Recensione a LA DOPPIA MORTE DI GEROLAMO RIZZO - Diario “clinico” di una follia vissuta, a cura di F. Bollorino e G. Di Petta

Share this
8 giugno, 2020 - 10:54
Autore: FRANCESCO BOLLORINO E GILBERTO DI PETTA
Editore: Alpes Roma
Anno: 2020
Pagine: 124
Costo: €10.45

Rare volte mi è accaduto di potermi avvicinare al mondo della persona psicotica con una tale potenza e intensità. Nel manoscritto di Gerolamo Rizzo, scritto nel 1909 e ritrovato nella cartella clinica del paziente internato presso l’ospedale psichiatrico di Quarto, è come entrare con lui nel vivo del suo mondo vissuto. A poco vale la lettura di tanti manuali di psicopatologia, se non s’impara ad ascoltare l’esperienza raccontata dai suoi protagonisti, dalla viva voce dei pazienti in prima persona. Chi meglio di lui può provare ad esprimere lo strazio che sta vivendo? Questo per me è ciò che rende questo testo molto prezioso, arricchito dalle note degli autori, che lo accompagnano con il linguaggio della psicopatologia fenomenologica e individuano gli elementi e il percorso della psicosi.
Penso che
descrivere lesperienza psicotica, per chi la vive, sia un’impresa molto difficile; l’accuratezza e la lucidità del racconto lo rendono prezioso per la comprensione dei mondi psicotici e mi sembra fondamentale approfittare delle poche occasioni in cui questo avviene con tanta chiarezza e accuratezza. Questo non è un diario da leggere, lo si vive con Gerolamo, lo si sente sulla propria pelle, ci si addentra nelle vie del dolore e della solitudine più profonda insieme a lui. Questa ricchezza di pensiero mi ha ricordato quella di Anna Rau, la paziente di Blankenburg che sintetizza nell’inciso la perdita dell’evidenza naturale quella modificazione basale dell’essere al mondo dello schizofrenico che è maggiormente evidente nelle forme paucisintomatiche. Come Anna Rau con le sue parole ci consente di avvicinarci alla comprensione di quella radicale perdita dell’ovvietà delle cose, così le parole di Gerolamo Rizzo ci fanno vivere una sorta di “discesa agli inferi”, che si manifesta con un escalation dei vissuti persecutori fino alla costruzione di un intero mondo delirante. Il testo riesce a portarci con Gerolamo nel doloroso sentimento di sentirsi soli al mondo, in preda a forze estranee e minacciose, di sentirsi puntato addosso lo sguardo malevolo degli altri e la vergogna legata alla propria  omosessualità inibita e negata ne è la cifra. L’alterità acquisisce, in tutte le sue forme, una dimensione persecutoria a tal punto che il paziente vive qualunque relazione o avvenimento come parte di un disegno minaccioso volto al suo annientamento. Immagino la comunità dei persecutori come un cerchio che si allarga sempre di più, partendo dalla donna amata ed estendendosi, senza risparmiare i familiari, fino allo Stato e alla Chiesa, rappresentata dal prete sconosciuto e innocente che verrà colpito dalla rivoltella del paziente. 


 

Gerolamo descrive, in maniera puntuale, il preciso momento della transizione psicotica, della rottura della relazione simpatetica con il mondo.  La notte in cui nella sua vita irrompono le voci che vorrebbero costringerlo a fare entrare una donna nella sua stanza trasforma irrimediabilmente e inesorabilmente il suo destino. Si tratta di voci che lui appella “i miei persecutori”, che lo tormentano “nell’anima e nel corpo”, infliggendogli angoscia, disperazione, ma anche sintomi somatici sempre più disturbanti.  

Gerolamo inoltre si serve della tecnologia per confermare la costruzione delirante: infatti, esprimendosi con un neologismo (il macrocacofono) allude ad una macchina  emanante onde, collegata al suo cervello, tramite cui i suoi nemici lo tormenterebbero 

Nella sua disperazione il paziente prova a chiedere aiuto alle istituzioni, alla Chiesa e allo Stato, avendo come unico esito la derisione e la minaccia. Prova anche ad allontanarsi da Genova, ma le voci lo seguono ovunque, senza la possibilità che ci sia un luogo preservato ed inaccessibile ai suoi nemici. Questo avviene pure per il suo spazio interno e la sua intimità, che vengono violati dai persecutori: ”ma il tormento peggiore è la schiavitù del pensiero, dell’anima: il sapere che tutti conoscono quello che penso, i miei segreti, i segreti di famiglia mi dà un tormento enorme e mi rende infelicissimo”. E si ha la perdita dei confini dell’io.  

Nel corso del diario, in cui Gerolamo inizialmente riesce a mantenere a tratti un esame di realtà, si osserva il progressivo isolamento del paziente, che si allontana sempre di più dal mondo, inghiottito dall’abisso psicotico. Non riesce a trovare conforto nemmeno nei suoi familiari. Gli unici interlocutori sono rappresentati dalle voci che lo tormentano giorno e notte senza sosta. Lo spazio rassicurante della sua città diviene il teatro del suo martirio e le amate vie della sua Genova divengono il luogo del disprezzo e dello scherno degli altri. Anche l’attività lavorativa è progressivamente compromessa nonostante gli iniziali tentativi del paziente di continuare a svolgere il suo lavoro d’insegnante. Il mondo diventa soltanto il suo mondo 

Leggendo queste pagine si avverte l’angoscia di Gerolamo e si ha la sensazione di essere oppressi da una realtà diventata persecutoria e senza scampo alcuno. Dopo tanto patire, il paziente giunge alla sua soluzione di uccidere un rappresentante del clero, si procura la rivoltella e infligge un colpo alla testa a un prete che casualmente incontra sulla sua strada. Questo gesto rappresenta per lui una sorta di “autodifesa” messa in atto per mettere fine alla persecuzione: …là successe quello che doveva succederescrive Gerolamo definendo il suo destino già stabilito, senza provare colpa o rimorso per l’omicidio compiuto. Angosciante è poi per lui  la scoperta che questo omicidio non ha messo a tacere le voci, che si ripresentano puntualmente a tormentarlo sia in carcere che nell’ospedale psichiatrico, sebbene, nel corso del tempo, si realizzino una tragica convivenza di Gerolamo con il suo mondo allucinatorio e un’attenuazione dei vissuti d’angoscia 

Dei suoi anni tra le mura dell’ospedale psichiatrico si sa ben poco. Il diario s’interrompe, le cartelle cliniche riportano pochi scarni dati, tra cui quelli relativi alla sua morte per mano di un altro paziente, che lo uccide per caso in una latrina del manicomio, lontano dal personale che doveva sorvegliare, chiudendo con un beffardo epilogo la sua tragica esistenza. 

Sicuramente per noi, lettori di oggi, questo testo ha molto da dire e costituisce un’immortale e insuperabile lezione di psicopatologia impartita dal migliore dei maestri, ossia chi ha vissuto in prima persona l’esperienza della psicosi.  

Leggendo questo diario mi sono resa conto, da psichiatra che lavora nelle istituzioni, di come le parole senza tempo di Gerolamo potrebbero avvicinarsi a quelle di alcuni dei nostri pazienti, sprofondati nell’abisso della psicosi che, nella quotidianità burocratizzata, rimangono troppo spesso inascoltati nella loro “cronicità”. E non dobbiamo dimenticarci che siamo noi a renderli dei cronici se non riusciamo a recuperare l’importanza di dare e ridare loro la parola con quell’ascolto attento, sempre interessato e curioso che fa del fenomenologo un eterno debuttante e che ci aiuta ad aprire un varco nell’incomunicabilità.

 

ALTRE RECENSIONI ON LINE DEL SAGGIO :
Giuseppe Zanda
Giovanni Martinotti
Sergio Mellina
Luigi Benevelli
Massimo Lanzaro

> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 2314