Seconda recensione a "Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi domandanti."

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23 dicembre, 2019 - 07:57
Autore: Franco Lolli
Editore: POIESIS EDITORE
Anno: 2019
Pagine: 204
Costo: €15.30
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Il nuovo libro di Franco Lolli è un invito alla riflessione sulla capacità della psicoanalisi di fare presa sulla realtà odierna. Le tre sezioni che lo compongono sono tenute insieme da una medesima questione: la necessità di aggiornamento della psicoanalisi in ragione dei cambiamenti storico sociali intervenuti nella tarda contemporaneità. Questione che l’autore si sforza di definire attraverso la riflessione sui caratteri specifici dello stesso sapere psicoanalitico. Il punto del lavoro è proprio questo: in cosa deve consistere l’aggiornamento della prassi psicoanalitica? Dov’è il confine da non oltrepassare perché la cura analitica non si trasformi in psicoterapia? Da cosa, esattamente, dovrebbe essere motivato il cambiamento ritenuto necessario? Poiché le questioni che riguardano genericamente il “contemporaneo” non mancano di avere effetti sulla postura e sulla pratica dello psicoanalista, il punto di partenza della riflessione di Lolli è quell’atteggiamento definito “declinismo” che sembra essere diventato oggi un assunto indubitabile.


Una tesi, quella declinista, fondata sulla coincidenza tra il declino della figura paterna e il progressivo e irreversibile indebolimento della legge che rende possibile e stabilizza il legame sociale, fino giungere, inevitabilmente, a un’organizzazione psico-sociale caratterizzata dal godimento illimitato. Dalla presunzione di debolezza del Padre alla tendenza al godimento sfrenato: il passo è stato breve e sicuro. La lettura del testo di Lolli, che trova peraltro sostegno nelle riflessioni di altri autori, prevalentemente francesi, invita a dubitare di questo paradigma interpretativo. Il difetto di coerenza interna che la teoria declinista pare contenere deriva da almeno due fattori: il primo è che essa ignora il caposaldo dell’insegnamento freudiano, e cioè che il disagio – come qualunque tratto sintomatico – è generato dalla rinuncia pulsionale; il secondo è l’interpretazione semplicistica del “discorso del capitalista” descritto da Lacan. Quel che c’è di preoccupante per la prassi psicoanalitica è che l’insistenza dei declinisti sull’evaporazione del padre è autorizzata dal convincimento che la legge e il padre reale, il padre in carne ed ossa, in qualche modo coincidano. Dato questo presupposto, l’analista può credere che sia legittimo assumere proprio la posizione del padre: se il padre è necessario per garantire il funzionamento del simbolico e liberare il soggetto dal pericolo sempre incombente del godimento mortifero, ebbene il valore terapeutico di una cura analitica non potrà non tenere in considerazione la necessità di ripristinare l’azione paterna. Ma l’identificazione dell’analista al padre solleva questioni etiche della cui portata Lolli vuole ragionare – e ne propone una dovizia. Oltre l’evidente immaginarizzazione della posizione dell’analista, l’invocazione al padre, e alla sua autorità salvifica, continua a sostenere, peraltro, la sostanziale misoginia della psicoanalisi che percepisce il materno e il femminile come un “buco nero” che solo la forza coraggiosa e benevola del padre-maschio può arginare e neutralizzare. E, naturalmente, dinanzi a così tanta benevolenza il soggetto della contemporaneità, smarrito nel godimento, non può che sviluppare un profondo debito. Rispetto all’analista-padre il soggetto è spinto a perpetuare nevroticamente sentimenti di debito e colpa, che sbarrano la strada alle possibilità di implicazione nella propria condizione di sofferenza e di assunzione di responsabilità rispetto ad essa. La critica di Lolli alla versione declinista del Padre è in fondo l’esplicitazione di una consapevolezza: sa forse la psicoanalisi come debba essere un padre? La molteplicità dei fattori in gioco è oggi tale da non consentire di stabilire una regola. Da una parte l’esigenza di introdurre la separazione del bambino dal godimento materno, dall’altra quella di essere castrato – ma non troppo – per permettere al bambino l’esplorazione della sua posizione soggettiva; e ancora la necessità di essere legge inconcussa del divieto e possibilità incarnata di trovare un equilibrio tra legge, trasgressione e godimento. Com’è questo padre del quale la psicoanalisi sarebbe in grado di fornire l’identikit? Sappiamo bene che chiunque faccia appello ad un particolare ritratto della figura paterna non può richiamarsi ad una presunta oggettività del sapere psicoanalitico, perché la psicoanalisi non ne garantisce la legittimità. La psicoanalisi resta una scienza del soggetto dell’inconscio, e se qualcuno decide che sia giusto suscitare nostalgia di un certo padre può farlo non certo dalla posizione dello psicoanalista. Se ne deve assumere la responsabilità personalmente, magari come studioso o intellettuale – se è riconosciuto come tale dalla comunità – ma non può chiedere che lo faccia, al suo posto, la psicoanalisi. Perché la psicoanalisi sa, dalla clinica, come possa essere un padre nell’esercizio della sua funzione simbolica, ma non come il padre debba essere perché possa conseguirne una famiglia giusta e felice. Cos’è cambiato, allora, nella popolazione di coloro che bussano alla porta di un analista? Quali sono le conseguenze della democratizzazione della psicoanalisi? Su questo punto Lolli non minimizza certo le differenze tra il profilo dell’analizzante “ottocentesco” e quello contemporaneo, e propone una riflessione quasi-sociologica nella quale ricorda come la psicoanalisi delle origini abbia corrisposto alle aspirazioni della alta borghesia europea in cerca di affrancamento dalle costrizioni imposte dal potere delle vecchie classi dominanti: la repressione sessuale fu espressione dell’autorità e la conseguente sofferenza contro la quale la nuova borghesia volle reagire. I “nuovi domandanti” – questa è la tesi sostenuta nel libro – portano una domanda che non è certo cambiata nella sostanza, ma che ha connotazioni fenomeniche diverse rispetto al passato: “Le ‘strane’ domande che l’analista riceve contengono – pur se nascosto e camuffato – il conflitto tipico delle domande tradizionali, il conflitto tra un desiderio e il suo divieto. Il problema che pongono è che la dissimulazione di tale conflitto nel suo contrario (che, dal punto di vista fenomenico, diventa la tanto deplorata assenza di limiti al godimento) è talmente efficace da indurre la maggior parte degli studiosi a pensare ad un mutamento radicale della domanda stessa (e del soggetto che la formula)”. L’analisi sociologica che Lolli utilizza è essenzialmente, ed esplicitamente, mutuata dalle riflessioni di Pier Paolo Pasolini sulla “mutazione antropologica”: i rapidi mutamenti storico-culturali hanno trasformato le masse operaie e contadine in semplici consumatori, ma a questa trasformazione non è corrisposta la formazione di una nuova coscienza. Le classi proletarie hanno assimilato le logiche e gli stili della borghesia condannandosi così a una precarietà identitaria, intesa come assenza di coscienza di classe, che è il fattore causativo dello smarrimento psicologico: un’enorme nuova massa sociale che non trova stabilità nel senso di appartenenza (perché quella dei consumatori è una classe sociale senza storia), e, soprattutto, non ha più rapporto con il sapere, ma è in balia delle sollecitazioni estemporanee del discorso consumistico. Sicché anche la forma della domanda di cura si è potuta assimilare alla logica del consumo commerciale. Inoltre, la mancanza di rapporto con il sapere è ciò che induce i nuovi domandanti ad avere un atteggiamento diffidente anche nei confronti del sapere psicoanalitico: quel che domandano è una soluzione rapida alla loro sofferenza, nella quale non si sentono in alcun modo implicati. I nuovi domandanti vivono dunque in un regime di ipertrofia immaginaria, reso si possibile dall’instabilità del simbolico, ma rispetto alla quale i padri non giocano alcun ruolo poiché la vera ragione è l’assenza di una narrazione identitaria fondata su una storia di lunga durata. Non è l’assenza del padre e della sua funzione interdittoria a generare sofferenza, bensì la repressione camuffata del discorso neo-liberista, che limita la libertà di individuazione psichica e orienta il desiderio verso destinazioni predeterminate. Quest’analisi consente a Lolli di tirare una prima conclusione: se la psicoanalisi deve aggiornarsi, non c’è bisogno che il progetto di cambiamento si configuri come un sovvertimento radicale della teoria e della disciplina, perché l’intero apparato concettuale della psicoanalisi conserva immutato il suo valore. Per questa ragione, nel secondo capitolo il lettore trova una rassegna delle “figure” dell’analista che si incrociano nel testo lacaniano. Il capitolo, che si distingue per la perspicuità propria della manualistica, sollecita continue interrogazioni non solo sull’opportunità di revisione della tecnica, ma anche su cosa debba o possa essere un analista oggi. Uno dei meriti del libro di Lolli, forse il maggiore, è che stimola, su questo argomento, molte considerazioni. Attraverso la rivista critica delle posizioni dell’analista, infatti, Lolli esamina lo stato dell’arte in psicoanalisi, oltre che i vizi e le virtù della comunità psicoanalitica: inevitabile, infatti, pensare a quanto si avvicina e a quanto si allontana da quel che la teoria lacaniana prevede che uno psicoanalista debba essere e fare. La galleria dei ritratti dell’analista sembra, in ogni caso, mirare ad un nodo problematico essenziale: allo psicoanalista si offre, in effetti, la possibilità (o, dovremmo dire, la tentazione) di farsi promotore di una “riconciliazione ecumenica” realizzabile attraverso la rimozione del conflitto, ossia la rimozione di quanto il sapere psicoanalitico ritiene costitutivo dell’umano, e l’istituzione di una relazione d’amore. Il transfert d’amore, ribadisce Lolli, è si la via d’ingresso all’analisi, ma compito dell’analista è di liberarsi il prima possibile dalla posizione di oggetto d’investimento amoroso. Le suggestioni dell’amore devono tradursi in investimenti libidici che trovino nell’analista il loro oggetto pulsionale, sicché, una volta svincolata dall’analista, la pulsione possa produrre nuove forme di domanda. Mantenere l’analisi centrata sulla domanda d’amore è, in realtà, un impedimento al progresso della cura, che deve invece condurre ad una “delusione fondamentale” rispetto alla figura dell’analista: la caduta dell’ideale che l’analista rappresenta all’inizio della cura, la perdita dell’immagine di pienezza e della rassicurazione che promana, è un passaggio necessario della cura perché coincide con la fine dell’illusione del nevrotico che possa esistere almeno “uno” sfugge alla castrazione. Le analisi che si chiudono sull’amore, in questa prospettiva, falliscono l’obiettivo della caduta dell’ideale e, con questo, l’incontro con l’impossibile del reale. Dalla rassegna delle figure dell’analista si ricava – per chi intenda essere coerente con la pagina di Lacan – un’indicazione preziosa: la psicoanalisi non deve temere di rimanere “isolata” rispetto alle altre discipline, nel senso che l’attività dell’analista è di necessità destinata ad essere confinata nel suo studio, con i suoi pazienti; in breve: limitata all’esercizio della clinica. Che la psicoanalisi possa credersi detentrice di un sapere intorno alle grandi questioni esistenziali è – per quanto possibile per chiunque – il modo per annichilire la natura e la potenza della psicoanalisi stessa; Lacan, citato da Lolli, lo dice nel suo Seminario sull’atto psicoanalitico: “se ci sono delle persone che non sanno niente dell’Uomo, ebbene, questi sono gli psicoanalisti”. È un punto di insistenza nel libro: quello che uno psicoanalista può dire non è basato sul sapere specifico della psicoanalisi, perché quel sapere è un sapere continuamente destituito, capace solo, quando ci riesce, di far emergere il desiderio inconscio di un soggetto all’interno del dispositivo analitico. La parte finale del libro può esser letta come un’appassionata difesa della psicoanalisi, della sua pratica e del suo sapere particolarissimo. Lolli invita a non preoccuparsi delle accuse di inattualità perché l’eventuale tentativo di difesa non può che segnare l’inizio della fine della psicoanalisi. Il rischio da cui occorre difendersi è, semmai, quello di conformare la psicoanalisi al discorso sociale dominante: a forza di voler essere “attuale” la psicoanalisi rischia di rendersi funzionale al sistema dello spettacolo e dell’industria culturale. Non si può non notare, sulla scorta del ragionamento dell’autore, come gli appelli alla necessità di rinnovamento spesso scivolino nella ripetizione del passato, nella riedizione, magari con parole nuove, di azioni e modi già visti. La ricerca della novità nella psicoanalisi corre il pericolo di essere interna a quel discorso fondato sull’elemento cruciale della “novità”, e dunque sull’esigenza della novità, senza la quale il discorso non sopravvivrebbe. Sicché la psicoanalisi da possibilità di sovversione che apra ad un’etica particolare della felicità fa di sé l’ennesimo ripetitore del segnale inviato dai centri di produzione e diffusione dello spettacolo che offrono modelli massificati del desiderio e plasmano le modalità del godimento. Nella “nuova” psicoanalisi, che si dice “attuale”, rischiamo di vedere in azione solo l’esigenza di novità, elemento fondante dello spettacolo e del mercato: con buona pace della coerenza e della passione per il sapere, rischiamo di assistere alla proliferazione di discorsi pubblici nei quali si conducono ragionamenti che promettono di fornire la chiave di accesso al segreto funzionamento del legame sociale, dell’animo umano, dell’amore. Ragionamenti che, puntualmente, contengono passaggi repentini, quanto inconciliabili, tra opposti e contraddizioni, proprio come siamo ormai abituati a vedere e sentire negli spazi dell’informazione mass-mediatica. Sotto questo rispetto, il libro di Franco Lolli continua la riflessione che aveva avviato con L’epoca dell’inconshow (Mimesis, 2012), ma questa volta il ragionamento è messo a sistema con la tesi del declinismo e con le presunte esigenze di aggiornamento della tecnica psicoanalitica. E più forte si sente l’esigenza di difendersi dal rischio di guastare il sapere psicoanalitico solo per renderlo funzionale ad un altro discorso, il rischio di farsi fornitore di parole dall’esotico sapore clinico a quel che già riecheggia in ogni angolo e frequenza di un sistema, una società e una cultura. La psicoanalisi non può essere uno strumento di conferma del senso comune, un agente, per così dire, della “pulsione confirmatoria”, perché farsi strumento di conferma vuol dire cessare di essere analisi dell’inconscio. Per evitare che la psicoanalisi sia ridotta a fenomeno di moda e debba sopportare, come tale, le oscillazioni e le variazioni che il mercato della moda impone, la strategia, se così si può dire, è di riesaminare quel che di strutturale la psicoanalisi ha trovato, descritto e lasciato emergere dell’uomo, il suo “possesso per sempre”. In questo modo non consentirà che venga depotenziata e strumentalizzata fino a vederne sparire il suo proprio valore, anche tra le altre scienze umane.

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