera Nazione, oggi apparentemente dispersa, che egli non ha potuto conoscere, ma di cui avrebbe voluto far parte. Una nazione che gli ispira una nostalgia mitica per un’età dell’oro che si sa non essere mai esistita (Lucio Izzo).
Per chi poi parla, non sempre appropriatamente, di “valori”, si suggerisce ancora un testo di Erri De Luca, Valore, da Opera sull'acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002.
Ancora con le razze.
«Da molte parti e per molti versi viene chiamato in causa il terribile anatema della “profanazione della razza”. Ma una “razza” (posto che il concetto di “razza” abbia ancora un senso compiuto) si può anche estinguere se in qualche modo non si provvede a ravvivarla. Salvatore Filippo Inglese, un Collega etnopsichiatra che intrattiene lunghe e profonde frequentazioni con il mondo tradizionale africano, ha dichiarato di volersi accertare su una opinione attribuita ad un Saggio Guaritore maliano di etnia Dogon il quale parlava ad un ristretto consesso di anziani “Saggi Dogon” a proposito della conservazione delle tradizioni etniche. Costui avrebbe affermato che la popolazione Dogon potrebbe veder minacciata la propria tradizione e la propria etnia, qualora i matrimoni esogamici dei maschi Dogon superassero la soglia dell’8-10%. Oltre tale limite, secondo la sua opinione, il popolo Dogon sarebbe destinato all’estinzione. Questa riflessione, se fosse provata, potrebbe dare un contributo di saggezza alle nostre attuali dissertazioni sul mantenimento dell’identità nazionale o sulla “purezza della razza”. D’altro canto il compianto Gianfausto Rosoli [05] ci metteva in guardia dai pericoli xenofobi che conseguono ad una sorta di immacolata percezione del sentimento dell’appartenenza ad una “razza” o ad una “nazione”. Spesso nel campo della sociologia si parla, per gli immigrati, di “identità etnica” e di “diversità culturale” come valori fondanti da rivendicare e conservare allo stesso tempo. Alcuni autori, per esempio, sostengono posizioni radicali come quella che ciascun soggetto o gruppo di soggetti si debba definire a partire dall’affermazione della propria differenza. Qui siamo alla teorizzazione dello scontro come conquista della propria identità, ma vi sono altri autori che, risalendo all’orizzonte antropologico, utilizzano lo strumento analitico del dialogo, dell’incontro e della ricerca delle comuni radici storiche per ripercorrere il tragitto che l’umanità ha percorso da “Cro-Magnon” ai giorni nostri. Abou Selim, scrittore libanese autore de L’identità culturale (1981) e del più recente Rélation interhétnique et acculturation (1998), sostiene, per esempio, che ogni identità culturale, anche la più forte racchiude in sé la compresenza di un pulviscolo di diversità etniche, culturali, biologiche, mutuate inconsapevolmente da tutte le altre culture con cui quella determinata etnia si è imbattuta nel corso della storia dell’uomo. La prima conseguenza che se ne può trarre consiste nel ritenere che la creolizzazione del mondo occidentale dovrebbe essere salutata come la migliore delle medicine per il ringiovanimento di nazioni e di culture destinate all’estinzione. L’Europa di oggi è chiamata a riflettere proprio su questa problema complesso».
“Medicina, Immigrati e Culture della Salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Un convegno. Il primo in Italia.
Chi scrive, ricorda di aver organizzato, due giornate di studio (13-14 maggio 1999), in via David Lubin, a Roma, nella prestigiosa sede del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro [06], il Primo Convegno Nazionale italiano su un tema, allora di cogente attualità: “Medicina, Immigrati e Culture della Salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Oggi come si può ben vedere, la tematica migratoria, non solo non ha cessato di conservare intatta la sua cogenza, perchè non si è mai voluto neppure principiare a por mano ad una politica atta a risolverla, ma è stata tenuta artatamente irrisolta e incandescente, per distrarre il grande pubblico. Una sorta di “maggioranza astensionista e arrabbiata” che, molto delusa, come s’è detto, pur avendo diritto al voto, spesso nelle ultime consultazioni, ha rinunciato a quest’arma democratica.
Il Convegno fu promosso dal DSM dell’ASL Roma “B”, nell’ambito delle attività di un Progetto-obiettivo triennale, finanziato dalla Regione Lazio, intitolato a “Michele Risso”, e diretto dallo scrivente [07] per la tutela della salute mentale degli immigrati. Progetto che l’Azienda stessa aveva deliberato e stava perseguendo da due anni, poi interrotto all’inizio del terzo.
«Nella premessa del “razionale scientifico” del Convegno si faceva riferimento a temi sociali di grande attualità da cui stralciamo qualche brano. “Da oltre un quarto di secolo i flussi migratori hanno mutato le vecchie rotte tradizionali verso le Americhe ed hanno cominciato ad investire i Paesi europei aderenti alla Comunità Economica Europea (CEE), successivamente divenuta Unione Europea (UE). Fra essi, l’Italia, per la sua posizione geografica nel Mediterraneo e per i suoi ottomila chilometri di coste, è la Nazione dell’UE che attualmente subisce il fenomeno con maggiore intensità, anche se non tutti i soggetti che vi entrano intendo rimanervi. Gli ingressi illegali nel nostro paese - favoriti da un turpe mercato senza scrupoli di traghettatori di nuove schiavitù - costituiscono la maggioranza, tanto che questa tipologia di immigrati viene definita anche col termine di “clandestini transitanti”. Le persone che battono alle porte del vecchio continente giungono dalle zone più remote del pianeta e vengono spregiativamente denominate, nel linguaggio comune con l’appellativo “extracomunitari”, anche se dopo le tappe di Maastricht, Schengen e Trevi che hanno sancito ufficialmente la costituzione dell’Unione Europea per la libera circolazione delle merci e degli uomini, avrebbero meritato altra denominazione e soprattutto maggiore considerazione. Il perchè è presto detto. Per quanto riguarda l’Europa, il Sud impoverito del mondo è stato il primo a salire verso il Nord per cercare pane e lavoro. Per molto tempo si è colposamente taciuto, fingendo di non accorgersi del fenomeno, ma da 10 anni, in seguito al crollo del muro di Berlino (1989), sono stati i paesi economicamente dissestati dell’Est a premere disperatamente sull’Ovest europeo e il problema si è rivelato acuto, urgente, indilazionabile, soprattutto di una visibilità palmare. L’Unione Europea, sbigottita e incerta, ha dapprima accusato l’Italia di eccessiva permissività verso gli ingressi illegali, quasi a ritenere che le ondate immigratorie provenienti dalle rotte mediterranee fossero un problema esclusivamente italiano. Poi ha guardato con interesse al modello statunitense, il quale ha proposto una “cortina di latta” da costa a costa, per rispondere alle infiltrazioni immigratorie che provengono dal Sudamerica passando per i confini messicani. Infine, ma da poco tempo, sta cercando di adottare strategie di economia politica e di contrattazione diplomatica per disciplinare queste drammatiche affluenze, divenute ormai continue, ingenti e potenzialmente destabilizzanti per l’Europa tutta. Poi è scoppiato l’ultimo “conflitto dei Balcani” e tutto sembra tornare in alto mare. Ancora un conflitto nei Balcani. L’ennesimo nella storia dell’Europa, a partire dalla suddivisione amministrativa in Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente operata da Diocleziano, approfondita poi dall’ambigua fuga di Costantino nell’odierna Istambul, culminata nel 395 d.C. alla morte di Teodosio. Infine sancita storicamente come “caduta dell’Impero Romano d’Occidente” poco più di mezzo secolo dopo, nell’anno 476 d.C., alla deposizione dell’ultimo Imperatore, un incolpevole fanciullo chiamato significativamente “Romolo Augustolo”, da parte di Odoacre. Come si può ben constatare nihil sub sole novi.»
Mediterraneo ante Libiam. Mare nostrum o mare mortis?
Una serie di crudeltà indicibili si sono perpetrate verso una umanità in fuga, giovani uomini, giovani donne, bambini, chiunque avesse alcunché da barattare con gli aguzzini, oltre al danaro. Quella era la conditio sine qua non per poter accedere al calvario migratorio. Tragedia mondiale che, nel Vecchio Mondo, coram Europa, si è imbarbarita, negli ultimi 20 anni, con una alexitimia neghittosa, esibita da tutta quella che si fa chiamare ancora UE, avendo dimenticato i propri padri fondatori.
Nel Nuovo Mondo, gli ha fatto eco l’immane sciagura sudamericana. Fuggono disperati, nelle stesse condizioni e con le stesse afflizioni, giovani uomini, giovani donne e bambini. I vecchi no, sono incapaci di fuggire, sono indigenti, eppoi in fuga, la memoria non serve, appesantisce, ci vogliono “gambe”. Come certe storie dei Thule. Gli antenati degli Inuit eschimesi, il piccolo popolo dell’Artico, se c’è ancora qualcuno di loro, che si lasciavano morire sul pack.
Queste del centro-america, sono genti honduregne, venezuelane e messicane, scappano in carovane verso il nord. Sono “murate”, però, al cospetto di un’America cinica, senza speranza, sempre più avvilita, ormai, da un pingue e gesticolante, biondo immigrato teutonico, col parrucchino e un pronunciato valgismo, che sa solo metter dazi, alzare muri, firmare editti con pennarelli che sembrano Winchester e minacciare il mondo. In una delle sue ultime dichiarazioni di commento alle stragi americane di inermi innocenti, sempre più copiose, da parte di giovani “suprematisti”, avrebbe detto che non sono le armi che uccidono, ma la pazzia di chi le usa! Certo che con un presidente così, poveri Americani. Ma forse sono io che ho capito male.
Ah! Dimenticavo gli “scafisti”. Certe volte utilizzo una tecnica di straniazione, per tentare d’immaginare chi siano, che aspetto abbiano, da dove vengano gli “scafisti” di cui si fa un gran parlare. Eh! Se li prendiamo! ... Ma si nascondono tra i migranti ... si mimetizzano ... sono integralisti che poi si fanno esplodere... sgusciano tra le maglie stese dagli ultimi ministri di polizia ... Questo, più o meno, si sente dire sui media.
Non posso trattenermi dal dire che qualcosa m’è tornata alla mente, perchè io a quel tempo c’ero. Manzoni no! Troppo facile, troppo liceale. Meglio Eichmann, La Banalità del Male, Hannah Arendt, che lo ha visto in gabbia e lo ha descritto, vivo, in carne e ossa, processato davanti al mondo intero, perché tutti quanti potessimo vedere che spesso dietro al più grande dei ”mali” come l’eliminazione programmata e seriale di milioni di ebrei, diventa banale, banale come l’automatismo di una inanimata catena di montaggio, Charlot!. Non proprio stupido ma banale. Incapace, quel criminale stupido, di immaginarsi parte di un meccanismo più grande. Una banalissima rotellina di un diabolico macchinario del male, ben oliato, ben organizzato, per condurre il maggior numero possibile di “ebrei”, ma anche “zingari”, “omosessuali”, allo sterminio nelle camere a gas. Le fabbriche di morte come per esempio nel campo di Auschwitz-Birkenau. La terribile banalità di questo carnefice e dei suoi accoliti, unicamente preoccupati di “rispettare gli ordini di Hitler”, di procedere con ordine, selezionando i gruppi, separando gli “oggetti”, cose e individui, sotto la vigilanza occhiuta di medici SS, annotando scrupolosamente un certo numero di corpi alla volta! Ecco, questo apparve clamorosamente sconvolgente. Proprio questa sensazione nauseabonda si percepiva dal rendiconto della Arendt da Gerusalemme durante il processo al criminale nazista. Nazista e banale, appunto! Ho faticato molto a scacciare l’aggettivo “diabolico” dalla mia rievocazione. Non volevo assolutamente, che si potesse attribuire a questo banale nazista, tutta l’ineffabilità, la scaltrezza e la grandezza di “Woland”, il professore di magia che predice le morti terrene, creato dall’estro mirabile di Bulgakov nel 1928, in pieno stalinismo [08].
«Tornando all’immigrazione, per quanto concerne l’opinione pubblica italiana, se ne ricava un po’ l’impressione (scrivevo allora n.d.r.) che ci si sia resi conto della crudezza del fenomeno, soltanto dopo la “questione albanese”, dopo gli sbarchi maghrebini a Pantelleria, dopo i naufragi di carrette del mare senza speranza, piene di Curdi sulla costa ionica e dopo le turpi vicende degli “scafisti” del Canale d’Otranto che, una volta scoperti, per evitare l’arresto, non hanno esitato a gettare a mare uomini, donne e bambini.
«Al di là di queste crudeltà imprevedibili e impossibili da controllare, bisogna, tuttavia, rilevare che non molto è stato fatto (tranne rare eccezioni) nella direzione del riordino di un piano sanitario complessivo ed efficace, mirato soprattutto alla prevenzione della salute degli immigrati, ivi compresa la salute mentale, la cui ricaduta sugli autoctoni è più che evidente. In questo senso la prima accoglienza e i provvedimenti urgenti adottati per l’assistenza e per l’emergenza sanitaria, non esauriscono il problema “salute”. Se si pensa poi che solo alcuni di tali compiti sono stati quasi totalmente espletati, in regime di supplenza, da Agenzie non governative anche laiche, ma principalmente confessionali se ne potrebbe ricavare la sensazione di una sorta di latitanza dello Stato in materia di salute pubblica nei confronti delle popolazioni immigrate.
«Il danno d’immagine per il Servizio Sanitario Nazionale, cui dovrebbe competere il compito di assicurare a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria, è risultato notevole. Basterebbe considerare da un lato le ripetute emanazioni di normative generali e circolari esplicative (talora poco chiare) sull’assistenza agli immigrati, dall’altro le speciose difficoltà burocratiche sollevate da taluni Enti Locali (fortunatamente non molti) per l’applicazione delle medesime o la loro arbitraria inosservanza. Qualcuno ha ritenuto di ravvisare nel comportamento dello Stato un appiattimento sulla politica delle deleghe ad istituzioni vicarianti, piuttosto che l’assunzione diretta di incombenze che le sono peculiari. In ogni caso nessuno dei tanti provvedimenti governativi sulla politica migratoria è stato mai direttamente centrato sul problema specifico di farsi carico della tutela della salute mentale della popolazione migrante. Questo, ad onor del vero, né in Italia né altrove».
Torrespaccata ASL/Roma /B. Progetto obiettivo “Michele Risso” per tutelare la salute mentale dei migranti.
Scrivevo allora «La necessità di varare un progetto-obiettivo che avesse come scopo principale quello di osservare, tutelare e mantenere la salute mentale degli immigrati è divenuta ormai urgente e ineluttabile. Ciò non soltanto per governare i conflitti tra poveri, la convivenza etnico-religiosa, i problemi del meticciato e delle adozioni - rotte verso le quali, a quanto è dato capire, sembra destinata a dirigersi la vecchia Europa - ma anche e soprattutto per prevenire patologie sociali e mentali, di cui già si stanno rilevando le prime avvisaglie». Vista oggi, 2019, la situazione, continuamente rimandata per 20 anni, non per distrazione ma scientemente, appare più che colpevole, un bieco strumento politico nelle mani dei soliti finti furbi che si sono avvicendati al potere di governo.
«Sotto questo profilo – scrivevo nel 2019 - la ASL “B” di Roma ha ritenuto di anticipare i tempi varando il Progetto-obiettivo triennale “Michele Risso” per la tutela della salute mentale delle popolazioni migranti e per lo studio dell’etnopsichiatria».
Non eravamo in anticipo, semmai in ritardo, rispetto alla Germania, al Regno Unito, alla Francia. Tranne la prima, quelle erano state importanti nazioni coloniali, noi invece, avevamo una solida reputazione per il nostro passato di emigranti, un po’ in tutto il mondo, perciò così continuavo.
«Non è un caso se si sia pensato di intitolare questa iniziativa alla memoria dello psichiatra Michele Risso considerato fra gli iniziatori e i maestri italiani più prestigiosi della clinica e della riflessione teorica sulla natura etnopsichiatrica dei disturbi psicologici e psicopatologici degli immigrati italiani in Svizzera negli anni ’60 del Novecento. Sono ormai 20 anni che nel DSM della VIII Circoscrizione del Comune di Roma (una estensione territoriale un po’ più grande della città di Firenze), esiste un minuscolo gruppo di lavoro insediato nel centro di Salute Mentale (CSM) di via di Torre Spaccata 157 che si occupa attivamente anche di salute mentale degli immigrati. Questo ambulatorio, che funziona tre volte per settimana, non deve la sua esistenza ad una sorta di amore per l’esotismo, ma cerca di far fronte alle numerose esigenze strettamente legate alla composita popolazione che abita il territorio. Prima si trattava di emigrati italiani rientrati con patologie psichiatriche, ora vengono presi in carico gli “emigrati degli altri” (regolari, irregolari, clandestini)».
E ancora.
«Il crescente interesse per questo tema, divenuto ormai di rilevanza internazionale e le numerose richieste che pervengono al Centro da più parti, autorizzano a pensare che questa nostra esperienza relativa al problema della tutela della salute (e in particolare di quella mentale) degli immigrati, potrebbe essere messa a disposizione di altri operatori del SSN del nostro paese e di altri paesi interessati. Si potrebbe così pensare alla creazione di un gruppo operativo multidisciplinare, coordinato dai Ministeri competenti, che lavori nello scacchiere cruciale dell’area del Mediterraneo.
Il perfezionamento, la diffusione e la messa in rete di tale ipotesi di “lavoro concertato” sugli interventi della Sanità Pubblica nei confronti degli immigrati, avrebbe evidenti ricadute non solo sulla prevenzione della salute per l’Unione Europea nel suo complesso, ma anche incalcolabili “ritorni d’immagine” sia di carattere umanitario che politico. A quanto par di capire oggi, il destino dell’Europa sembra avviarsi verso una ineluttabile convivenza meticcia e l’ondata migratoria che sale dal bacino del Mediterraneo, di cui l’Italia è punto strategico, è ben lungi dall’estinguersi. Tanto vale prenderne atto e predisporre per tempo le misure necessarie per farvi fronte».
Aree tematiche.
Le principali aree tematiche proposte dal nostro Convegno del 1999, furono le seguenti: 1) Immigrazione e politiche sociali. 2) Integrazione, Multiculturalità, Multietnicità, Creolizzazione. 3) Immigrazione e Politiche di Assistenza Fisica e Psichica. 4) Immigrazione Salute Mentale Epidemiologia e Prevenzione 5) Progetti tutela salute fisica e psichica donne immigrate. 6) Etnopsichiatria, Psicologia e Psichiatria Clinica Multiculturale. Formazione 7) Servizio Sociale, Professioni di Aiuto e collaborazione con le ONG. Fu inoltre proposto e varato un Coordinamento Nazionale della Sanità Pubblica per la “Tutela della Salute Mentale degli Immigrati” (TSMI). Quanto agli argomenti trattati, si parlò ampiamente di “Pluralismo medico e gruppi minoritari”, di “Leggi sull’immigrazione e sue ricadute culturali”, di “Formazione, Informazione, Traduzione e Mediazione di significati culturali”, di “Associazionismo e Comunità immigrate”, di “Accesso e visibilità dei Servizi Sanitari”, di “Analisi dei nuovi dispositivi terapeutici”, di “Psico-educazione culturale verso le famiglie, i bambini, le adozioni internazionali, le unioni miste, i problemi religiosi del nostro meticciato attuale e prossimo futuro”, di “Assistenza sanitaria e prevenzione ad immigrati regolari, irregolari, clandestini”, di “Professionalizzazione del volontariato o volontariato come supporto”, delle “Professioni di aiuto”, del “Diritto all’assistenza socio sanitaria e dei compiti istituzionali della Sanità pubblica”.
Qui di seguito, molto succintamente, alcune osservazioni che io feci allora sulle tematizzazioni in discorso, dibattute da operatori della Sanità Pubblica, da Volontari di Organizzazioni non Governative (ONG) e da soggetti politici durante le due giornate di studio del I Convegno Nazionale su “Medicina, Immigrazione, Culture della salute Mentale nel Servizio Pubblico”. Era quasi superfluo sottolineare come non si fosse mai parlato di Salute e Sanità pubblica in quei particolari frangenti storici che, nel cuore dell’Europa, videro volare missili silenziosi, manovrare potenti navi da guerra, sfrecciare aerei da caccia supersonici, superinvisibili e altri strumenti di morte che ci venivano gabellati per “intelligenti”, facendo torto all’intelligenza o per “chirurgici”, recando offesa alla chirurgia.
Salute e salute mentale.
La salute - come ognuno sa - è uno fra i pochissimi beni primari (cioè concreti, non ideologici) dell’uomo di tutte le società di qualsiasi tipo e qualunque epoca. Si potrebbe anche prestar fede, sicuri di non sbagliare, alla vulgata dei contemporanei che ci ammonisce “quando c’è la salute...”. D’altro canto i nostri saggi pensatori dell’antichità ci insegnavano che per filosofare bisognava prima mangiare e noi potremmo aggiungere che il buon appetito è segno certo di buona salute.
D’accordo sulla Medicina, sulla Sanità pubblica, sull’Immigrazione, ma cosa c’entra la salute mentale, anzi le culture della “salute mentale”, verrebbe da domandarsi? Perché organizzare proprio un Convegno Nazionale (il primo in Italia con un taglio di questo genere) che abbia sullo sfondo il tema della “salute mentale” non solo degli autoctoni (ovviamente come termine di confronto), ma anche quella delle persone immigrate? Si potrebbe rispondere facilmente come i Romani antichi che conoscevano benissimo il valore della locuzione mens sana in corpore sano.
«Ma noi pensiamo davvero che nella presente barbarie ancor più barbarica, senza alcun cenno di voler deflettere, neppure allo spirar di un secolo che pure è stato quasi ininterrottamente segnato da una subentrante follia sanguinaria, il discorso valga la pena di essere affrontato o almeno posto all’attenzione generale del mondo della Sanità Pubblica? Si badi bene che, quando parliamo di “pazzia sanguinaria” non intendiamo certo riferirci alla dimensione complessa della psicosi ed all’esperienza personale dello psicosico, col quale ci scusiamo, che è tutt’altra cosa. Usiamo parole dure e pregnanti ricorrendo al termine convenzionale di “pazzia” soltanto per bollare il settarismo acritico, l’ignoranza storica, il razzismo insensato, la ferocia ottusa degli spazzini etnici, la protervia della “ragione del più forte” per annientare il più debole. Qui il discorso sulla salute mentale, sui modi di tutelarla e di prevenirla, è assolutamente pertinente e prioritario; se non altro per favorire un accesso alla parola, al dialogo, alla comunicazione, all’ascolto delle ragioni di tutti che, in definitiva, sono presupposti per un introito alla dimensione dell’interculturalità, all’irenismo della comunicazione interetnica. Invece, sembriamo essere in pieno stato confusionale!»
Non poteva esservi profezia più esatta, stando alle cronache di vent’anni dopo. Il presente è indecifrabile. Fluido, incerto, torbido, insicuro, dove i protagonisti mediatici sono sempre rappresentati come neri, migranti, maghrebini, integralisti! Una firma prestigiosa, Furio Colombo, scrive un pezzo, a commento dei sequestri di naufraghi su navi italiane della guardia costiera e dell’uccisione violenta di un carabiniere a Roma, in pieno centro, con 11 colpi di pugnale/baionetta. Il titolo forte è Migranti in mare e delitto Rega. Un paese dove nulla è normale. [09] «Quando saranno tornati tempi normali, ci sarà qualcuno disposto a credere che a Roma, in una notte di luglio del 2019, un bravo carabiniere è stato mandato senza armi né ordini a incontrare sconosciuti assassini che lo hanno ucciso con crudele esattezza, per sconosciute ragioni di una catena di eventi che non sappiamo, sono scappati con lo zaino di qualcuno la cui narrazione della storia cambia sempre, inseguiti da narrazioni sempre diverse? Il governo dichiara subito che il carabiniere è stato ucciso (del resto in modo tipicamente sanguinario da due africani), il ministro dell’interno decide subito per i criminali neri lavori forzati a vita, incalzato dalla invocazione della pena di morte […] ». Si scopre poi che sono due giovanissimi studenti bianchissimi e americani. «Si tratta di una matassa senza bandolo (cito Altan) – prosegue Furio Colombo – che si è formata in una misteriosa notte, alle molte narrazioni diverse e ai vari comprimari […] ».
Per esplicitare meglio queste tematizzazioni sarebbe sufficiente soffermarsi con un po’ più di attenzione sulle nozioni di “salute” e di “salute mentale” che per noi occidentali paiono quasi ovvie o comunque corredate di un significato ben preciso.
Scrivevo allora. «Ragionandoci sopra, sicuramente verremmo a scoprire (e ne saremmo gradevolmente sorpresi) come dietro ciascuno di questi concetti esistano profondi rimandi alle differenti culture che li elaborano, li immaginano, li esprimono e li praticano da tempo. Una siffatta riflessione è iniziata ormai da lungo tempo, tra il finire dell’Ottocento e il secondo dopoguerra a partire da necessità di decolonizzazione e di migliore comprensione di fenomeni altrimenti inspiegabili. Insomma, in varie parti del mondo, completamente rovesciato, dopo la fine della seconda guerra mondiale, una serie di studiosi e di “Scuole”, secondo necessità, linguaggi e correnti, si è applicata allo studio di una nuova disciplina chiamata (a posteriori) “etnopsichiatria” [10]. Oggi l’etnopsichiatria, in Italia, suscita molto interesse ed è praticata (sia pure da pochi e a macchia di leopardo) nei Distretti di Salute Mentale del Servizio Sanitario Nazionale. proprio per la sua capacità critica di mettere in discussione (attraverso una doppia lettura del disturbo) le certezze assiomatiche del sapere medico convenzionale al quale il mondo occidentale è stato educato. Tuttavia non sempre si riesce a vincere la diffidenza dalle Direzioni Aziendali della Salute, distratte ossessivamente dalla seguente equazione complessa e perversa: taglio delle spese - aumento delle prestazioni - controllo della qualità del prodotto fornito - riduzione del personale di assistenza».
La spesa, il tema economico, la biomedicina e la medicina popolare.
Al di fuori delle questioni economiche (peraltro non irrilevanti) basterebbe pensare alla contrapposizione fra il modello della Medicina ufficiale, della Medicina scientifica o “Biomedicina” (come, con un certo appunto critico, ama definirla la moderna corrente dell’antropologia medica) di cui ognuno riconosce i meriti indiscussi e quelli della Medicina tradizionale di cui tutti conoscono i valori e l’efficacia, pur ricorrendovi con un po’ d’imbarazzo, magari nascostamente per non passare da “primitivi”.
Il grande attore e commediografo Eduardo De Filippo, parlando di taluni fenomeni misteriosi attinenti alla salute (o alle insidie ad essa recate) ammoniva saggiamente “non è vero ma ci credo”. Naturalmente egli aveva in mente un mondo tradizionale e popolare (insondabile dal sapere scientifico) allorché rappresentava e dissertava sulle fatture, sulle iettature, sugli spiritelli dispettosi (il Monaciello per esempio) e sulle ritualità apotropaiche per difendersene, da tutti giudicate semplici “superstizioni”. Ma proprio un’attenta analisi di queste ( ed altre) “superstizioni” ci fanno scoprire come dietro di esse si celino i mondi culturali delle tradizioni popolari, dotati di straordinario e profondo valore di significato. In ogni latitudine del mondo dove la Medicina ufficiale non è ancora giunta ad imporre la propria supremazia, scopriamo (ed impariamo) che intere popolazioni, etnie e civiltà del passato sono sopravvissute, in virtù della pratica di sistemi terapeutici locali, fino ad arrivare ai giorni nostri. Dunque qualcosa di “curativo” doveva pur funzionare (e forse ancora funziona) nella Medicina tradizionale, sogguardata come pratica di ciarlatani.
Scrivevo allora. «Non è un caso se oggi la “Biomedicina”, il frutto più prestigioso del sapere medico-scientifico occidentale, che ha stravinto dovunque sia arrivata, dimostri proprio nel suo luogo di origine una crescente disaffezione. Proprio in occidente assistiamo al proliferare di terapie esotiche e di pratiche mediche di culture altre, come ad esempio l’agopuntura, l’erbalismo, lo shiatzu, la meditazione trascendentale, lo yoga, i sistemi di autocontrollo delle funzioni neurovegetative, i cakra, i mandala gli yantra coi relativi significati terapeutico-spirituali, rimandi religiosi, ecc. Si potrebbe pensare che la “Biomedicina” abbia vinto sulla malattia ma abbia perso di vista l’uomo nella sua interezza. In molti casi la nostra Medicina culta si è dimenticata della visione olistica della persona che è oggetto di cure. Detto in altri termini, ogni modo d’intendere la salute e l’equilibrio mentale, rimanda a molte culture, le “Culture della salute”, appunto. Di tutto ciò siamo debitori alle culture che hanno attraversato i nostri confini europei camminando sulle gambe degli immigrati, giunti da ogni parte del mondo. Dunque la “salute mentale” non solo non è estranea ai grandi temi della salute in generale ma diviene indispensabile per un valido contributo alla riflessione sulla condizione dell’esistenza dell’uomo nel mondo. Da quanto emerso dalle discussioni del Convegno si può ritenere corretto pensare come, anche in ordine ai problemi della salute, enunciazioni del tipo “pessimismo della ragione”, “ottimismo della volontà”, “pragmatismo della predittività” siano processi mentali che debbano, comunque e sempre, superare il vaglio della ragion critica, del confronto dialettico e della transazione culturale suggerita dal buon senso. L’integrazione, così come lo sviluppo delle relazioni con gli immigrati - è stato detto al Convegno - debbono necessariamente passare per il tramite di un dialogo virtuoso attorno alla “salute mentale”. Solo una siffatta operazione culturale, all’insegna del relativismo ed emendata dal pregiudizio, può attingere il più pacifico e il più elevato livello di confronto e di convivenza tra gruppi sociali autoctoni e allogeni, tra sistemi convenzionali e tradizionali di cura, tra modelli di visioni del mondo e attese di vita assolutamente differenti, ma non incompatibili».
Ideologie e prassi.
A Danzica e poi a Lublino, in Polonia, uno dei cosiddetti paesi satelliti della cortina di ferro, nell’estate del 1980, la storia iniziò a girarsi contro il comunismo (reale) dell’Unione Sovietica (la Sovietskij soyuz, un impero rosso). Il licenziamento di un’operaia del “Cantiere Lenin” e la visita di Wojtyła, l’anno avanti, incendiarono il malcontento. Poi vennero Lech Walesa, futuro presidente, e le altre “rivoluzioni” più o meno “pacifiche”, molto spontanee, ma anche eterodirette da un Occidente Atlantico molto interessato dal cosiddetto “mondo libero e democratico”. Detto molto approssivamente, pian piano, seguì la caduta dei regimi comunisti, [11] fino al crollo del Muro di Berlino (novembre 1989), simbolicamente l’implosione dell’URSS, la riunificazione delle due Germanie e il cosiddetto crollo delle ideologie. Il richiamo storico al decennio precedente in cui si svolgeva il nostro Congresso del 1999, giustificava il seguente passaggio.
«Si sente dire oggi, con sempre maggiore insistenza, che l’ideologia sia ormai superata, ma c’è da dubitarne fortemente. A quanto par di capire, l’uomo ha ancora bisogno di ideologie e di utopie, ne ha bisogno come del pane. Il grande psichiatra clinico, psicopatologo e filosofo Ludwig Binswanger sosteneva, con molte buone ragioni, che l’ideologia fosse una forma di vita mancata dell’uomo, una esaltazione fissata per l’esattezza. Naturalmente quando parliamo di uomo, intendiamo fare riferimento all’uomo venuto al mondo nella maniera tradizionale; per essere ancora più espliciti, quello concepito secondo le leggi della natura da due autentici gameti genitoriali che s’incontrano direttamente nell’utero post coitum. Tutto ciò sia detto senza vena di polemica, poiché l’antropologia corrente non è ancora in grado di sapere quello che penseranno domani gli uomini clonati. Le scienze umane non sanno dire alcunché del destino degli “umanidi” nati da complicati processi di spermatozoi ed oociti passati dalla loro dimora biologica alla provetta congelata e dal congelatore trasferiti in una beuta prosseneta complice di uno squallido accoppiamento cellulare in vitro, per finire poi in chissà quale utero (vero o finto) che consenta la gestazione del fantomatico embrione dell’uomo virtuale di domani. Ma lasciamo da parte, almeno per ora, perchè non pertinenti ai temi in discorso, le questioni etiche della genetica e della legittimità della ricerca scientifica in biologia e in medicina (convenzionale o tradizionale che sia) e torniamo, invece, all’Europa. Con molta probabilità (e ce ne scusiamo col lettore) la lunga digressione sulle “Culture della Salute” e sul mondo antinomico della salute e della malattia, rappresenta un segnale esplicito (una deformazione professionale, se si preferisce) di quali siano gli interessi e le passioni che animano il campo della ricerca dell’estensore del presente articolo. Egli infatti è medico, psicopatologo, psichiatra clinico e dunque non lontano dal complesso disciplinare che pertiene alle scienze umane applicate».
E così concludevo.
«Oltre trent’anni fa Roger Bastide [12] scriveva profeticamente: “Non è solo l’America un crogiolo di popoli: la Francia non tende forse a diventare una nazione di quadri che dirigono un esercito di stranieri gravati dai compiti più manuali, dai Polacchi ai nordafricani?” Il rapido susseguirsi di grandi trasformazioni demografiche e sociali che ne è seguito in Europa, sotto la spinta incessante e crescente dei flussi immigrativi da ogni latitudine povera o impoverita del pianeta, non ha risparmiato l’Italia, anzi. Anche il nostro paese sta registrando tendenze (al momento di limitate dimensioni) di questa tipologia, ovverosia manodopera straniera (più o meno acculturata) occupata in lavori poco appetiti dagli autoctoni sotto la guida di quadri imprenditoriali nazionali. Questa è la prima ragione per la quale sarebbe opportuno che il nostro paese cominciasse a prendere confidenza con tale fenomenica problematica, così come hanno già fatto da tempo gli altri partner europei ex-coloniali. Avevamo aperto con una sorta di profezia ragionata di Roger Bastide, dimostratasi in seguito puntualmente confermata dai fatti. Ma essere buoni profeti soltanto, non basta, perché bisognerebbe anche avere la capacità e la possibilità di incidere sull’evoluzione degli eventi. Noi possiamo solo pensare, riflettere, ascoltare, discutere e questo sarebbe già un buon segnale. D’accordo, ma di cosa e su cosa parlare? L’evidenza dimostra che occorre, forse, ripartire da qualcosa che faccia continuamente riferimento all’essere, all’uomo nel mondo del suo tempo, nozione che gli europei di lingua tedesca indicherebbero come Dasein e Sosein».
Come procedere
Ci permettevamo anche di tracciare alcune linee guida che qui ripetiamo confidando nell’adagio latino repetita juvant.
«Forse per avanzare nell’oggi e immaginare un possibile futuro europeo, occorre ri-costruire, ri-progettare, prospettare nuovi scenari per un domani possibile sia dell’homus europaeus che dei suoi territori, la nostra vecchia Europa, ragionando sui fatti. Ebbene, in tutta franchezza, se dovessimo dar retta al “pessimismo della ragione” potremmo concludere che le previsioni non si presentano né buone né incoraggianti. Tuttavia sappiamo che l’essere (nell’accezione antropofenomenologica) è intenzionalizzato anche verso quel sano seppur irrazionale “ottimismo della volontà”. Questo dovrebbero farci pensare che ci avviamo (se non vogliamo fare la fine di Titone) ad una straordinaria occasione di cambiamento. La storia ci offre l’occasione di ridiventare protagonisti di un ringiovanimento della popolazione europea col ricco seme dei poveri. Molti anni fa scacciammo o favorimmo l’esodo di molti europei scomodi che andarono a vivere altrove. Oggi scopriamo che l’Europa può reimportare ordinatamente e saggiamente (per il proprio tornaconto), con una virtuosa integrazione, forze fresche dal Terzo Mondo. Fare una politica comune oltre alla moneta, superare le questioni storiche grandi e piccole nobili e meschine religiose e laiche, può risultare un grande vantaggio per un’Europa lacerata per secoli da orgogliose questioni di supremazia. Chiediamo scusa per questo sfacciato etnocentrismo (irriverente verso le Culture del pianeta tutto), ma non abbiamo scelta. L’Europa ha fatto molta strada, possiede un patrimonio di saperi e anche di nefandezze che ha divulgato nel mondo. Ebbene Se l’Europa è vecchia e la saggezza è propria della senectus, che la dimostri per aprire questo terzo millennio».
Note
01. Architettura. Nella Sicilia feudale e ancora tra il XVI e il XVII secolo, sotto dominazione spagnola, il baglio (bagghiu, in siciliano) era una fattoria fortificata con ampio cortile. Il grande latifondo delle piccole baronie dovendo corrispondere alla corona grandi quantità di cereali, avevano ricevuto la concessione di una "licenza di ripopolamento" (Licentia populandi). Attraverso questo istituto, la spina dorsale de latifondo (origine di molti guai del meridione d’Italia, la nobiltà siciliana giunse a creare autonomamente veri e propri villaggi nei dintorni della costruzione originaria, praticamente una "città di fondazione". In epoca più recente, in Sicilia, con baglio s'intende generalmente il cortile interno delle masserie. Nella provincia di Trapani, però, ha assunto il significato di "fortino" senza mai assumere, però, quello di “castello”. Nella scala della nobiltà i “baroni” occupano l’ultima posizione. Le rendite dell’aristocrazia e poi della borghesia erano alimentate da una strutturazione geo-economica di cui erano l’espressione e nella quale si è incistata la “mafia”, legata al “feudo” e al “latifondo”, dunque alla grande proprietà terriera. Queste cose le ho imparate dagli appunti di mio padre Ernesto Mellina (1892-1975), un seguace della dottrina sociale della chiesa, in gioventù, uno sturziano che eran peggio dei “comunisti”!
02. Si veda su POL.IT Psychiatry on line di Sergio Mellina. Scatoloni e badanti. Una biblioteca molto colorata ma inutilizzabile. 13 maggio, 2019.
03. Si faceva riferimento alle “Guerre jugoslave” dal 31 marzo 1991 al 12 novembre 2001, che si svolsero nei Territori dell'ex-Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. I Balcani, dopo Tito, non smentirono la loro triste fama e le mai sopite spinte nazionaliste degli stati federati, tipo quelle degli malfamati “Ustascia” e i “Poglavnik” (le Guide) degli anni 1941-45, capitanati da Ante Pavelic, tanto per ravvivare la memoria, con la connivenza dell’Europa fecero il resto. Anzi molto peggio! Mise in luce autentici criminali di guerra come Radovan Karadzic, Ratko Mladic, e Slobodan Milosevic, che si macchiarono di orrendi misfatti e furono condannati dal Tribunale internazionale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex-Iugoslavia, istituito nel 1993. La conclusione fu la dissoluzione della Jugoslavia e la creazione degli stati indipendenti di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo.
04. La giornata è un morso, dice mast’Errico sulla porta della sua bottega. Io stavo già là davanti da un quarto d’ora per cominciare bene il primo giorno di lavoro. Lui arriva alle sette, tira la serranda e dice la frase di sprone: la giornata è un morso, è corta, diamoci da fare. Montediddio, 2001.
05. Gianfauso Rosoli (1938-1998) un presbitero scalabriniano studioso eccelso di questioni migratorie prematuramente scomparso a Milano, all’età di 59 anni.
06. Il CNEL, allora presieduto da Giuseppe De Rita, quando dette ospitalità all’iniziativa del SDSM della ASL ex Roma VIII ora Municipio delle Torri, doveva essere chiuso come ente inutile, ma, nel bene e nel male, al momento in cui viene compilata la presente ristesura, ancora respira, a stento, ma nessuno è riuscito a estinguerlo, come più volte minacciato.
07. Si veda in proposito La tutela della salute mentale degli immigrati e il progetto “Michele risso” nell’ASL Roma B progetto Michele Risso e Dibattito con Sergio Mellina. In Il carro dalle molte ruote etnopsichiatria e psicoterapie transculturali a cura di Anna Rotondo e Marco Mazzetti. inoltre Etnopsichiatria e territorio. Esperienze a cura di Anna Rotondo. TERRENUOVE Società Cooperativa sociale - Onlus - 20129 Milano - Piazza Novelli 8.
08. Bulgakov Il Maestro e Margherita definito da Montale «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione».
09. Il Fatto Quotidiano domenica 4 agosto 2019, p. 13.
10. Il termine fece la sua comparsa in letteratura ad opera di uno psichiatra coloniale sudafricano anglosassone, tale Carothers. John Colin Dixon Carothers (1903-1959), era più che altro un medico con funzioni medico-legali per individuare simulatori, criminali, “mentalità primitive”, stregoni, ecc. Era stato incaricato dal Governo britannico, che negli anni Cinquanta occupava militarmente il Kenya, di studiare la cultura Kikuyu, in funzione anti Mau Mau allora un movimento indipendentista in rivolta. Un utile approfondimento, a chi fosse interessato a questo tema, può trovarlo in un lungo saggio e ben documentato di Luigi Benevelli su POL.IT Psychiatry on line del 1 dicembre 2017 intitolato John Colin Dixon Carothers e la patologia dei guerriglieri Mau Mau, nel suo blog Psichiatria e Razzismi Storie e documenti.
11. Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia e Germania Est, ossia I cosiddetti paesi satelliti sia per gestire la guerra fredda, che per matenere l’equilibrio del terrore atomico, contro il Patto Atlantico che, con gli stessi meccanismi geopolitici, costituiva la cortina di ferro degli USA.
12. Roger Bastide. Sociologie des maladies mentales. Flammarion. Paris, 1965.