Il tormento e poi la tragedia: La doppia morte di Gerolamo Rizzo.

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1 luglio, 2020 - 13:06
Autore: FRANCESCO BOLLORINO E GILBERTO DI PETTA
Editore: Alpes Roma
Anno: 2020
Pagine: 124
Costo: €10.45
Che cosa si poteva fare?  Che cosa si può fare, anche oggi, per limitare i danni e la sofferenza che accompagnano la follia incontrollata, che fatalmente può trasformarsi in follia omicida?

A questa domanda rispondono, direttamente o indirettamente, gli interventi qualificati e competenti (veramente eccellenti) dei partecipanti alla discussione analitica del testo, nel libro stesso e nella rubrica ‘Verità nascoste’ sul quotidiano  ‘ il manifesto ’. Queste mie considerazioni hanno una loro validità e giustificazione solo come pensieri liberi di un non specialista ma interessato lettore di queste problematiche ed analizzando di lungo corso (il mio primo incontro con Emilio Servadio a metà degli anni sessanta), che sente la necessità di esprimere le proprie riflessioni su questo libro bello e coinvolgente. 

Innanzitutto la validità del memoriale stesso, così com’è, il suo valore  letterario, che riesce ad emozionare e mantenere sempre alta la tensione e l’interesse. Non ha niente da invidiare alle “Memorie di un pazzo” di Gogol o alle “Memorie del sottosuolo” (L’altro Io / Il sosia) di Dostoevskij. Con l’ulteriore pregio di  essere una cronaca vera, narrata in prima persona dallo stesso protagonista. Uno stile essenziale, asciutto, senza divagazioni: “Là successe quello che doveva succedere …”  “Se non uccidevo lui, avrei ucciso un altro … “

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Le macchine influenzanti, immaginate e inventate dal delirio degli stessi pazienti.  

Il  Macrocacofono, “ un grande dispositivo in grado di carpire il pensiero, di registrarlo e riprodurlo”. La macchinetta Marconi, una sorta di macrocacofano in formato tascabile, grande quanto un sigaro, che  poteva stare in qualunque tasca, si poteva  aprire e chiudere senza che il paziente se ne accorgesse, elettrizzandolo e imbrogliandolo, capace di cambiare tutto il senso delle parole, far dire nero quello che era bianco. E poi la telegrafia senza fili, le onde Hertz, tutte fantasie che portano alla perdita dei confini dell’Io. Quante similitudini con i nostri smartphone, con le relative App che condizionano e dirigono al nostra esistenza! 

Queste le idee deliranti scaturite dalle “macchine influenzanti” inventate da pazienti paranoici con manie di persecuzione. La psicanalista Rita Corsa approfondisce in maniera dettagliata questa tematica, con il contributo di altri analisti che hanno trattato lo stesso argomento (Tausk, Federn, Izzo).  

Leggendo queste pagine, mi è venuta in mente un’altra macchina influenzante, inventata questa  non dalla mente delirante di un folle, ma dalle menti lucide e scientifiche degli psichiatri. È una macchina molto rozza, ma considerata curativa e tuttora operativa: l’elettroshock. Secondo un’inchiesta parlamentare sul Servizio Sanitario  Nazionale del 2013, le strutture ospedaliere in cui si pratica la terapia con l’elettroshock sono 91.  Ho detto che è una macchina ‘molto rozza’ perché mi è sembrata calzante la definizione che ne diede Franco Basaglia: “L’elettroshock è come quando per sintonizzare una radio invece di avere la pazienza di muovere lentamente la manopola della sintonia, le si dà un colpo secco: a volte la radio funziona, a volte si sfascia.”  Molto bella l’espressione ‘la pazienza di muovere lentamente la manopola della sintonia’, metafora della ‘pazienza di instaurare una relazione con l’altro, per trovare la giusta sintonia, mediante il dialogo e l’ascolto ‘. Al centro dell’attenzione va messo il malato, la persona, ricollegando la malattia alla sua storia, al suo ambiente, alla sua sofferenza. Che non può essere ridotta soltanto a malattia. Un’operazione complessa, dunque, che non può essere risolta con tre o quattro botte sulla testa che non funziona.  A fronte di qualche risultato positivo e passeggero nell’uso corretto di questa pratica, si contano numerosi casi di abusi e conseguenze negative e irreversibili.  Lo stesso Ugo Cerletti, inventore dell’elettroshock, in seguito prese le distanze dall’uso esclusivo ed improprio che si faceva di questa terapia elettroconvulsivante (TEC). Al centro di tutto doveva rimanere, secondo Cerletti,  il rapporto tra il medico e il paziente, perché era fermamente convinto dell’importanza del fattore psicologico sull’origine dei disturbi mentali. E si rifiutò di  brevettare la TEC poiché aveva deciso di astenersi dal ricavare benefici economici dalla propria scoperta. Non così i suoi assistenti e collaboratori, convinti degli effetti benefici delle convulsioni provocate dalla corrente elettrica, insieme ad altri sistemi (il coma insulinico) ed a farmaci convulsivanti (il metrazolo) per provocare una “salutare crisi epilettica” nel trattamento della schizofrenia.   

Ma questa tecnica è stata spesso utilizzata impropriamente da molti psichiatri. Un caso emblematico è stato quello di Giorgio Coda, psichiatra e professore universitario, vicedirettore dell’ospedale psichiatrico di Collegno, direttore di Villa Azzurra (struttura per bambini) a Grugliasco. Fu processato nel periodo 1970-1974 per maltrattamenti con relativa condanna  di detenzione e all’interdizione dalla professione medica per cinque anni. Divenne noto in quegli anni come “l’elettricista”, oppure come “l’elettricista di Collegno” per analogia con “lo smemorato di Collegno”. Il ‘trattamento medico ‘ consisteva nell’applicazione di scariche di elettroshock durature ai genitali e alla testa che provocavano al malato lancinanti dolori. Tutto questo avrebbe dovuto, secondo il prof. Coda, curare il paziente. Il trattamento veniva chiamato ‘elettroshock’ se applicato alla testa, ‘elettromassaggio’ se applicato ai genitali. Quasi sempre il trattamento veniva praticato senza anestesia, senza gomma in bocca, facendo così saltare i denti al paziente. Giorgio Coda ha ammesso, durante il processo, di aver praticato circa 5000  elettromassaggi . Il trattamento veniva praticato anche su alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali e masturbatori.   Tutto questo viene riportato con dovizia di particolari nel libro “Portami su quello che canta. Processo a uno psichiatra” di Alberto Papuzzi e Piera Piatti – Einaudi 1977. Il titolo del libro deriverebbe da una frase di Giorgio Coda, il quale avrebbe sentito cantare un malato in cortile e avrebbe deciso di praticargli per punizione un elettromassaggio, chiedendo all’infermiere:”Portami su quello che canta”.  Nel libro vengono analizzati gli atti del processo, la sentenza, e viene messo in luce il carattere coercitivo e punitivo degli elettromassaggi,  quali atroci strumenti di tortura e punizione usati anche su bambini. Si ipotizza che alcuni suicidi, verificatisi nell’Ospedale in quel periodo, siano stati provocati dalla paura della sofferenza dei trattamenti.    

Altro che delirio omicida del folle Gerolamo Rizzo! In questo caso la ‘macchina elettrica’,  che avrebbe dovuto lenire i dolori e le sofferenze, serviva proprio per moltiplicare dolore e sofferenza, in un programma sadico e paranoico degno di un lager. La “macchina influenzante” non è più un delirio di una mente paranoica, ma una realtà creata da uomini di scienza  per scuotere le teste che non funzionano e, in mano a ‘scienziati folli’, per minacciare, punire, torturare. Il sadismo in nome della scienza. La violenza in nome della normalità. 

Il processo Coda scosse molto e fece discutere l’opinione pubblica. Il dibattito che ne scaturì contribuì ad accelerare l’approvazione della legge Basaglia (L. 180 del 1978), che ha portato ad una profonda revisione del Trattamento sanitario obbligatorio (TSO), fino alla chiusura di tutti gli Ospedali psichiatrici nei decenni successivi.

Che cosa si fa, si può fare oggi per lenire le sofferenze mentali. Realisticamente, senza pensare a programmi utopistici, alla eliminazione universale del dolore e del malessere. 

In un  libro del 1981, “La malattia chiamata uomo” , Ferdinando Camon racconta il suo lungo peregrinare analitico per lenire la profonda sofferenza depressiva. Alla fine ne esce più in pace con se stesso, meno arrabbiato con gli altri e con la vita, ma soprattutto comprende che il malessere  che ci portiamo dentro fa parte integrante della nostra esistenza, della nostra natura umana. Possiamo solo lavorare e lottare per limitare il disagio, ma non eliminarlo. La malattia chiamata uomo, appunto.   

Tornando alla tragica vicenda di Gerolamo Rizzo, ci chiediamo ancora: che si poteva fare per lui? I medici, le Istituzioni, la società, che cosa avrebbe potuto fare, tenuto conto anche delle conoscenze scientifiche degli inizi del ‘900?  Paradossalmente è lo stesso Rizzo che ci dà una risposta. Innanzitutto la richiesta ripetuta, anche se confusa e scomposta, di aiuto, di dialogo con più persone. La vicinanza e disponibilità dei fratelli (invito a pranzare e dormire in casa loro, suggerimento di farsi coraggio, distrarsi, ecc.) non bastano più. Si rivolge alle forze dell’ordine, al commissariato, poi al Cardinale e a Padre Semeria, quali rappresentanti della Chiesa-Madre; in seguito si rivolge ai signori,  ai nobili d’Italia e al re Vittorio Emanuele III, quali rappresentanti dello Stato-Padre. Ma non ottiene le risposte sperate, solo parole distratte ed evasive, che esasperano ulteriormente il suo isolamento psichico. Come dire: avrei voluto risposte più attente e più competenti alle mie domande. Una conferma a queste ipotesi ci vengono da Rizzo stesso con un’insolita lucidità, dopo essere stato sei mesi e sei giorni in carcere,  prima di essere mandato in manicomio: ” Ora io mi domando che criterio hanno seguito i miei giudici a farmi fare sei mesi di carcere.; se sono pazzo, perché non mi hanno portato direttamente al manicomio. (…) Il posto naturale è il manicomio, dove ci sono medici specialisti che visitano diverse volte al giorno e curano gli ammalati … Invece in carcere dopo due tre visite dei periti, io e i miei compagni, non avemmo che qualche rara visita del medico della prigione, il quale del resto non è specialista delle malattie mentali, e che ordinava qualche purga e qualche medicamento atto a guarire le altre parti del corpo, ma non il cervello.” 

Straordinaria lucidità. Detto in altri termini: … Io avevo bisogno di cure mediche, di specialisti con cui parlare e confidarmi, che sapessero ascoltarmi e aiutarmi; non l’isolamento e la detenzione per sei mesi, qualche purga e qualche medicamento solo per il corpo, ma non per il mio spirito. 

Quindi ricerca di ascolto, cura, interessamento da parte degli altri, pur nella confusione e contraddizione delle richieste.

Un’ultima riflessione sull’intervento della psicanalista Rita Corsa. Nella sua ricca analisi vengono riportate le parole di un altro psicanalista, Paul Federn, che nel suo libro ”Psicosi e psicologia dell’Io” afferma che “la cura del soggetto psicotico non può prescindere dall’intervento di una donna ragionevole, che incarni il personaggio della madre e della sorella. Il malato va sostenuto nella vita quotidiana, coinvolgendo i familiari e costruendogli intorno un ambiente terapeutico ordinato e costituito da molteplici figure di riferimento”. Consigli antichi, quelli di Federn, ma che mantengono un’indiscutibile validità ancora ai nostri giorni per chi si avventura nel singolare pianeta abitato dalla psicosi.’(pag. 63-64).   

Quindi ambiente familiare di sostegno e di affetto, con l’intervento terapeutico di uno specialista (analista, psicoterapeuta) che incarni le figure affettive primarie della sua infanzia (madre e padre innanzitutto). Ricreare e ripristinare, insomma, un clima positivo di ascolto (vero),  di interessamento (vero), di “sincerità da parte del curante e ogni inganno e ogni menzogna vanno evitati” (pag. 63).   Un “Ascolto rispettoso”, come sostiene in un bel libro la psicanalista Luciana Nissim Momigliano. Non un ascolto sospettoso, distante, distratto, che può solo perpetuare un atteggiamento altrettanto sospettoso e distante. Non parole vuote o mendaci, ma un linguaggio vero e positivo, che riproponga a chi soffre un clima di serenità e di fiducia che era stato inquinato o negato. È stata la modalità d’intervento e di relazione di molti analisti e psicoterapeuti dopo Freud, da Ferenczi a Winnicott, da Bollas a Callieri, per citarne solo qualcuno. Dialogo, verità, partecipazione alla sofferenza degli altri, soprattutto i più deboli. È quello che avrebbe voluto sentire e avere Gerolamo Rizzo.  È quello che in definitiva  ognuno di noi vorrebbe sentire e avere  dall’altro / dall’altra.   E’ quello che ognuno di noi dovrebbe dare all’altro / all’altra. 

 

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