Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

CHE FARE PER USCIRE DALLA FINZIONE?

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26 agosto, 2019 - 12:52
di Sarantis Thanopulos
Il senso di frustrazione di fronte alle forze distruttive riaffacciate in modo potente nelle nostre vite, per lungo tempo cullate nella sicurezza e relativa pace dei nostri paesi occidentali, non prive di infelicità, ma protette dal dolore che imperversava nel resto del mondo, ci porta sempre alla stessa domanda: “Che fare?”  
Che fare con la società della “legittima difesa” nei confronti dell’altro, con il sorgere dei mille sovranismi ottusi - non un progetto politico, ma la somma di tutte le varianti dell’egoismo- che porta al diritto criminale del più forte?  In che modo farsi carico della disparità enorme nei rapporti di scambio che minaccia mortalmente la democrazia? Come gestire i flussi di migrazione in modo ragionevole sfruttando la loro forza propulsiva e risanare i processi che li rendono patologici, minati, in partenza, dallo sradicamento selvaggio? Quali misure adottare per salvare l’ambiente in cui viviamo, spietatamente calpestato e in fase di crescente distruzione?
Le proposte non mancano, sono note da sempre e sono al tempo stesso ragionevoli e impotenti. Una cosa si può dire certa: nessuno dei problemi che affrontiamo (l’ineguaglianza crescente, il razzismo/sovranismo, l’incancrenirsi dei flussi migratori, il degrado ambientale) potrà mai essere risolto senza l’affermazione e il consolidamento dei diritti delle donne e dei diritti dei lavoratori. Questi diritti si giocano sul piano del desiderio, del coinvolgimento profondo nella relazione con l’altro, e non sul piano dei puri bisogni materiali, in cui la relazione con l’altro slitta regolarmente nello sfruttamento. Qui il pensiero di nuovo si arena nell’azione possibile/impossibile: “Alla fine, che fare?”
La domanda ci porta sempre a se stessa e deve essere abbandonata. Sostituita con un’altra un po’ più complessa: “Che stiamo veramente facendo e perché lo facciamo?” La relazione strumentale con le persone, gli oggetti e gli ambienti della vita sottende tutti processi degenerativi che incombono sul nostro futuro e si dovrebbe partire da essa. Le forze democratiche di sinistra non riescono a combattere efficacemente lo sfruttamento come regola di vita, non perché manchino loro le idee, ma perché esso produce logiche e pratiche di fidelizzazione in cui esse sono coinvolte passivamente, quando non ne diventano, a volte, complici inconsapevoli.
Tra il pensare e il dire/fare (l’azione che sostituisce il linguaggio) “c’è di mezzo il mare” quando l’agire conforma gli esseri umani a ingranaggi di meccanismi impersonali. Per vedere in azione lo sfruttamento, non è necessario andare a scovare gli stranieri reclutati dai “caporali”, né le donne che fabbricano scarpe di lusso per compensi di fame. Basterebbe guardare la cultura dei sondaggi, la misurazione costante e predeterminante degli umori e degli impulsi umani che sta emarginato i sentimenti e il pensiero e svuotando di senso le scelte politiche dei cittadini e le istituzioni democratiche.
La sconfitta, né inevitabile né irrimediabile, della sinistra, la si può configurare nel miglior dei modi seguendo il graduale allontanamento dei suoi “partiti di massa”  dal loro legame con i luoghi in cui respira e vive il popolo dei cittadini, per sperdersi nelle lande deserte dei network e delle fiere della vanità mediatiche (immenso specchio narcisistico del nulla chiamato “spettacolo”). Se si insegue ciò che “pensa la gente” (cioè niente) ci si trova in un mondo non reale, fittizio, troppo “realistico” per essere vero. Di ciò che effettivamente fa, gran parte della sinistra non si accorge perché è sovradeterminato dal pragmatismo della finzione. Se ne può uscire. Non è una prescrizione medica.      

 

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