Sulle paure della follia e le ritualità per esorcizzarla.

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15 febbraio, 2020 - 09:08

Claudio Re di Danimarca: «Io ho mandato a cercarlo, e a trovare il corpo.

Come pericoloso egli è che quest’uomo sia in libertà!

Pure non dobbiamo noi usar la dura legge contro di lui;

egli è amato dalla forsennata moltitudine,

che s’affeziona non secondo il giudizio, ma secondo gli occhi;

e dove la è così, il castigo dell’offensore, vien pesato,

ma non mai l’offesa. Perchè tutto vada liscio e piano,

questo improvviso mandarlo via deve parere

una meditata deliberazione; malattie divenute disperate

con disperati rimedi si alleviano,

o niente affatto».

W Shakespeare. Amleto, atto IV sc. 3 [01]

 

 

Molti anni fa, a Roma, mi capitò di attraversare Piazza dei Quiriti [02] agitando le braccia per farmi notare da mia figlia Alba Silvia con la quale avevo appuntamento ed ero in lieve ritardo. Essendo concentrato sulla persona che m’aspettava, ero completamente distratto rispetto al resto, e quella solitamente è una piazza non grande, col giardino al centro, ma molto trafficata. Udii uno stridio di freni, una macchina inchiodò le ruote e un volto stravolto si affacciò dal finestrino: «Ma che è matto?» - «Si, perchè?» risposi con naturalezza e con quel pizzico di temerarietà che rivela talvolta chi fa il nostro mestiere. O forse solo un po’ d’incoscienza. L’automobilista sbarrò gli occhi terrorizzato e fuggi via senza profferir parola. Quel poverino n’ebbe certamente paura, d’essersi incontrato casualmente con la follia, ma c’è di peggio! Ed è quando l’autorità ritiene di dover prendere provvedimenti perchè tutto vada liscio e piano ... secondo meditata deliberazione ... perchè quelle che si ritengono malattie divenute disperate con disperati rimedi si alleviano, o niente affatto. Sublime Shakespeare! Aveva già capito che la legge di Giovanni Giolitti la n. 36 del 1904 era sbagliata e anticipava - di 378 anni - la n. 180 del 1978 di Basaglia & Orsini. Questo passo del “Bardo dell'Avon” mi è rimasto scolpito nella mente fin da prima che avessi deciso di fermarmi a studiare nella Clinica che fu di Ugo Cerletti, Mario Gozzano e Cornelio Fazio, l’ultimo di quella disciplina a doppio nome “Nervose e Mentali”, in Viale dell' Università, 30, a Roma, prima che si separassero.

 

L’occasione più recente per riprendere l’argomento, è stata la pubblicazione di uno straordinario libro di Bollorino e Di Petta: "La doppia morte di Gerolamo Rizzo. Diario clinico di una follia vissuta" (ALPES Roma, 2020, p. 110, € 10.00). In breve si tratta di una, anzi due cartelle cliniche appartenute a due pazienti manicomializzati nel secolo scorso, rinvenute miracolosamente da Francesco Bollorino, tra gli archivi abbandonati e rovesciati, col materiale cartaceo sparpagliato sul pavimento di un padiglione semidiroccato del manicomio genovese di Quarto dei Mille. Pur raccontando di due omicidi di cento anni fa, legati in qualche modo alla follia, probabilmente riconducibili ad esperienze allucinatorie, fanno riflettere su come i disturbi mentali abbiano necessità di un’attenzione almeno tripla rispetto alle comuni patologie del servizio sanitario e sul fatto incredibile che il “matto” Gerolamo Rizzo sia stato perfettamente lucido da prevedere esattamente i propri “agiti catastrofici” come scrivono gli autori, ma non quello dell’altro matto che lo ucciderà 16 anni dopo in una latrina del manicomio genovese di Quarto [03].

 



 

Bruno Callieri mi raccontò una volta di un suo amico e nostro collega, Nicolai Petrilowitsch [04], ucciso da un paziente a coltellate mentre era a colloquio con lui. Il fatto lo aveva colpito e sconvolto. Non riusciva a spiegarsi come avesse potuto succedere. Che la mano fosse stata armata dalla follia era l‘ultima cosa che avrebbe potuto pensare, così come non poteva immaginare che si potesse uccidere una persona che ti stava aiutando. Anch’io ero dello stesso parere. Troppo banale, però, pensare che lo psicotico compie gesti psicotici. Questo solitamente serve al Giudice in Tribunale per valutare la capacità d’intendere e volere di un imputato di reato, e non è questo che mi appassiona. Ho fatto una sola perizia in tutta la mia carriera, al “Tribunale della Sacra Rota”, e ho testimoniato davanti al ”Difensore del Vincolo”, al Palazzo della Cancelleria, per una causa che a me pareva giusta e sacrosanta. Altro, e molto diverso, era il caso di Ludwig II re di Baviera e Bernhard von Gudden il suo psichiatra personale, trovati morti ai bordi del lago di Starnberg, dopo essere usciti dal castello di Berg, dove viveva in libertà vigilata, sempre scortato dal medico e gl’infermieri, la sera del 13 giugno 1886. La versione ufficiale parlò di suicidio per affogamento insieme allo psichiatra Gudden che, si dice, aveva tentato di salvarlo. Secondo uno studio più recente dello psichiatra e neurologo Heinz Häfner, si nascondeva qualcos’altro oltre la cortina di segreto di cui il giovane re amava circondarsi. C’era poi troppa gente nella stessa corte che preferiva disfarsi della sua presenza imbarazzante.

 

Molte volte, in passato, avevo pensato di argomentare un ragionamento molto critico sul timore generico, umano, comprensibilissimo della follia e ne avevo accennato a Bruno Callieri. Speravo di avere qualche suggerimento. Lui era un vulcano in eruzione quando intendeva approfondire un sentimento, un dubbio, un’attesa, un’emozione di base che l’interessava, per svilupparne un’indagine fenomenologica completa su tutti i risvolti immaginabili, con rimandi infiniti alla letteratura. Non solo quella di competenza specialistica ma soprattutto quella di formazione letteraria, filosofica, storica, religiosa e via discorrendo. Per quanto concerne il timore della pazzia, l’aspetto che mi convinceva meno erano i molteplici modi di esorcizzare questa paura. Ogni epoca storica, ogni temperie culturale, ogni società umana del passato, ne aveva rivelato diverse ma in fondo sempre simili perchè umane. Questo fin dall’antichità, ma Bruno mi spiazzava sempre. Il suo dialogo, le sue controdeduzioni, se così posso dire, erano inattese e mai prevedibili. Molti riferimenti erano facilmente rintracciabili nella letteratura corrente, altri nella cronaca, nel senso che era sempre aggiornato anche sulle vicende correnti. Si capiva, però subito, che la sua frequentazione col sapere mitteleuropeo e mondiale era diretta, acquisita in loco. Le sue letture, le sue curiosità, le sue ricerche, erano instancabili. Credo di aver già ricordato per coloro che sanno della mia amicizia con Bruno e del fascino che esercitava su di me come un fratello maggiore, che una volta mi lasciò di stucco dicendomi che si era comperato un “baracchino” per ascoltare i discorsi dei radioamatori di tutto il mondo. Il suo obbiettivo, diciamo il suo cimento maggiore, era quello di riuscire a decifrare il cinese! Capire l’alterità, gli-altri-da-lui, se non tutti il maggior numero possibile, attraverso la lingua, la pratica diretta del dialogo senza intermediazione, era quello cui lui ambiva maggiormente.

 

C’era anche un altro elemento che gli dava una marcia in più. Il coraggio di confrontarsi con ogni sorta di vita limite, devianza, parafilia, aberrazione, malvagità. Lui accettava di fare le perizie psichiatriche, anche quelle con le personalità più problematiche, disordinate, anomale, sciagurate. Lo aiutava forse il fatto di essere in fondo un credente razionale. In uno splendido e sapiente sodalizio con nomi di spicco della medicina e della psichiatria legale ad orientamento fenomenologico, come De Vincentis, Giorda, Semerari, Castellani, ecc. aveva affrontato i casi umani più estremi, come ad esempio la patologia necrofila di un vespillone, di cui una volta mi accennò. In non ero capace di questa sua sensibilità. Esitavo perchè non mi sentivo in grado di poter aiutare un genere umano contortamente intrappolato nelle parafilie. Non avevo le dovute cariche controfobiche per le quali il misofobico mangia di proposito, davanti ai figli, la madeleine caduta a terra, senza nemmeno passarla un attimo sotto il rubinetto. Ecco perchè, come ho detto sopra, ho fatto una sola perizia in vita mia, per difendere una donna studiosa ma troppo ingenua, che il marito voleva ripudiare per “insania”. Non che difettassi di coraggio o di quel pizzico di temerarietà indispensabili per chi fa il nostro mestiere, era semmai un fatto di “incorrispondenze” come diceva Ernst Bernhard, il maestro di “Nino” Lo Cascio. Eppoi, per fare le perizie, bisognava almeno girare dalle parti dei tribunali. Le richieste di consulenze invece ti giungevano un po’ dappertutto. Ripensandoci oggi, giacché si parla di aggressioni e di automobili, mi sovviene che moltissimi anni fa, circa una cinquantina, quando ero sicuro della mia capacità d’ascolto nell’incontro con l’altro anche in situazioni estreme di difficoltà, accettai di fare una visita domiciliare cadendo nella classica trappola di genitori spaventati e conniventi. Mi pare si trattasse di un invito a cena dalle parti del “Forlanini”. Sarei stato presentato ad un giovanotto aitante in qualità di compagno di scuola del padre. È chiaro che la cena non ebbe neppure inizio ed il giovanotto mi chiese a che titolo avrebbe dovuto rispondere ad uno sconosciuto sulle sue faccende private, soltanto perchè, forse, era stato a scuola col padre. Il fatto è che immediatamente dopo mi invitò a provare il suo “Jaguar” nuovo fiammante, regalato dal padre per i diciottanni. Non potei esentarmi. Il prezzo per ottenere un minimo di credibilità professionale, fu quello di essere condotto dal giovanotto ad oltre 100 all’ora  per i viali di Monteverde Nuovo, senza incontrare nessuna “gazzella” dei carabinieri. Lo sforzo non fu inutile. Il giorno dopo venne a trovarmi in Viale dell’Università 30, aveva in mano il mio biglietto da visita.

 

Tornando al tema iniziale, ecco che alla fine, dopo una serie di colloqui con Bruno Callieri, diedi alle stampe questo breve saggio, già comparso su “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, che oggi ripropongo nei suoi tratti essenziali, rimeditati a distanza di 45 anni. Rammento che Callieri apprezzò del saggio la chiave ironica con cui avevo impostato l’argomento. Forse ero ancora troppo jaspersiano. Troppo manicheo nell’usare il setaccio largo del  comprensibile e dell’incomprensibile. Non mi ero ancora addentrato nelle letture binswangeriane e minkowskiane. Ma soprattutto dovevo convincermi della parte più feconda del pensiero di Martin Mordechai Buber, l’ucraino della Galizia Asburgica e di formazione viennese, quella che concerne l’intersoggettività (Ich und Du). Se penso poi che Buber, era padrone di 5 lingue, mi vengono i brividi. Parlava il tedesco e l’yiddish, studiò la lingua della sua religione che era l'ebraico e le tre del “gran tour” della borghesia erudita mitteleuropea, ossia l'italiano, il francese, l'inglese, ma per studiare, da ragazzo, gli era stato indispensabile sapere  anche il polacco.

Queste sostanzialmente erano le mie tesi sui timori della follia e sulle le ritualità per tentare di esorcizzarla.

 

Tra le grandi paure che da sempre hanno turbato l’umanità in primo piano vi sono sicuramente quelle della follia e del folle. E forse, maggiormente la seconda che non la prima.

Non v’è dubbio che il credibile spettro dell’alter alienus, proprio per la sua condizione categoriale di estraneo e incognito, contribuisce a buon diritto e in misura determinante ad alimentare la più irrazionale delle paure e conseguentemente anche la più ostinata delle difese. Non a caso, nell’uso corrente, si suole completare la definizione di pazzia con tutta una serie di aggettivi chiarificatori come essa possa presentarsi di volta in volta «pericolosa», «criminale», «furiosa», «amorale», ecc. Essi sono proprio lì ad ammonire il possibile evolversi dell’ignoto fuori-dalla-nostra-mente ma in pari tempo vengono ad ipostatizzare una condizione dell’umano che perde gradualmente ogni possibilità di recupero dialettico.

Capita visitando Pompei di percepire dal cave canem che ancora compare sull’ingresso di qualche villa patrizia un debole rimando inerziale, ancorché vuoto, di un mondo fermato e sepolto; e tuttavia lungi dall’incuterci il timore di un tempo ci spingerà al massimo ad immaginare che forma avrà il vuoto di lava che racchiude in uno stampo il momento vitale di quel povero cane, oppure a meditare che oggi nessuno sente più, non dico per dovere, ma almeno per cortesia, la necessità di mettere dei cartelli per avvertirci del pericolo che corriamo respirando una certa aria o mangiando un certo cibo o sdraiandoci su un certo prato.

La grande esorcizzazione della paura del folle ha espresso, in varie epoche, in differenti contesti culturali e con diverse metodologie, numerosi cerimoniali ideologici o pragmatici che spaziano dalla soppressione fisica alla aggressione, dalla catalogazione alla nientificazione, dalla reclusione all’emarginazione, dall’oggettivazione alla negazione dello psicotico.

I problemi posti da questa paura sono molteplici e possono essere affrontati da varie angolazioni. Ora, per esempio, è la società che esige una efficace legislazione per difendersi dalla potenziale minaccia degli alienati e sarebbe bene aggiungere di quelli meno dotati e più sfortunati, poiché la storia ci dovrebbe insegnare - lezione che non vogliamo imparare mai o dimentichiamo presto - che quelli più abili sono riusciti sistematicamente ad eludere ogni tipo di difesa raggiungendo perfino posti di assoluta preminenza in seno alla società medesima per poi magari trascinarla in situazioni “pazzesche”. Ora invece è l’alienistica che per corrispondere alle sullodate esigenze della società fornisce una serie di proposizioni terapeutiche o esplicative che possono giungere fino alle posizioni più recenti di teorizzare “la consumazione del prodotto confezionato dallo psicotico” e l’analisi semantica di questo prodotto.

In ogni caso non si può non considerare un po’ più da vicino il tipo di società che mutua queste “esigenze” e quali ne siano le motivazioni reali.

Che il potere costituito di una data società guardi con sospetto ad ogni genere di devianza, etichettando come pericoloso e folle qualsivoglia tentativo di allontanamento dalla linea di pensiero e di condotta di volta in volta tracciati dalle convenienze del potere stesso (delirio significa letteralmente fuori dal solco tracciato dall’aratro) non è un mistero. Del pari, non si scopre alcunché di nuovo quando si afferma che troppo spesso la società, in nome di un ottuso perbenismo, acconsente a pagare qualsiasi prezzo pur di salvare la parte più retriva della propria coscienza dall’inquietante fantasma della follia. Tutto ciò è stato molto bene espresso da Shakespeare nell’Amleto. Claudio, Re di Danimarca allarmato per la «condotta melanconica» (o non piuttosto «presa di coscienza»?) del nipote, esclama infatti, con perfida demagogia «Non mi piace e non è cosa sicura per noi lasciare andare in giro la sua pazzia ... le condizioni del nostro Stato non possono sopportare un pericolo così vicino a noi quale è quello che di ora in ora si sviluppa dalla sua fronte».

Peraltro son fin troppo noti i rischi che corre una società allorché una scienza, magari appesantita da pregiudizi, metodologie e leggi di antica concezione, si disinteressa di fermenti culturali nuovi che incessantemente appaiono all’orizzonte del pensiero umano. Ogni distorsione può divenire possibile quando una disciplina tecnica si lascia strumentalizzare da un certo potere dominante in nome di una improbabile imparzialità, che generalmente riflette i timori di perdere vantaggiosi rapporti con quel potere. nel caso della disciplina alienistica, per esempio, si può facilmente etichettare come psicotico ogni accadimento che non si comprende, che non si vuole comprendere o non si vuole che sia compreso. In fondo il grande insegnamento che scaturisce dalla lezione di Galileo è proprio quello di farci accogliere con critica vigilanza ogni regola o legge. troppo statica per seguire il pensiero dell’uomo,.

Ma insomma questa paura dello psicotico, la psicosi stessa - si può giustamente obbiettare - non è poi mica un fatto culturale, astratto; la nostra vita quotidiana è così densa di atti folli, di folli o di presunti tali, che, dopotutto, averne timore dev’essere considerato perfettamente legittimo.

D’accordo! Se però affrontiamo meno superficialmente il problema, scopriamo che dietro la paura della follia c’è in realtà quella della violenza, la violenza nella sua modalità di esplosione improvvisa, imprevedibile, irrefrenabile. Spesso siamo portati a ritenerla gratuita e fine a se stessa, ma non è così.

Siamo certi che questo tipo di violenza apparentemente senza motivo sia sempre di origine psicotica? Ecco il punto centrale dell’argomento è proprio qui! Può essere giusto avere paura della violenza ma non sempre è altrettanto giustificato avere paura dello psicotico; può essere giusto qualificare come pericolosa la violenza ma non è altrettanto giusto attribuire la stessa aggettivazione di pericolosità allo psicotico.

È noto che ogni volta che si è tentati di associare la connotazione di pericolosità al concetto di malattia mentale, il discorso. Da qualunque punto di vista lo si voglia esaminare, si è sempre fatto ambiguo, fumoso, incerto, pretestuoso, tale comunque da ingenerare con estrema facilità, gravissime distorsioni preconcette, largamente diffuse nell’opinione pubblica, come per esempio l’equazione seguente: ogni pazzo è pericoloso, ogni individuo pericoloso non può essere che pazzo.

Ma rimaniamo al tema della violenza che meglio di ogni altro ci può aiutare in questo discorso sulla paura dello psicotico.

È facilmente rilevabile quel generale meccanismo di rassicurazione e di catarsi che scatta in tutti noi allorché di fronte allo sbigottimento provocato da un accadimento violento, clamoroso, improvviso, incomprensibile, qualcuno interviene a spiegarci che si è trattato di un raptus psicotico. Che cosa cambia in quell’accadimento? Sostanzialmente nulla; ma in fondo ognuno è autorizzato a tirare un sospiro di sollievo perchè soltanto il concetto di follia è in grado di inghiottire e di rimuovere l’angoscia che ci deriva dalla personale confrontazione con le valenze irrazionali dell’umano. E la violenza quando è possibile farla mutuare da chi-non-è-più-con-noi, non implica meditazioni sulla condizione umana ma semplicemente reclami e strepiti perché si serrino più forte i manicomi, perchè i tecnici (unici garanti e responsabili della pericolosità dell’uomo malato) aumentino la vigilanza, la custodia e, se necessario, la contro-violenza.

Giacché vi sono molte buone opportunità per scotomizzare una certa quota di violenza al di fuori della malattia mentale, di gran lunga la quota maggiore e la più pericolosa, non resta allora che chiedersi quanto grandi debbano essere i manicomi. Sicuramente oggigiorno non sarebbe più sufficiente l’intera Inghilterra come proponeva sarcasticamente Shakespeare facendo rispondere al becchino interrogato da Amleto che «dopotutto nessuno si accorgerà della di lui pazzia poiché laggiù tutti gli uomini sono pazzi quanto Amleto».

Eppure l’aggressività e la violenza anche senza scomodare la psicosi, restano le più sconcertanti modalità esistentive dell’uomo; lo seguono e si orientano come fa l’ombra col corpo. Nessun limite è immaginabile per esse. Amleto stesso dice: ora io potrei bere sangue caldo e fare azioni così crudeli che il giorno tremerebbe a guardarle».

Si possono fare anche altri esempi. Tutta la tematica del teatro beckettiano è incentrata sulla violenza della natura umana e sulla incomprensibilità. L’autore irlandese di Dublino, protestante, sembra voler dire prima di tutto che la vita è una violenza astratta, senza senso, perchè non è nulla e non corrisponde a nulla. Un pensiero lanciato nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento da Albert Camus e condiviso da molti autori del teatro dell’assurdo. In Aspettando Godot Vladimiro domanda a Estragone «E non ti hanno picchiato?» e costui «Si... ma non tanto!» Vladimiro chiede ancora: «Sempre gli stessi?» ed Estragone «Gli stessi?... non so». Qualcuno forse rammenta che questo celebre commediografo venne pugnalato alle spalle, assurdamente da un prosseneta parigino. Uscito dall’ospedale volle incontrare il suo feritore. A Beckett che gli aveva chiesto perchè lo avesse fatto rispose «non lo so». Lo trovò perfino simpatico e lo perdonò. Il che corrisponde proprio a quella inspiegabilità della condizione umana e della violenza in cui vediamo dibattersi tutti i personaggi dello scrittore e forse lui stesso. Ritengo che se fosse stato convinto che la parola raptus significa qualcosa - e tutti conosciamo molto bene la lezione di Beckett sul valore della parola come mezzo di comunicazione: «... bisogna dire delle parole fino a che ce ne sono» - certamente non avremmo avuto la sua produzione letteraria.

Beninteso, il tema generale della violenza può essere affrontato anche altrimenti che in termini puramente letterari. La prospettiva filosofica, teologica, religiosa, salvifica, utilitaristica, trascendente, ecc. ha sempre accompagnato l’essere umano fin dalla sua comparsa sulla terra, più o meno accennata, verbalizzata e scritta - per quanto riguarda l’occidente - dai presocratici a quello che Raffaello Sanzio ha dipinto nel suo famoso affresco titolato la “Scuola di Atene”. La biologia, la genetica, la psicofisiologia, la neurochimica, la psicofarmacologia, hanno molto da dire in proposito, e più ancora diranno in futuro. Tuttavia un approccio esclusivamente tecnicistico al problema non ne cambia sostanzialmente la visione ambigua, incompiuta, insoddisfatta, pessimistica. Questa posizione, per certi aspetti anche esistenzialista, lascia intravedere come il comportamento di ogni singolo uomo sia sempre in un certo senso un comportamento obbligato: dalla natura, dalla finitezza, dall’esser-gettati-nel-mondo, quel geworfenheit heideggeriano che ripropone prepotentemente il tema ontologico e ontico proiettato sul piano cartesiano delle coordinate temporali.

Un fatto però è certo, che la quota di violenza e di pericolosità dovuta al “matto” inteso nella più ruvida accezione riduttiva del termine, è trascurabile rispetto a quella che, in assoluto, si rinviene in qualunque tipo di società, specie se evoluta. Raramente infatti nella cronaca di un atto di violenza o di un crimine antisociale - purtroppo l’interesse per il “matto” di cui sopra non giunge a superare il limite della cronaca nera - si riesce ad individuare una situazione psicopatologica anche solo accennata se non un più chiaro «pregresso ricovero in O.P.».

Allora non si comprende proprio perchè si debba avere più paura di uno psicotico che non di fare un sorpasso con l’automobile o di girare per New York dopo il calar del sole o di lodare l’arbitro a una partita di calcio, tanto per fare un esempio banale.

Non si capisce nemmeno il significato di quel grande esorcismo sociale teso ad allontanare la paura della follia che si presentifica poi soltanto con l’affibbiare sinistre quanto vaghe etichette di “pericolosità” e col proporre il provvedimento del questore di polizia per il ricovero coattivo di tutti i “marginali” in «adatti luoghi di custodia, vigilanza e cura».

«Ecco gli uomini! - dice un personaggio di Beckett - Se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede». Forse il problema della paura del “matto” è tutto qui.

 

Note

01. W Shakespeare. Amleto. Testo riveduto, con versione a fronte, introduzione e commento a cura di Raffaello Piccoli. Napoli e Pisa aprile 1926. Nuova tiratura. G.C. Sansoni Editore Firenze, 1949.

02. La Piazza romana dei Quiriti è di media grandezza, ha un giardino alberato che comporta una rotatoria, al centro c’è la fotana delle Cariatidi e vi si affaccia la chiesa di San Gioacchino in Prati dove si è spento un carissimo amico, Collega e pittore polacco: Bronislaw Mazur (Cracovia 15/03/1911 Roma 15/10/1982).

03. La cosa che colpisce maggiormente di questo libro è il duplice aspetto della declinazione esistenziale: quella del narratore che racconta, un sé in rapporto agli altri e gli altri in rapporto a un sé medesimo, nella follia descritta nei dettagli (un verismo alla Zola), e quella dell’essere dentro la propria pazzia, autentica, esperita, un disperato che soffre come un dannato tormentato dalle sue dispercezioni. Ciò che stupisce del reperto unico e prezioso di Bollorino e Di Petta, è il valore letterario su due livelli incomunicanti il racconto e la malattia. Il piano letterario emozionale che fluisce ordinatamente dalle parole e quello doloroso della patologia disperata che l'accompagna perennemente, occupando la mente senza posa, anche in vacanza. I due piani, contemporaneamente raccontati dal medesimo io narrante, sono lontanissimi come appartenenti a due persone diverse, ma raggiungono il lettore e lo attanagliano con lo stupor della pazzia. È il "doppio binario" una delle radici misteriose della psicosi delirante allucinatoria cronica. L’epilogo avviene con l'uccisone del protagonista narrante da parte di un compagno, uno come lui, anche lui senza un motivo, anch'egli manicomializzato da anni, nei quadri apparentemente inanimati della cronicità, in una latrina del nosocomio, a mani nude. È proprio questo l’incendio piromane, la deflagrazione assordante, l’omicidio sanguinario che sconvolge quella che un tempo fu la morta gora della cronicità manicomiale, finchè non è stata rimossa. Che dire del libro di Bollorino e Di Petta? Descrive vissuti doppi di patologia mentale che diventano quadrupli, attorcigliandosi nella pazzia istituzionalizzata. Praticamente - Bollorino e Di Petta con questo libro - hanno estratto la radice quadrata della follia e dei manicomi, che avrebbero dovuto almeno "custodirla"... se non "curarla".

04. Nicolai Petrilowitsch, è stato uno psichiatra di lingua tedesca del Banato, regione dell’Europa banubiana appartenuta ai turchi di Solimano il Magnifico (1552), poi ceduta agli Absburgo (1718) infine, dopo il 1919 spartita tra Serbia Romania e Ungheria. Nacque il 30 ottobre 1924 in una cittadina chiamata Heideschütz in tedesco, Istvánvölgy in ungherese e Haiducica in serbo. Trovò la morte come detto a  Magonza per mano di un paziente il 29 luglio 1970.

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