Recensione: La sofferenza umana – Aspetto patico dell’esistenza. Di Eugène Minkowski

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5 luglio, 2020 - 07:18
Autore: Eugène Minkowski
Editore: Solfanelli
Anno: 2020
Pagine: 56
Costo: €6.65

und nur ein ewig wildes Weh wacht  

in einer Seele Einsamkeit.”  

“Solo una eterna sofferenza è desta 

dentro l’anima mia.” 

(Rainer Maria Rilke) 

 

Quando alcuni di noi sentono ancora attuali i lavori di fini psicopatologi come Eugène Minkowski, scritti quasi un secolo fa, ci fanno cogliere inevitabilmente quanto umanamente pregnante sia stata non solo l’atmosfera di quegli anni, ma anche il modo di porsi di fronte all’umano. Per questo la ripresa di questo scritto, riportato alla luce inizialmente da Silvia Peronaci e curato poi da Gianluca Valle, tradotto dal francese per la prima volta da Giuseppe Grasso, ci fa accorgere quanto sia ancora nostra intenzione restare umani.  

Prima di addentrarci sullo scritto volevo porre l’attenzione al contesto per cui questo elaborato fu preparato dall’autore franco-russo: per una conferenza al Centro di neurologia di Bruxelles il 23 ottobre 1955, in occasione dei venticinque anni di insegnamento dell’amico e collega Étienne de Greeff (criminologo e docente). Nostalgia dei tempi andati? Tempi in cui negli ambiti clinici, oggi organicistici, si dava la parola all’umano esistere? Quando peraltro alcuni di noi non erano ancora nati? Forse una possibile risposta la ritroviamo proprio in questo lavoro: “Questo è il duro presente da cui germina quel sospiro per i «cari tempi andati», con lo sguardo tuttavia rivolto al futuro, verso la dimensione più importante fra tutte quelle che caratterizzano il tempo vissuto, non già o non solo quale una semplice proiezione dei cari vecchi tempi, perché il futuro, nella sua potenza inalterabile, è sempre «giovane», non deriva mai dai «vecchi tempi» né, in un certo senso, da quei «cari tempi». […]. È in tale prospettiva che la nostalgia del bene ricercato trova la propria ragion d’essere.” (p.29). 



 

 

“Mi capita di dirmi che sarò molto contento il giorno in cui avrò fra le mani un manuale di psicologia in cui si parli, sia pure in mezza pagina, anziché delle sensazioni, della memoria e di altro ancora, della nostalgia e di quel protendersi della vita verso il futuro richiamato in noi anche da tanti altri fenomeni. È una delle mie piccole «nostalgie» che non ho potuto fare a meno di ricordare qui di sfuggita.” (p. 30). Chissà se un giorno riusciremo ad accontentarlo. 

Tutti riconosciamo in Minkowski lo sguardo rivolto al futuro, al divenire, che mostra la prossimità al pensiero di Bergson, ma possiamo, e questo lavoro ce lo concede, intravedere l’originale declinazione fenomenologica che passando per il “logos” incontra il “pathos”. 

La sofferenza umana, non è solo il titolo di questo scritto, ma si mostra come lo sfondo su cui le parole di Eugène divengono inchiostro che cercano inesorabilmente di far divenire comprensibile quel fondo “patico” che costituisce l’umano esistere, in occasione peraltro di un evento gioioso come quello di un anniversario, i venticinque anni di insegnamento di de Greeff, lasciando emergere quanto questo fondo che parrebbe al senso comune come negativo, sia invece la condizione di possibilità, il varco che aprendosi spinge verso il futuro. 

L’autore ripete a più riprese la frase di un noto lavoro di Balzac, “Chi ha sofferto molto, ha vissuto molto”, con l’intento di rimarcare l’importanza della sofferenza, come aspetto patico e non patologico dell’umano esistere che nel vissuto ritrova la via per esserci nel mondo. Non è un elogio alla sofferenza bensì una constatazione dell’inevitabile presenza di questo sentire, che non è frutto solo ed esclusivamente di qualcosa che nella vita ci abbia fatto male; inevitabilmente ci ritroviamo nella vita a farne esperienza. 

Uno scritto questo che non solo anticipa cronologicamente l’elaborazione nel 1966 del “Trattato di psicopatologia, dove ritroviamo nelle “considerazioni conclusive” un ritorno sul tema ed un’elaborazione ulteriore sia della sofferenza umana che degli altri aspetti patici, ma che ci mostra lo sviluppo attraverso l’esercizio fenomenologico del fare psicopatologico, che si interroga senza sosta sui fenomeni umani, attraversando e descrivendo le “regioni” del fenomeno intenzionato, fino a cercare di scorgere, vedere, quello che essenzialmente costituisce il fenomeno stesso. Per questo dopo aver attraversato per prossimità e contiguità, la nostalgia, la pena, il penare, fino a raggiungere e lambire l’angoscia e l’ansia, ritrova in questi come nella sofferenza umana il loro essere aspetti patici dell’esistenza. 

A questo punto una breve digressione sul “patico” sembra opportuna. Questo termine è utilizzato per la prima volta da Erwin Straus, nel 1930 lo psicologo lo usa nell’analisi della connessione strutturale tra funzione percettiva e funzione motoria,  e successivamente introdotto in ambito filosofico da Viktor Von Weiszeacker, nel 1939. Ancora oggi non è molto adoperato in ambito sia clinico che accademico; forse proprio per il suo essere il rappresentante di un qualcosa che sfugge alla ragione, che appare come la condizione di possibilità della vita emozionale, pertanto risultando caotico, poco fermo, come la lava incandescente del vulcano.  

In Italia non ci siamo fatti sfuggire il fenomeno patico, ne sono testimonianza, tra gli altri, i lavori di: Aldo Masullo, con “Paticità e indifferenza”, dal versante filosofico; Lorenzo Calvi, con  “La coscienza paziente” , dal versante psicopatologico; Gilberto Di Petta, con laGruppoanalisi dell’esserci”, dal versante psicoterapeutico, una vera e propria terapia delle emozioni condivise, da lui praticata prima con le tossicodipendenze ed ora in ambito carcerario, e timidamente portata avanti da alcuni di noi in vari contesti come quello ospedaliero e scolastico. 

Minkowski con il suo linguaggio fluente e sempre sul pezzo, non perde l’occasione per rimarcare forte e chiaro che questa componente dell’umana esistenza, la sofferenza umana, non deve assolutamente essere sempre considerata patologica, anzi, ci invita a non patologizzare tutto l’accadere umano per riempire le pagine dei nostri manuali diagnostici.  

Certo che dopo aver letto questo scritto non ci si può non sentire, nonostante tutte le dovute cautele, come esseri non immuni dall’incontrare quel fondo patico che ci caratterizza; quindi non ci resta che prenderne atto. A questo punto noi con Pino Daniele possiamo dire: “yes i know my way”. Questo è il titolo di una sua canzone in cui ritroviamo anche la fraseMa si haje suffrì' caccia 'a currea” (trad. Ma se devi soffrire tira fuori la cinghia), che in un certo senso ricalca le parole di Eugène quando dice: “[…] la sofferenza supera le malattie e il male perpetrato per mano degli uomini. Ci segue e non possiamo evitarla. Possiamo solo affrontarla.” (pp. 24-25).

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